Il Neomoderno e il nuovo Rinascimento italiano

 

Un termine prezioso: Neomoderno. Un'esigenza fondamentale: superare il Postmoderno. Una proposta inadeguata: La condizione neomoderna di Roberto Mordacci.

 

di Gabriele Zuppa

 

Michelangelo, "Sibilla Libica", Cappella Sistina
Michelangelo, "Sibilla Libica", Cappella Sistina

 

Il 2017 ha dato alla luce un libercolo prezioso, La condizione neomoderna (ed. Einaudi), per il termine che suggerisce: «neomoderno». L'autore, Roberto Mordacci, cerca di capire la crisi perdurante dell'Occidente: 2009, 2001, 1989, 1973 – da quando dal secondo dopoguerra le cose hanno cominciato ad andare storte e perché? La complessità a cui far fronte è enorme, tanto che la questione non è solo economica o politica o religiosa o ideologica – per usare un termine desueto. Potrebbe esserci – è questa la tesi avanzata da Mordacci – qualcosa di ben più profondo che va rivisto: l'orizzonte culturale entro cui l'Occidente, e il mondo che su di esso modella la sua globalizzazione, si dispiega. Sono le categorie fondamentali che guidano l'economia, la politica, la religione, e la società tutta, che devono essere ripensate. Noi di AM lo andiamo sostenendo da oltre un decennio e ci siamo prodigati di mostrarlo e dare il nostro contributo di cambiamento attraverso i saggi di AM Edizioni, gli articoli della Gazzetta filosofica e la divulgazione di Filosofia e Storia della filosofia. Il neologismo di Mordacci indica con precisione l'esigenza di riprendere il discorso filosofico della modernità per superare il naufragio categoriale postmoderno, ma non riesce ad andare oltre. Il termine è efficace, ma la diagnosi è incapace anche solo di avvicinarsi al cuore del problema. Richiameremo qui solo quattro ragioni per l'impossibilità ovvia di far fronte e di giustificare – così come proposto in La condizione neomoderna – un ripensamento storico-concettuale degli ultimi due secoli almeno.

 

Michelangelo, "Sibilla Persica", Cappella Sistina
Michelangelo, "Sibilla Persica", Cappella Sistina

 

1) Mordacci ritiene che l'universalismo idealistico sia già una degenerazione filosofica – segnatamente di ciò che egli intende come modernità – e che quindi il Postmoderno commetta un errore ad opporsi ad esso come se fosse la modernità da cui prendere le distanze. Insomma, il Postmoderno commetterebbe già un errore nell'individuare nell'idealismo, come pure nel positivismo, il compimento della modernità da cui prendere le distanze. Senza poter qui addentrarci in un'adeguata disamina teoretica, la problematicità di una tale tesi la si può trovare anche in due nostri recenti articoli in cui si mostra come i padri dell'idealismo imputato, Fichte e Hegel, avessero ben chiara la deriva concettuale che l'Occidente iniziava a vivere e a cui era destinato. Molto prima di Nietzsche. Detto altrimenti: le categorie postmoderne sono così povere che non riescono a capire coloro che già avevano annunciato il loro avvento. Neomoderno inteso come uscita dal Postmoderno non sarebbe dunque la liquidazione dell'idealismo, ma la consapevolezza che le categorie lì sviluppate adeguatamente proseguono il discorso filosofico della modernità e che questo percorso non è mai stato abbandonato da chi quella tradizione l'ha compresa, l'ha valorizzata e l'ha proseguita con successo. Si tratta della filosofia italiana che ha difeso e dimostrato il contenuto epistemico della filosofia e il senso veritativo di ogni impresa umana, che da Spaventa ha condotto a Severino, con qualche eccezione eccellente: Gómez Dávila tra tutti. Uscire dalla crisi allora significherebbe capire che la filosofia italiana è al momento la sola tradizione rimasta accesa e in grado di riproporre, a distanza di cinque secoli, un nuovo Rinascimento.

 

Michelangelo, "Sibilla Cumana", Cappella Sistina
Michelangelo, "Sibilla Cumana", Cappella Sistina

 

2) La ricostruzione storiografica di Mordacci è dunque ben allineata col Postmoderno. Nondimeno lo è il suo modo di argomentare, per esempio – e di esempi ce ne sono ad libitum – quando afferma:

 

« Non si tratta del ritorno al soggetto metafisico dell'antichità né di quello del soggetto certo di se stesso e delle sue idee chiare e distinte inaugurato dal cogito, ma di una soggettività operante, che riunisce le esperienze e conferisce a esse l'ordine necessario a disporre la formazione delle conoscenze (che non costituiscono un sistema chiuso) e soprattutto la deliberazione e l'azione. »

 

Bisognerebbe chiedere a Mordacci e al Postmoderno tutto quale sia il «soggetto metafisico dell'antichità» perché da anni ci si scaglia contro di esso – sollecitando così a non confrontarsi con i classici, liquidati come ingenuità metafisica –, ma nell'antichità la metafisica è il tentativo di indicare che l'essere non è solo quello che qui ed ora appare, ma che c'è qualcosa che trascende la nostra ignoranza. Quando Socrate invita a prendersi cura della propria anima non intende riferirsi a chissà quale «soggetto metafisico», ma a ciò che trascende il possesso dei beni che si desiderano, ovvero la conoscenza di cosa farne per realizzare la propria vita. L'anima è l'unità della propria esistenza, senza la quale la vita si debilita fino a dissolversi: non molto diversamente è intesa da Platone, da Aristotele, ecc.

 

Bisognerebbe quindi chiedere a Mordacci e al Postmoderno tutto quali problemi abbiano riscontrato in un «soggetto certo di se stesso e delle sue idee chiare e distinte inaugurato dal cogito». Non è questa l'esigenza stessa della filosofia, che, nel caso specifico di Cartesio, lo porta a scoprire il carattere trascendentale del pensiero? Vorrebbero loro non accertarsi di quel che asseriscono? Intendono negare qualsiasi trascendentale e ridurre tutto al qui ed ora empirico, che, proprio perché ridotto al qui ed ora non ritiene di dover dare ragione di nulla che lo trascenda, poiché niente sarebbe vero se non ciò che sia ritenuto tale? Il Postmoderno lo fa da decenni, da due secoli, ancor prima di chiamarsi Postmoderno, quando aveva il nome più tecnico di Nichilismo e iniziava a diffondersi nell'Ottocento.

 

Segnatamente, l'esigenza di «una soggettività operante, che riunisce le esperienze e conferisce a essere l'ordine necessario a disporre la formazione delle conoscenze (che non costituiscono un sistema chiuso)» costituisce l'esigenza e la realizzazione della filosofia da sempre, presente nelle grandi filosofie della storia e misconosciuta nelle povere filosofie postmoderne e, pare, pure anche nella proposta di Mordacci. Il quale, appunto, contrappone l'antichità e la prima modernità alla sua istanza, quando invece la sua esigenza è realizzata in Cartesio come in Hegel. In generale, chi dipinga un Cartesio razionalista in contrapposizione alla ricerca empirica, uno Hegel ultimo metafisico in contrapposizione alle scienze positive o, lanciatissimo nel suo ardire, la filosofia alla scienza in generale, costui dovrebbe piuttosto – per essere un poco nel vero – contrapporre se stesso alla comprensione della filosofia, delle scienze, della loro storia. Così, di passaggio, si legga:

 

« Non solo la Filosofia deve accordarsi all'esperienza della Natura, ma la genesi e la formazione delle scienze filosofiche ha come presupposto e condizione la fisica empirica. » (G.W.F. Hegel, Enciclopedia, 1830)

 

« Ma devo anche confessare che la potenza della natura è così ampia e vasta, e i suoi princìpi così semplici e generali, che non mi accade quasi più di notare qualche effetto particolare senza capire subito che può essere dedotto in parecchi modi diversi e che, di solito, la mia più grande difficoltà sta nel trovare in quale di queste maniere ne dipende. Infatti in proposito, non vedo che un espediente: cercare di stabilire nuove esperienze i cui risultati siano diversi secondo che ne siano dedotti in un modo piuttosto che nell’altro. » (R. Descartes, Principi di filosofia, 1644)

 

Michelangelo, "Sibilla Delfica", Cappella Sistina
Michelangelo, "Sibilla Delfica", Cappella Sistina

 

3) E di nuovo, arrivando al terzo punto, l'esigenza di un maggior confronto avanzata da Mordacci vorrebbe contrapporsi al Postmoderno finendo però per proporre nondimeno una figura postmoderna, un fantomatico

 

« soggetto pratico, cioè un individuo che si riconosce anzitutto nell'azione, nell'esercizio delle capacità sia conoscitive sia morali e politiche, che non fa dipendere l'agire […] da una mera speculazione, ma anzitutto prova, ipotizza e verifica, saggia e azzarda. »

 

Che cosa sarebbe infatti «la mera speculazione»? È un altro spauracchio al pari della metafisica, esistiti non nella storia, ma solo nella fantasia di chi, non avendoci capito pressoché nulla, ne prende le distanze – non accorgendosi che proprio in ciò risiede la meta a cui vorrebbero giungere. Del resto, se «la mera speculazione» è qualcosa che non è mai esistito perché è impensabile; è mai pensabile un soggetto che non sia «pratico»? Contrapporre la teoria alla pratica è uno degli errori capitali – esso sì! – di parte della nostra tradizione filosofica e più che mai del Postmoderno. Fare è sapere cosa fare e, viceversa, sapere è sapere cosa si possa e si debba fare. Il relativismo postmoderno che non chiede più ragioni, perché ognuno avrebbe le proprie ragioni, i propri princìpi – ingiudicabili e incommensurabili –, insomma, la propria verità, non verrà superato, né dalla pratica né dalla speculazione, ma dal ricominciare a rivedere il loro nesso necessario, garanzia che quel che si fa non sia una sciocchezza e che quel che si sa non sia vana presunzione.

 

Così, certamente, «la tolleranza non può in alcun modo basarsi sul relativismo: quest'ultimo è privo di ogni difesa nei confronti degli integralismi», ma nondimeno l'uscita dal postmoderno dovrebbe esibire un sapere per cui l'integralismo sarebbe da evitare, perché se questo non lo si sa dimostrare, il rifiuto dell'integralismo diviene di nuovo una preferenza soggettiva, relativa, arbitraria, ugualmente integralista, ovvero equidistante dall'integralismo come l'integralismo lo è dalla prospettiva che lo rifiuta: l'integralismo vede a sua volta la posizione che lo nega come integralismo.

 

Michelangelo, "Sibilla Eritrea", Cappella Sistina
Michelangelo, "Sibilla Eritrea", Cappella Sistina

 

4) L'orizzonte ristretto che impedisce a Mordacci di svolgere un'analisi pertinente è presente fin dall'esordio del suo libello, che recita:

 

« Il postmoderno è morto. Ha dominato la scena culturale europea per quasi mezzo secolo, ma la sua fine è avvenuta l'11 settembre 2001 e le sue esequie, protrattesi a lungo, sono iniziate con la crisi economica del 2007. »

 

E poco prima si leggeva che a detta dei postmoderni «la modernità conteneva un principio, quello della ragione, che ha generato le peggiori sciagure della storia, dall'Olocausto alla guerra nucleare, dall'ingiustizia sociale al riscaldamento globale». Così, continua, per evitare la violenza della verità ci si è espressi «contro l'etica della verità». Ma è accaduto piuttosto il contrario: il capitalismo sfrenato si è sviluppato proprio nell'assenza del riconoscimento di verità alcuna, che è divenuto colonialismo, sviluppatosi poi nei due conflitti mondiali. Il problema non sono la verità e l'etica, ma l'assenza della loro ricerca, da due secoli ormai. Così l'11 settembre e l'ennesima crisi economica non sono prodotti del Postmoderno come lo intende Mordacci, cioè come un fenomeno degli ultimi cinquant'anni, ma come quel fenomeno che perdura da due secoli e che ha prodotto il susseguirsi di catastrofi che non si sono ancora arrestate, non da ultimo quella economica, come ho spiegato in La catastrofe economica e il suo orizzonte postmoderno.

 

Insomma, Mordacci ha espresso una volta di più il disagio diffuso e dilagante, ci ha fornito un termine prezioso che sarà bene far circolare come una speranza da adempiere, ma la sostanza della sua analisi e della sua proposta in quel libello rimane irrimediabilmente e profondamente postmoderna. Molto di più ci attende per una speranza neomoderna, per una società dell'avvenire diversa da quella attuale, per un nuovo Rinascimento. Che ha, al momento, tutte le stigmate per avere un'origine italiana.

 

31 dicembre 2017

 

 

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