La storiografia filosofica è peccaminosa in generale perché pretende di ricostruire la storia senza “fare filosofia”, e nel particolare perché è stata dimentica de I tratti fondamentali dell'epoca presente di Fichte, la cui disamina anticipa Nietzsche di decenni. Un lavoro di Diego Fusaro, che viene qui recensito, la ripropone alla nostra attenzione.
Saper vedere ciò che gli altri non vedono – questo è senz'altro un segno distintivo del filosofo, la cui concettualità consente di meglio distinguere, individuare, orientare. Uno dei meriti da ascrivere senz'altro a Diego Fusaro è di aver riportato l'attenzione sulla ricchissima opera di Fichte, indicandone il valore, finora appiattita a momento manualistico, a lavoro precorritore di Hegel, tanto poco attuale quanto può essere oggi la metafisica, ancor meno attuale di quanto possa oggi essere l'idealismo hegeliano.
Beninteso, per chi scrive idealismo e metafisica, benché misconosciuti e ignorati, rappresentano il culmine del riscatto possibile dell'Occidente. Ma la scalata all'oltrepassamento del Postmoderno – del suo relativismo indifferente, della sua altalena tra l'inedia e la bulimia – non può che procedere a piccoli passi, rivolgendosi a ciò che è più prossimo. Così, ciò che possiamo già trovare di attuale e familiare in Fichte è l'analisi che egli fa della sua epoca presente. Sì, I tratti fondamentali dell'epoca presente – l'opera a cui Fusaro dedica la sua monografia – sono i medesimi tratti che riscontriamo in questo inizio di XXI secolo postmoderno. Il presente di Fichte si estende per due secoli: possibile?
Fichte e la compiuta peccaminosità. Filosofia della storia e critica del presente nei “Grundzüge” è la terza monografia che Fusaro scrive su Fichte per Il Melangolo – dopo Idealismo e prassi: Fichte, Marx e Gentile (2013) e Fichte e l'anarchia del commercio. Genesi e sviluppo del concetto di “Stato commerciale chiuso” (2014) –, segnatamente su una delle tre opere indicate dallo stesso filosofo di Rammenau come essoteriche:
« Queste lezioni, insieme con quelle di recente apparse sui Tratti fondamentali dell'epoca presente e su L'essenza del dotto, rappresentano una dottrina compiuta in forma popolare e sono, tutte insieme, l'esito della riflessione che da sei o sette anni sto sviluppando senza tregua. » (J.G. Fichte, Avviamento alla vita beata)
Si tratta delle lezioni di filosofia della storia tenute a Berlino dal 4 novembre 1804 al 17 marzo 1805, pubblicate nel 1806 con il titolo Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters (tr. it. Guerini, Milano 1999).
Fichte definisce la sua epoca come fase della compiuta peccaminosità (vollendete Sündhaftigkeit), segnatamente:
« l'età dell'assoluta indifferenza verso ogni verità e dell'assoluta sfrenatezza senza un concorde filo conduttore. »
Non sono queste parole la descrizione perfetta del Postmoderno, che si crede libero dall'ideologia, dal peso della verità, dall'eredità della tradizione che salta a piè pari? Il Postmoderno, che per scongiurare la violenza della presunzione della verità ha finito per negare la verità, ritrovandosi nella violenza dell'equivalenza delle verità, è seguìto all'epoca che Fichte dice essere
« dei sistemi di dottrina e di vita positivi, che mai risalgono ai princìpi ultimi e per questo non sono capaci di convincere, ma hanno brama invece di costringere, esigendo fede cieca e obbedienza incondizionate. »
Com'è possibile che Fichte descrivesse con lucidità le sorti che ci sarebbero toccate? Peraltro, ben prima del momento filosofico che è considerato come spartiacque tra moderno e postmoderno: la filosofia di Nietzsche. Fusaro non tenta di rispondere a questo interrogativo cruciale; anzi, non lo pone nemmeno, volendo probabilmente limitarsi alla ricostruzione dei contenuti dell'opera fichtiana – secondo l'uso invalso accademico – ma esponendo la sua encomiabile segnalazione alla critica di parziale inutilità: non era preferibile limitare la stesura di 350 pp., andando oltre la riproposizione del medesimo percorso di Fichte, quando si può leggere direttamente il lavoro del filosofo tedesco? Un riedizione dei Grundzüge con un'ampia introduzione, così come Fusaro ha già fatto con opere di Marx sarebbe stata più opportuna. Il rischio è quello che corrono tutti i lavori esangui accademici, ben sintetizzato da Gómez Dávila:
« Un archivio nutrito, una biblioteca imponente, un'università seria, producono oggi quella valanga di libri che non contengono né un errore, né un risultato. »
Non sarò io a trarre qui le conclusioni, poiché nelle pagine dello studio si riconosce il trasporto del polemista e dell'intellettuale che sa di avere un ruolo sociale e che ricerca per trasformare il presente che descrive. Così, non è esagerato asserire che la ricostruzione, che Fichte fa delle epoche passate, assieme alla previsione di quelle future, sia abbracciata dal filosofo italiano e che, per di più, il senso di una tale monografia sia proprio dettata dal proposito di passare dalla terza epoca – quella presente – alla quarta. Vediamole nelle parole di Fichte:
« [La storia] si divide in cinque epoche capitali: quella in cui la ragione regna come istinto cieco; quella in cui questo istinto si tramuta in un'autorità che comanda esteriormente; quella in cui il dominio di questa autorità e, con essa, la ragione viene distrutta; quella in cui la ragione e le sue leggi vengono concepite con chiara coscienza; infine, quella in cui tutti i rapporti del genere sono diretti e ordinati con arte consumata secondo quelle leggi della ragione. »
L'epoca presente è dunque caratterizzata da una libertà negativa, che si disfa del passato, ma rimane spaesata:
« Il colmo dell'intelligenza sarà per l'epoca dubitare di tutto e non prendere partito in alcuna cosa, sia a favore che contro: essa riporrà la vera e perfetta saggezza in questa neutralità, in questa imperturbabile imparzialità, in questa incorruttibile indifferenza verso ogni verità, e l'accusa che ognuno abbia un sistema le sembrerà un'infamia. »
Ovvero, per articolare ulteriormente, si disinteresserà di rendere ragione – poiché, come diranno Nietzsche e tutto il Postmoderno, «non c’è una verità» –, si disabituerà a giustificare e tutt'al più vorrà cavarsela con uno sbrigativo giustificarsi o tagliando corto con un «ognuno può pensarla come vuole» o un «chi sei tu per giudicare?», ecc.
Così, il Postmoderno compiuto si dedicherà a ciò che è immediato ed effimero, a ciò che non richiede sforzo – tutti i valori diventeranno usa e getta, sì che la trasvalutazione dei valori nietzscheana non sarà che una svalutazione di tutti i valori.
« Una tale epoca si interesserà ovunque soltanto di quanto è immediatamente e materialmente utile servendo all'alloggio, all'abbigliamento e all'alimentazione; si interesserà della modicità, della comodità e, là dove essa si smarrisce di più, della moda. »
I valori riconosciuti sono i valori corporali, edonistici, utilitaristi – riconducibili all'esperienza personale, sì che non si anelerà a qualcosa che trascenda il perimetro della propria immediata individualità. Vediamo qualche passaggio significativo.
« È del tutto naturale e necessario che in un'epoca, il cui intero sistema del mondo viene esaurito unicamente dai mezzi atti ad assicurare l'esistenza personale, venga elogiata l'esperienza come l'unica fonte possibile di ogni conoscenza, in quanto solo tramite l'esperienza sono conosciuti quei mezzi che da sé questa epoca intende ed è in grado di conoscere. »
« Proverà persino che realmente tutti gli uomini, che hanno vissuto e che vivono, hanno pensato e agito in tal modo, e che non v'è alcun altro impulso nell'uomo oltre quello dell'utile personale, commiserando quelli che ammettono in esso ancora qualcosa d'altro – come fossero dei poveri pazzi che ancora non conoscono gli uomini e il mondo. »
« Alla premessa enunciata: “ciò che non concepisco, non è”, deve seguire subito: “ovunque io non concepisco nulla, se non in quanto si riferisce alla mia personale esistenza e benessere; e il mondo intero esiste in fondo sol perché io possa esistere e avere benessere. Ciò di cui non concepisco come si riferisca a questo scopo, non è, né mi riguarda per nulla.” »
Di ciò ancora forse ci proviene un'antica eco di problematicità: che non vi sia nulla che trascenda l'esperienza personale e che il bene sia altro dal proprio vantaggio-utile-piacere; detto altrimenti: che la verità non sia solo la mia verità, che il bene non sia soltanto ciò che ritengo tale, ciò che è bene per me. Ma se di ciò vi fosse ancora un residuo di problematicità, l'evidente mancanza filosofica del lavoro di Fusaro, è dare come presupposto che ci sia qualcosa oltre il materialmente utile – per usare un'altra formula consunta e da lui impiegata. Ma come dare per scontato ciò che l'epoca postmoderna presente non riconosce e che l'umanità tutta è andata riconoscendo sempre meno da un paio di secoli?
Così, grande merito al giovane filosofo per aver prestato attenzione a un testo profetico – i Grundzüge –, che sa guardare molto in là, ben prima di Nietzsche, dalla cui lettura si evince la povertà della storiografia filosofica – inevitabile considerata la sua povertà concettuale. Lo stesso Fusaro avrebbe ancor più colto nel segno se avesse sottolineato questo aspetto, magari con un raffronto con la simil lucidità hegeliana (a tal proposito si veda Hegel profeta del Postmoderno) e attraverso altri mezzi (un'edizione adeguatamente curata del testo di Fichte). Ciò che è del tutto assente è un'adeguata disamina teoretica, la cui assenza impedisce di suscitare dal passato qualcosa più che una velleitaria nostalgia.
Resta da chiedersi se la sua assenza sia dettata, come si accennava, al genere letterario del suo lavoro – la presunta neutralità e indifferenza del lavoro accademico – o all'impossibilità congenita di poter dare fondamento ai propri auspici e desideri, livellandoli al valore di qualsiasi altro desiderio (personale). Forse è quest'ultima la posizione di Fusaro, che si può per esempio evincere da questo passo in cui rileva quel che è anche il pensiero di Marx:
« Marx cerca di illustrare agli operai i risultati della sua ricerca, della quale essi vengono ad essere i destinatari e, insieme, i protagonisti; da ciò affiora benissimo come il ricorso alla scienza, in Marx, risponda a un obiettivo che è tutto fuorché scientifico: la lotta di classe, l'emancipazione dei lavoratori, il superamento delle ingiustizie che permeano la società presente. » (D. Fusaro, Saggio introduttivo a K. Marx, Lavoro salariato e capitale)
Finché riterremo che la giustizia non appartenga all'orizzonte epistemico, che di essa non si dia dimostrazione (scientifica) – quindi fintanto che non sapremo dimostrare il contrario – allora ogni pretesa di giustizia sarà ancora una propria idiosincrasia personale e saremmo immersi nella compiuta peccaminosità postmoderna.
23 dicembre 2017