Probabilmente si afferma “ti amo” con troppa facilità, ci si innamora con estrema velocità, sempre rivendicando – come uno stendardo in guerra – la “propria libertà”, affermando con misero trasporto queste parole, così come quelle conclusive “non ti amo più”. Questa finta libertà e tutte le teorie che la scienza tecnica ha messo in campo, non sembrano portare desiderosi frutti: più l’uomo postmoderno è alla ricerca di una intima sicurezza, e meno appaga il proprio bisogno di amore.
In questo periodo storico postmoderno la famiglia è probabilmente il luogo sociale in cui si soffre di più la decadenza dei valori e delle virtù. Essa dovrebbe essere quell’unità generatrice di nuovi individui educati ad essere fedeli, sinceri, coraggiosi e umili. Il loro compito sarebbe poi quello di tramandare queste virtù di generazione in generazione, non come una codificazione genetica dominante, ma come unico mediatore con l’alterità. Ecco che, di fronte al crepuscolo di questi valori, le relazioni sono vissute in maniera superficiale e astratta e sempre più spesso vengono a mancare con estrema facilità, lasciando, a volte, segni indelebili sulla personalità e sulla felicità delle persone.
Prendono vita ogni giorno teorie propugnate da mentalisti vari, il cui obiettivo sarebbe quello di decifrare l’atavico segreto della relazione fra partner, così da avere uno strumento che permetta una vita famigliare soddisfacente. Si vorrebbe, tuttavia, comprendere a cosa e a chi il termine “soddisfacente” faccia riferimento: all’individuo singolo? Alla relazione stessa? Alla società attorno a quella relazione? O ad un possibile nuovo individuo che cresce all’interno della famiglia? Dopodiché si passa ai consigli più disperati di matrice New Age: “Per una relazione di coppia che funzioni bisogna lasciare libero l’altro di decidere della propria vita”, oppure “La coppia perfetta è quella che lascia lo spazio per essere ciò che si vuole”, e ancora “Bisogna procedere a fianco l’uno all’altro”. Alcuni potrebbero pure difendere queste parole di primo acchito, ma se all’interno di una relazione d’amore gli individui avessero la libertà di prendersi lo spazio che vogliono, e quello spazio che vogliono portasse loro lontano dalla relazione d’amore, probabilmente “quello che vogliono” non sarebbe il bene per sé e per l’altro e non terrebbe conto dell’esistenza della relazione che è già in essere. Se “il proprio bene” fosse la cessazione del rapporto, questa conclusione non emergerebbe d’emblée, ma attraverserebbe un processo che parte dalla scelta del partner – scelto in libertà, quindi in funzione del proprio bene – alla conclusione, processo nel quale almeno uno dei due non ha considerato l’imprescindibile caratteristica totalizzante l’individuo: l’amore.
Probabilmente si afferma “ti amo” con troppa facilità, ci si innamora con estrema velocità, sempre rivendicando – come uno stendardo in guerra – la “propria libertà”, affermando con misero trasporto queste parole, così come quelle conclusive “non ti amo più”. Questa finta libertà e tutte le teorie che la scienza tecnica ha messo in campo, non sembrano portare desiderosi frutti: più l’uomo postmoderno è alla ricerca di una intima sicurezza, e meno appaga il proprio bisogno di amore. Perpetua i soliti escomatage per soddisfarsi, senza appagarsi, come se mangiasse non sentendosi mai sazio. Il tramonto dei valori della vita è sempre più evidente sia nella tristezza, sia nella durata delle relazioni, e soprattutto, nella spasmodica e incessante ricerca di un benessere individuale che non preveda l’esistenza di relazioni significative.
La decadenza di questo assunto era già in atto alle origini del pensiero individualista postmoderno: il rifiuto di ogni forma di dipendenza, come se l’uomo bastasse a sé stesso, come se la parola “dipendenza” fosse un sortilegio malefico verso chiunque la pronunci. Negazione che ha generato le più alte forme di tossicità. L’abitudine può iniziare da infanti, quando si è appagati e soddisfatti da una figura genitoriale sempre presente e che soddisfa ogni desiderio. Questa figura diventa per il neo-individuo quel riferimento certo a cui chiedere e ricevere sempre la stessa sicura risposta, rapidamente viziati. Parallelamente, la società postmoderna, abitua l’individuo a pensare “con la propria testa” – come se fosse possibile fare altrimenti –, ad essere il solo artefice dei propri prodigi e a cercare solo grazie a sé stessi – attraverso un processo di sola introspezione – la propria felicità, in piena libertà. Con il tempo i bisogni della persona diventano più complessi e profondi e si cerca approvazione e consenso – si legga anche: appartenenza – nelle altre relazioni. Tuttavia si sorvola su un dettaglio di non poca rilevanza: la maggior parte delle persone mette in pratica ciò che l’individualismo imperante promulga da oltre un secolo, quindi la maggioranza agirà la propria libertà, in mediazione con l’altro, nel concetto più becero dell’essere libero, che è quello – ribadiamolo – di non tenere conto del bene del prossimo come chiave di lettura della propria realizzazione. Il raggiungimento di quel “tutto e subito” e della risposta sempre certa a cui si era abituati, nei legami interpersonali, diventa perciò sempre più arduo. La frustrazione di non ricevere quella sicura risposta per soddisfare i propri individualistici bisogni, può diventare così insopportabile da concludersi con l’allacciamento di una relazione che garantisca una via di fuga dall’ansia e dalla depressione: o con delle sostanze, o trattando la persona – sé stessa o l’altro – come un oggetto, oppure con beni materiali. Si ha l’umore deflesso? Una droga può alleviare la sensazione di malessere. Ci si sente soli? Un’automobile nuova fornisce subito compagnia. Ci si annoia? Si consuma del sesso con la prima persona che si incontra. Queste azioni sono le più alte forme di tossicità che il valore postmoderno auto-accentratore ha messo in campo per giustificare il proprio fine: la realizzazione di sé stessi senza l’incontro (anche: dipendenza o relazione) con l’altro. Ecco che così si possono tirare le fila del crepuscolo della società occidentale: l’individualismo porta ad un concetto distorto di libertà personale e rifiuta la dipendenza, si allacciano relazioni in cui si ricerca una risposta certa e non si trovano, se non ponendo gli altri come beni di consumo, sostanze, da usare e gettare quando non soddisfano più quella parte patologica di sé. Il processo riporta alla conclusione da cui si è partiti sopra: si passa da una relazione all'altra, rimanendo al contempo insoddisfatti, frustrati e alimentando la schizofrenia globale.
Si è perso il metodo per allacciare una relazione forte, che duri nel tempo e che sia sana – non tossica –, e, con questa perdita, anche il grande interrogativo del “come si ottiene una vita famigliare felice?” è stato ridotto al nulla. La relazione forte, dove per “forte” si intende l’edificarsi di un legame che possa resistere il più possibile nel tempo e nelle avversità, si nega perché non la si può ottenere, ammettendo che l’unico modo per far durare una relazione fra partner nel tempo, sia sì il legame d’amore, ma meno un “qualcosa”. Un legarsi meno, un essere meno intimi, insomma. Mantenere una sorta di “distanza di sicurezza”. Il classico aforisma che si può sentire sulla bocca di qualche guru mentalista è appunto “non si vive per l’altro, ma con l’altro”. Dove quel “con” risulta, nell'empirico, essere solo un regolo di distanza, un fattore di sicurezza personale in cui ci si mette in gioco, ma un po’ meno rispetto quello che si potrebbe. Ma se si potesse fare di più e non lo si fa, allora che “ti amo” sarebbe? Se con queste parole si volesse identificare il legame più forte, il totalizzante e preferito rispetto ad ogni altro, allora nello spazio che separa quel pochino in più che si potrebbe fare e la sua realizzazione, chi o cosa ci sarebbe? E questo altro non è che un ulteriore modo per negare la dipendenza, quella condizione necessaria affinché l’io, in quanto sociale e desideroso di legami forti, si realizzi. Con la paura della dipendenza si sono negate le relazioni forti, quelle che prevedono il massimo coinvolgimento di sé stessi.
Così la ricerca di un legame d’amore totalizzante è diventata vana, perfino si è presi in giro se si annuncia questo desiderio, come persone bigotte, antiquate e che non hanno “in pugno” la propria vita. Ma il segreto non è, come abbiamo visto, né nel porre distanze nella relazione, perché così non si costruirebbero legami forti e quindi non si preverrebbero avversità e crisi, né concependo la dipendenza come qualcosa di nocivo cui fuggire ad ogni costo. Perché si dipende da ogni relazione che si instaura, e si è un “io” proprio perché esiste contrapposto un “altro” che lo circoscrive e quindi che si pone in continua relazione. Allora l’amore è quella relazione a cui maggiormente si dipende e si sceglierà con chi condividerla con più dovizia di pazienza e tempo. Solo così ogni singolo dettaglio diventa caratteristica dell’opera d’arte più bella realizzabile, quella nella quale, nonostante il divenire mutevole delle proprie caratteristiche che impone il tempo, il bene comune di entrambi rimane in primo luogo il fine comune da realizzarsi.
1 dicembre 2017 (pubblicato per la prima volta il 5 aprile 2017)