La storia della filosofia è da riscrivere. L'interpretazione del nostro tempo deve essere stravolta. Ripensare la storia è la condizione per sperare nel futuro.
Opera di Matteo Cecchinato
Di una Giovane Italia e di una Giovane Europa ci parlava con amorevole e duro incitamento quel grande padre spirituale che è stato Giuseppe Mazzini, quel filosofo che tocca a noi riscoprire – o forse quasi scoprire –, noi di qualche anno più vecchi, noi pronti a riconoscere che tutti i proclami della maturità dello spirito finora computi sono stati la voce di una profonda immaturità, che la storia di questi due secoli sono stati la storia di un nefasto e funesto spaesamento.
Il paese della tradizione e delle certezze o delle tradizionali certezze vien via via meno, lasciando però tutt'a un tratto con la coscienza di questa perdita, lasciando spaesati. Il trovarsi privi del vecchio mondo avviene in anni di molto precedenti a quelli oggi unanimemente indicati, perché l'interpretazione corrente è essa stessa dettata da quel medesimo spaesamento nel quale siamo ancora pienamente immersi.
In che cosa consista questo spaesamento e questo essere abbandonati a sé lo descrive con pregnante concisione, tra gli altri, un passo della Fenomenologia dello spirito:
« Al posto della parvenza celeste dello spirito, al posto della universalità del sapere e dell'attività – universalità in cui la sensazione e il godimento della singolarità sono ridotti al silenzio –, si è insinuato adesso nell'autocoscienza lo spirito della terra, per il quale ha valore di vera realtà soltanto l'essere che è la realtà della coscienza singolare. »
Come se fosse una curiosità, come se fosse un che di accidentale, si è soliti indicare che il termine nichilismo, sdoganato da Nietzsche, ricorresse per le prime volte nel carteggio tra Jacobi e Fichte; che la locuzione «morte di Dio», sempre da Nietzsche resa celebre, comparisse in realtà per la prima volta in Hegel. Sarebbe stato invero Nietzsche a chiudere con la tradizione, a farla finita con la metafisica, a trasvalutare tutti i valori.
In realtà, è ormai stato sufficientemente rilevato che l'affermazione di Nietzsche sia la constatazione di un mutamento ormai pienamente in atto negli anni ottanta dell'Ottocento e, assieme, un invito, a trarne le compiute e adeguate conseguenze – quelle sì non ancora dedotte.
Nietzsche diventa a tal punto il simbolo di questo mutamento di paradigma che la vulgata tende a rimuovere, o proprio a non sapere, che la maledizione del Cristianesimo e del Platonismo – simboli invece della tradizione – veniva officiata con crescente impeto da decenni. Del resto i filoni intrecciantesi si intravvedono già scrutando dagli scritti (giovanili) di Nietzsche al di là di essi: Schopenhauer, Lange, Leopardi; ma non di meno: Strauss, Darwin, Spencer; senza trascurare Marx, Stirner, Feuerbach – per limitarci solo a qualche nome noto. Kantismo, Positivismo, Materialismo si intrecciano, si confondono, e, anche quando si oppongono, strabiliantemente ammiccano.
Ma la disamina offerta da Nietzsche, con i toni roboanti che hanno scatenato entusiasmi e attirato anatemi, è presente nei suoi tratti fondamentali nell'opera di colui che è oggigiorno considerato l'ultimo grande metafisico: Hegel, come accennavamo. Di più, molto di più: non solo Hegel ci descrive il suo tempo con quelle caratteristiche che riscontreremo nel corso dell'Ottocento, non solo coglie quei tratti l'esplicitazione dei quali renderà celebre l'opera nietzscheana, ma addita con una tale lucidità quei cortocircuiti teoretici e psicologici, di cui si stavano manifestando le prime avvisaglie, a tal punto – osiamo perfino asserire – da essere profeta dei secoli a venire ben prima e con ben più consapevolezza di Nietzsche.
Si deve dunque iniziare a lavorare sull'ipotesi – e per chi scrive è molto più che un'ipotesi – che l'individuazione della svolta fondamentale in Nietzsche sia dovuta alla scarsa comprensione di ciò che a questi ultimi due secoli stesse accadendo e di come ci si trovi ancora nel mezzo di questo processo e di questa povera comprensione – povera proprio perché, tra l'altro, ancora consideriamo Nietzsche un liberatore, per giunta da quella metafisica che consente a Hegel di avere occhi che vedono più in là e più addentro di tutti.
Ricapitoliamo. Che stesse accadendo qualcosa di enorme Hegel ne era consapevole – ma anche, oltre a lui, Fichte, per esempio – sì che già nei suoi scritti si intravvede il lungo decorso di quella congiuntura, che noi possiamo vedere nella storia che nel frattempo abbiamo vissuto. Ciò che si preparava e che si è sviluppato è l'infanzia del nuovo mondo. Giovane l'Italia e l'Europa – diceva Mazzini –, giovane nondimeno il mondo tutto, che, se nell'Ottocento visse l'infanzia, nel Novecento visse la sua ignorante, tragicamente catastrofica adolescenza.
Ricordiamo come sarebbe stato quel futuro di «magnifiche sorti e progressive» con le parole recenti di Ian Kershaw in All'inferno e ritorno (2015):
« In Europa il Novecento è stato un secolo di guerre. L'epoca è stata definita da due guerre mondiali seguite da più di quarant'anni di guerra fredda (ch'era poi il prodotto diretto della seconda guerra mondiale). Fu un periodo straordinariamente movimentato e tragico, il suo potere di fascinazione non accenna a diminuire. La sua storia è fatta di colossali sconvolgimenti e stupefacenti trasformazioni. Durante il Novecento l'Europa fece il viaggio di andata e ritorno dall'inferno. Il continente, che per quasi cent'anni dopo la fine delle guerre napoleoniche nel 1815 aveva orgogliosamente guardato a se stesso come all'apogeo della civiltà, tra il 1914 e il 1945 precipitò in un abisso di barbarie. Ma un'epoca disastrosamente autodistruttiva fu seguita da una stabilità e prosperità fino allora inimmaginabili, anche se il prezzo pagato – l'insanabile divisione politica del continente – fu pesante. Dopo di che un'Europa riunificata, che si è trovata a fronteggiare le enormi pressioni interne generate dall'accentuazione della globalizzazione e grosse sfide esterne, ha conosciuto crescenti tensioni di carattere strutturale ancor prima che il crollo finanziario del 2008 la precipitasse in una nuova crisi, tuttora irrisolta. »
Per iniziare a giustificare adeguatamente quanto asserito fin qui sarebbero necessarie varie monografie – che in effetti abbiamo prodotto in questi anni e che ora riproporremo, accrescendole, nelle neonate AM Edizioni – che spieghino come la metafisica non sia quella sciocchezza che appartiene all'immaginario collettivo – ma perché lo sia diventata –, come l'universale sia venuto meno solo nella comprensione ristretta del Postmoderno, che la democrazia arranchi perché non se ne sia mai compreso l'essenza – non a causa della (giovane e certamente maldestra) Europa –, ecc. ecc. Non potendoci qui concedere tutto ciò che è necessario, ci limiteremo ad accennare a quanto denunciava Hegel.
La situazione che egli vedeva è quasi la medesima che oggi è ormai sotto gli occhi di tutti e che Antonio Lombardi ha fotografato perfettamente in un articolo recente: Occidentali's Karma. Dico quasi perché dopo il '68 nemmeno più si «rifiutano le carrube dei porci e si reagisce ai lacci dell'abiezione», almeno nella lunga gioventù dell'ultimo mezzo secolo, in cui la trasgressione stessa si è volatilizzata nel «tutto è permesso», gemello del «vietato vietare» sessantottino. Depravati, ma con la coscienza pulita, anzi, senza coscienza, perché per avercela pulita, bisognerebbe prima che nascesse – e la coscienza nasce solo dal conflitto, dalla resistenza. Senza limiti da superare, lo sforzo viene meno e, così, viene meno anche quella tensione che soltanto è levatrice della coscienza.
Ma, prima o poi, ciascuno si accorge del vuoto che ha creato intorno a sé, e tornano perfette le parole di Hegel: «si confessa la propria miseria e si impreca contro se stessi». Si cercano rimedi facili, cioè alla portata delle capacità evanescenti che si sono sviluppate:
« La gente si affida a dottrine confezionate da sciamani improvvisati, che hanno fatto di qualche lettura in più il segreto della loro sapienza accessibile a pochi eletti. Il Postmoderno, il tempo in cui trionfa la tecnica e il suo straordinario potere trasformativo, è lo stesso che ha generato Scientology, la New Age e le sue idiosincrasie mistico-complottistiche. Se ne sentono di ogni: teosofia, antroposofia olistica, ontosofia, filosofia omeopatica, neopitagorismi, raelianesimo (sic!) e chi più ne ha più ne metta... »
Come dice Hegel, si cerca di «ripristinare il sentimento dell'essenza», almeno, visto che non si è più in grado di riappropriarsi della propria essenza, cioè della complessità del proprio Sé, irriducibile allo sballo, agli effimeri rapporti occasionali o virtuali, al disimpegno.
La morale, la religione, la metafisica si erano sviluppate per arginare l'immediatezza della vita, per impedire ed impedirsi di fare tutto ciò che si voleva. Per un ovvio motivo: dove si può e si vuole fare tutto, non si riesce a fare niente, poiché realizzare desideri contrastanti porta al loro annullamento. Comporta, cioè, che realizzando qualcosa, subito venga annullato: per quel qualcosa non sarà possibile accrescersi e fiorire e poi maturare in altro – in qualcos'altro di inimmaginabile per chi rimanga fermo al primo effimero stadio. Una conquista che realizzerebbe quelle potenzialità altrimenti inespresse del Sé, che, se soffocate, determinano la sua insoddisfazione, la sua depressione. La libertà, l'amore, l'amicizia, la paternità, la maternità, la determinazione, la benevolenza, la fermezza, la magnanimità, ecc. richiedono una complessità per la quale non è sufficiente un proposito, la commozione di un episodio, ma la severa e appagante educazione di una vita.
Ad afferrare facili palliativi, a cercare di afferrare la vita aggirandola, si aggrava la situazione: il rimedio alla sua precarietà e presunta relatività acuisce la stessa impressione relativistica, perché si confonde l'uscita dalla precarietà e dall'inconsistenza con qualcos'altro di precario e inconsistente. La ricerca, che seguiva a quell'esigenza di qualcosa di più, fallisce riconfermando che non c'è nulla più di quell'inconsistenza, di quell'arbitrarietà: la vita si continua da disillusi, come si dice.
Con le parole di Hegel della Prefazione alla Fenomenologia:
« Il bello, il sacro, l'eterno, la religione e l'amore diventano adesso l'esca più idonea per suscitare la voglia di abboccare; non il Concetto, ma l'estasi, non la fredda e progressiva necessità della Cosa, ma l'ardente entusiasmo deve costituire l'atteggiamento in grado di sostenere e diffondere la ricchezza della sostanza. »
Quindi ribadisce perché ciò accada:
« A questa istanza corrisponde lo sforzo zelante e assai eccitato di strappare gli uomini dalla depravazione di ciò che è sensibile, volgare e singolare, per orientarne lo sguardo verso le stelle; come se gli uomini, obliando del tutto il Divino, versassero nella condizione di appagarsi, come i vermi, di polvere e di acqua. »
Spiega allora perché si sia arrivati a questo, fornendo un'analisi del vecchio mondo metafisico dagli echi nietzscheani, quel «mondo dietro al mondo» che per salvare la vita dalla sua abiezione, dal suo arbitrio, dalla sua animalità, ha finito parimenti per soffocarla.
« Un tempo essi si erano plasmati un cielo e l'avevano ornato con smisurati tesori di pensieri e di immagini. Il significato di tutto l'essente riposava nel filo luminoso grazie al quale ogni cosa era legata a quel cielo; lo sguardo rivolto all'insù, invece di indugiare sulla presenza di questo mondo, vi aleggiava sopra verso l'essenza divina, verso una presenza posta, per cosi dire, al di là del mondo. »
Quanto tempo ci è voluto perché ci si liberasse da quella zavorra, che, per salvarci dalle passioni incontrollate ha negato le passioni; che, per raggiungere piaceri celesti, ha negato quelli terreni. Mentre invece il vigore e la grandezza delle passioni si sviluppano controllandone la scomposta veemenza primitiva; mentre invece i piaceri più elevati si generano dall'educazione di quelli più bassi.
« L'occhio dello Spirito dovette allora essere riportato con forza a ciò ch'è terreno e qui essere trattenuto; e, nella tetraggine e nella confusione in cui versava il senso dell'aldiquà, c'è voluto molto tempo per ripristinare quella chiarezza che solo l'ultraterreno possedeva, al fine di rendere interessante l'attenzione verso la presenza in quanto tale, quell'attenzione che è stata chiamata col nome di esperienza. »
Si è passati dall'astratto che svilisce l'esperienza, la sensualità, la passione, il desiderio, a quello opposto che glorifica indistintamente qualsiasi esperienza, che ammette come legittimo qualsiasi desiderio, che riduce la sensualità a sessualità, la passione a capriccio. Passaggio di cui è intriso il linguaggio ordinario, per esempio nelle arcinote uscite: “ogni esperienza arricchisce” o “è importante sbagliare perché si impara dai propri errori”. Mentre al contrario le esperienze possono distruggere: l'uccidere, il tradire, l'ignorare, lo svendersi, il non coltivare se stessi, eccetera; mentre al contrario si vuole imparare proprio per non commettere errori! Non sono quelle esperienze o quegli errori ad arricchire, ma il loro superamento. E il compito dell'educazione e del pensiero – della filosofia – è aiutare a vederli e comprenderli prima di compierli – per non compierli! La ripetizione di quelle sciocche formule ci ricorda il processo che abbiamo fin qui compiuto per liberarci dalla zavorra della versione astratta delle morali, delle religioni, delle virtù, ecc. di cui l'umanità è stata vittima. Umanità che però negli ultimi due secoli è riuscita a rendersi vittima dell'astratto opposto, sbarazzandosi di tutto, di ogni strumento di elevazione, di ogni possibilità di realizzazione, della autentica gloria terrena che ha come metafora la gloria dei cieli. Vittima al punto che:
« Adesso, invece, sembra vi sia bisogno del contrario, sembra che il senso sia così radicato in ciò ch'è terreno da essere necessaria per risollevarlo una forza uguale e opposta a quella di allora. Lo Spirito si mostra così povero che per il proprio ristoro, come il viandante nel deserto brama per una sola goccia d'acqua, esso sembra agognare unicamente il sentimento indigente del Divino in generale. E la facilità con cui lo Spirito oggi si appaga dà la misura della grandezza di ciò che ha perduto. »
I dispregiatori della tradizione (tradizione che, peraltro, non conoscono), come i suoi depositari accademici nelle cui mani il sapere (da loro scimmiottato) imputridisce, nondimeno che gli improvvisati delle mode culturali, sono espressioni della stessa ignoranza postmoderna, ignara della fatica del concetto, della forza del pensiero in grazia di cui la vita si costruisce consapevole di sé, in grazia di cui si impedisce di dissolversi nella contraddizione.
« Costoro credono di essere gli eletti cui Dio nel sonno infonde la saggezza; ma in realtà, mentre dormono, essi concepiscono e partoriscono solo sogni. »
19 novembre 2017