L’opera prende il mezzo e lo sottrae dal contesto, ma non sottrae la nostra apertura ad esso. Vi è infatti una duplice estraneazione: osservatore e mezzo sono estraniati dal contesto e dunque pur sottraendo il mondo-contesto, noi ci rapportiamo ad esso, che ci strappa dal quotidiano, dal ritmo abituale dell’utilizzabilità.
Scopo di questo articolo è quello di collocarsi sulla scia dei brillanti precedenti, scritti dai miei colleghi, sul valore e la funzione dell’opera d’arte (L'umanesimo resiliente dell'arte contemporanea, I contenuti dell'arte, tra i più recenti), soffermandomi su un lavoro filosofico illustre di Martin Heidegger, avente come oggetto “l’origine dell’opera d’arte”.
Questo testo risale agli anni ’30, ma sarà pubblicato solo venti anni dopo all’interno di Sentieri Interrotti (una importante raccolta di saggi heideggeriani).
Nel 1935 Heidegger aveva tenuto una conferenza a Friburgo, poi ripetuta a Zurigo nel 1936 per volere degli studenti dell’università locale, che è stata verbalizzata con il nome Dell’origine dell’opera d’arte (pubblicata da «Aesthetica» e disponibile sul nostro sito).
Nel dicembre 1935, una copia di questa era stata inviata alla studiosa ebrea di pedagogia Elisabeth Blochmann, ma Heidegger preciserà che questa è una seconda versione, alludendo ad una precedente del 1931-1932 (pubblicata nel 1989 in Heidegger Studies, 5, 1989, pp. 5-22).
L’anno seguente, nel novembre 1936, Heidegger tenne delle conferenze sull’opera d’arte a Francoforte e proprio a partire da queste trae origine la versione pubblicata in Sentieri Interrotti.
Questi “sentieri” sono le varie ricerche condotte che si inoltrano nel bosco, ma che non portano a nulla di preciso e non servono a nulla, se non a muoversi nel bosco stesso, finendo per perdersi in esso, perché, come dirà lo stesso Heidegger, questo «sentiero, interrompendosi, svia»: uno di questi sentieri è quello dell’arte.
Fondamentale è, nella versione di Sentieri Interrotti (1968) la lettura heideggeriana dell’opera “Un paio di scarpe” di Vincent Van Gogh.
Heidegger comincia precisando che origine significa “provenienza dalla sua essenza”: l’opera d’arte sarà l’origine dell’artista, perché l’artista è tale in virtù della sua opera, ma allo stesso tempo l’artista sarà origine dell’opera, in quanto è lui a realizzarla. Nessuno dei due può tuttavia produrre l’altro senza un elemento da cui traggono il nome stesso: l’arte.
L’arte è per Heidegger origine sia dell’artista, quanto dell’opera d’arte. Ma come è possibile ciò? Dove sussiste l’arte, se essa è ormai solo una parola che non corrisponde a nulla di reale, se non per ciò che di reale include (artista-opera)?
Rispondere dunque alla domanda sull’origine dell’opera d’arte significa rispondere a quella riguardante la sua essenza; ed è questa la direzione che Heidegger intraprenderà (e noi con lui).
Solo l’opera potrà dirci che cosa sia l’arte, ma in questo modo ci muoveremmo in un circolo vizioso. Un intelletto “comune”, dice Heidegger, esige di uscire da questo circolo lontano dalla logica e di comparare opere d’arte, viste nella loro semplice-presenza (Vor-handenheit) per ricavare l’essenza.
Ma come può questa analisi basarsi su opere d’arte autentiche (riconosciute quindi come tali, distinguendo cosa sia arte da cosa arte non è) se non si è ancora compresa l’essenza dell’arte stessa?
Altrettanto impraticabile, per lo stesso problema, la strada delle deduzioni generali.
Ancora una volta Heidegger considera l’importanza di rimanere, nel modo giusto, all’interno del circolo ermeneutico.
Per rintracciare l’essenza dell’arte, che risiede nell’opera, ci indirizzeremo verso una concreta opera, che è sì una cosa fabbricata, composta da certi materiali, ma dice anche qualcos’altro oltre la pura cosa: essa è allegoria e simbolo.
Consideriamo un “banale” paio di scarpe da contadino, che ognuno di noi saprebbe descrivere anche non avendolo sott’occhio.
Questo mezzo serve da calzatura e col variare dell’uso (lavoro nei campi – danza) varia la forma e la materia. Le scarpe da contadina sono ciò che sono solo nel loro impiego, ovvero quando la contadina le calza nel campo. L’utilizzabilità definisce il modo d’essere: fuori dal loro contesto, mostrate nella loro non-utilizzabilità (per esempio rappresentandoci un paio di scarpe in generale) viene meno ai nostri occhi l’esser-mezzo del mezzo.
Nel quadro di Van Gogh non possiamo stabilire dove si trovino le scarpe, perché in questo «spazio indeterminato» non abbiamo indizi. Tuttavia dietro l’opera c’è l’Esser-ci e dietro questo un mondo: in questo caso, il mondo del contadino da comprendere, che Heidegger scorge in quest’opera con queste parole:
« Nell'orificio oscuro dall'interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell’umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita, l'angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce. Da questo appartenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare in se stesso. » (Sentieri Interrotti, p. 19)
Ma forse tutto ciò non lo vediamo che noi nel quadro. Continua Heidegger:
« La contadina, invece, porta semplicemente le sue scarpe. Se almeno questo «semplice portare» fosse davvero semplice! Quando, alla sera, la contadina, stanca ma lieta, si toglie le scarpe; o quando, al primo mattino, le ricalza; oppure, quando in un giorno di festa le smette, essa sa tutto questo senza bisogno di osservazioni o di considerazioni. » (ivi)
L’opera dunque prende il mezzo e lo sottrae dal contesto, ma non sottrae la nostra apertura ad esso. Vi è infatti una duplice estraneazione: osservatore e mezzo sono estraniati dal contesto e dunque pur sottraendo il mondo-contesto, noi ci rapportiamo ad esso, che ci strappa dal quotidiano, dal ritmo abituale dell’utilizzabilità. L’opera d’arte ci costringe a fermarci, a interrompere la frenesia e il banale, il quotidiano diventano insoliti, straordinari e riconsegnano le cose nella loro verità, intesa come ἀλήθεια (aletheia), come non-nascondimento.
L’opera d’arte è a tal proposito svelamento della verità, che stupisce ancor prima della mancanza (in genere riscopro l’importanza di qualcosa quando essa viene meno e mi manca).
Da qui la critica di Heidegger all’estetica, che ha a che fare sempre con una soggettività, uno spirito che deve ricercare in sé il valore dell’opera. Ovviamente questa concezione dell’arte è inaccettabile per Heidegger, alla luce di quanto detto, perché egli valorizza l’essere che si disvela nell’opera.
La critica sarà esplicita all’interno della Postfazione del 1950 all’Origine dell’opera d’arte: l’estetica assume l’arte come oggetto dell’esperienza vissuta. Forse però, l’esperienza vissuta è proprio l’elemento in cui l’arte muore. L’estetica risulta dunque coestensiva al venir meno del vincolo ontologico arte-verità, come è infatti avvenuto nel soggettivismo moderno e nel decisivo riferimento all’autonomia del sensibile.
Un ringraziamento dovuto ai professori Costantino Esposito e Annalisa Caputo, le cui lezioni mi hanno aperto "sentieri" da percorrere.
11 novembre 2017