Ostentazione ed eccentricità che mi aspettavo di trovare ammassate nelle stanze e nei capannoni del Giardino e dell’Arsenale durante la visita alla 57° Esposizione internazionale d’Arte, con mio grande scetticismo intitolata Viva Arte Viva: già prevedevo relitti e cadaveri di un’espressione artistica di quel tipo in declino, incapace di parlarci della verità.
La vacuità più o meno dichiarata di un nutrito numero di opere presentate gli anni scorsi alle varie Mostre della Biennale di Venezia mi ha sempre inibito dal visitare queste esposizioni. Ciò non significa che non debba battermi il petto per essermi lasciata scoraggiare da giudizi espressi senza aver osservato in prima persona gli oggetti in questione, ma non penso che la qualità (purtroppo piuttosto bassa il più delle volte) della discussione circa l’arte contemporanea possa produrre effetti molto diversi da quelli che ha avuto su di me.
La selva del confronto su questo tema pullula di luoghi comuni: dal pronunciatissimo “potevo farlo anch’io” – Francesco Bonami, curatore della Biennale del 2003, ha impiegato questa perifrasi come titolo di un suo libro del 2007 – al raccapricciante “l’arte non ha un messaggio”, per citare Paola Pivi, che, intervistata da Pierfrancesco Diliberto, aka Pif, durante la trasmissione Il testimone, rende conto delle sue opere presentando ragionamenti di questo calibro. Ancor più destabilizzante il rendiconto di Martin Creed circa la sua opera The lights going on and off (titolo eloquente: l’installazione consisteva in una stanza vuota illuminata a intermittenza da luci che, appunto, si accendevano e spegnevano), presente alla Biennale del 2011: « penso di averlo fatto perché non avevo un’idea. »
Ostentazione ed eccentricità che mi aspettavo di trovare ammassate nelle stanze e nei capannoni del Giardino e dell’Arsenale durante la visita alla 57° Esposizione internazionale d’Arte, con mio grande scetticismo intitolata Viva Arte Viva: già prevedevo relitti e cadaveri di un’espressione artistica di quel tipo in declino, incapace di parlarci della verità.
La mente acuta di Virginia Woolf scrisse a proposito del romanzo parole che si possono ricondurre senza problemi a ogni forma di espressione artistica e che descrivono come l’arte sia il testimone dell’universale, della verità:
« Ciò che chiamiamo integrità, nel caso del romanzo, è la sensazione che ci comunica di dire la verità. […] Leggendo, avviciniamo alla luce ogni frase, ogni scena; perché la natura sembra averci inspiegabilmente provvisti di una luce interiore con cui giudicare l’integrità o la mancanza di integrità di un romanziere. O piuttosto, forse la natura, col suo fare del tutto irrazionale, ha tracciato con l’inchiostro invisibile, sulle pareti della mente, una premonizione che questi grandi artisti confermano; uno schizzo che basta solo avvicinare al fuoco del genio perché diventi visibile. E quando, così esposto, lo si vede acquistare vita, esclamiamo, andando in estasi: ma è quello che ho sempre sentito, saputo e desiderato! ». (Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, 1929)
A palati abituati a tale dolcezza risulta amaro che l’arte venga ridotta a un’ostentazione tecnica piacevole alla vista, a una eccentricità vuota.
Grande smentita: il riferimento all’umanesimo promesso dalla curatrice Christine Macel permea l’aria che si respira fra le opere, difficili da guardare in quanto rappresentazione della sofferenza e del dolore nelle forme in cui sono presenti nella nostra epoca. Non perché gli artisti parlano di una crisi di valori significa che ne presentino un’apologia, anzi, dietro molte opere è palese lo scervellarsi penoso e tormentato di individui che sono angosciati dalla confusione di cui facciamo esperienza. L’espressione sofferente dell’uomo in caduta libera ripreso nel video Suspension di Sebastian D. Morales è la prova di ciò: egli non è indifferente alla nebbia che lo attanaglia, alla sua costante caduta, al contrario è spinto quasi alle lacrime dalla disperazione della sua condizione senza pace – che non raggiungerà, il video pare suggerire, fino alla sua “morte”, cioè un momento in cui smetterà di cadere e (sembra) inizierà ad ascendere, ora immobile e inerme. È angoscia l’emozione trasmessa. Angoscia peraltro non “fine a se stessa”, come si potrebbe pensare di altre opere, magari meno efficaci nella comunicazione di un concetto, ma che fa presente all’osservatore la problematicità dell’assenza di punti di riferimento e la sofferenza che ciò provoca. “Sradicamento”, per usare termini mutuati da Simone Weil, che da una parte rappresenta una questione viva e presente in noi, e dall’altra ci conduce per converso a pensare alla bontà di ciò che ci fa sentire “radicati”, i nostri punti saldi, come una professione amata, una famiglia e gli affetti.
“L’umanesimo” dell’esposizione non è però unicamente ossessionato dalla crisi che viviamo, non si impegna in una mera diagnosi dell’epoca odierna: ci sono esempi di messaggi propositivi, stupefacenti esempi di resilienza e tenacia. Un esempio è The mending project del taiwanese Lee Mingwei. L’artista – o alcuni collaboratori – siede a un tavolo, circondato da abiti che gli vengono affidati dai visitatori per essere rammendati con fili colorati, e racconta a quelli che gli si avvicinano la storia dell’opera. L’idea di riparare i vestiti nasce con la necessità di ricucire la frattura causata dall’attentato alle Torri Gemelle, in occasione del quale Mingwei perse alcuni amici e colleghi. Per qualche anno questa attività è stata quasi una terapia per l’artista, che nel 2009 decise di trasmettere la sua esperienza con questa installazione. È interessante l’idea che i visitatori possano portare con sé, a mostra conclusa, i pezzi di abbigliamento rammendati con i fili colorati, che fungeranno da memento e ricondurranno il loro pensiero al concetto che sta dietro quella riparazione visibile: ci suggerisce che qualsiasi cosa potrebbe essere arte, ma non nel senso con cui ciò si intende frequentemente nella discussione attorno all’arte contemporanea, che un oggetto qualsiasi può essere arte per il mero fatto che qualcuno lo considera tale; ma che qualsiasi cosa, a prescindere dalla sua realizzazione tecnica è da considerarsi arte se vi si possono riconoscere degli elementi di verità.
La paccottiglia vicino a queste e altre perle era molta, ma non mi sembra che di ciò ci si debba preoccupare. La nostra epoca non è troppo diversa dalle altre: ci sono dei problemi estremamente gravi, situazioni realmente disperate. Niente di nuovo, ma stavolta siamo noi che sentiamo le ferite che ci vengono inflitte, senza il filtro del tempo che ci può essere fra noi e il dolore dei nostri avi: ciò basta per giustificare lo scoramento, tuttavia la totale sfiducia e il millenarismo non rappresentano una buona soluzione per affrontare la nostra vita.
L’espressione artistica ci aiuta a vivere e a tenere a mente le cose importanti, quelle che ci fanno mantenere la speranza di fronte alle cose orribili che succedono. In questo senso sono vere le parole che Samwise Gamgee rivolge a Frodo nelle scene finali de Il Signore degli Anelli – Le due torri:
« È come nelle grandi storie, padron Frodo, quelle che contano davvero, erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi sapere il finale, perché come poteva esserci un finale allegro, come poteva il mondo tornare com'era dopo che erano successe tante cose brutte, ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest'ombra, anche l'oscurità deve passare, arriverà un nuovo giorno, e quando il sole splenderà sarà ancora più luminoso, quelle erano le storie che ti restavano dentro, anche se eri troppo piccolo per capire il perché, ma credo, padron Frodo, di capire ora, adesso so, la persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l'hanno fatto... andavano avanti, perché loro erano aggrappati a qualcosa. […] C'è del buono in questo mondo, padron Frodo... è giusto combattere per questo! »
5 novembre 2017