Il fine dell’università e di tutta l’istruzione dovrebbe essere migliorare lo studente, eliminando il più possibile ciò in cui va errando, quindi estirpare quella violenza che lo attanaglia e lo devia da ciò che è giusto. Come possiamo pretendere di eliminare questa violenza, se gli insegnanti stessi la giudicano corretta, adottando un metodo catechistico di imposizione delle nozioni?
Come descrivere l’università in questo mio primo mese di lezioni? Citando una scena del film Il miglio verde oserei definirla un “uomo morto che cammina”. L’università, che dovrebbe essere il fiore all’occhiello del nostro sistema d’istruzione e l’esempio più lampante di come una persona dovrebbe essere educata, è morta: manca infatti, lo spirito che ne costituisce l’essenza e la tiene in vita. Questo spirito cui faccio appello è la ricerca del necessario che è insito in tutto ciò che è. L’università, e in generale tutto l’approccio educativo, è violenza, in quanto non cerca di rendere evidente la necessità che lega una determinata porzione dell’essere ad un’altra. Le conoscenze che il professore cerca invano di trasmettere, non sono fatte proprie dall’alunno dal momento che sono sprovviste della necessità che le lega al tutto. La violenza tiene sotto scacco il processo migliorativo, facendo camminare l’università per un sentiero tortuoso che non porta da nessuna parte.
Le lezioni sono del tutto “frontali”, prive cioè di confronto tra alunno e insegnante e tra gli alunni stessi. È impossibile quindi uno scambio d’idee che permetterebbe di vedere con occhi diversi la situazione che si va analizzando; l’opinione di uno (il professore) è così imposta a tutti. Solo a fine lezione c’è la possibilità di fare domande, ma anche qui è solo il professore che parla e non s’instaura quindi un confronto che abbia come fine il necessario, che è l’unico vero fine. Tutto ciò che viene impartito con violenza dai professori, non è altro se non un concetto imparato a memoria, che ad essi stessi era stato impartito con violenza a loro tempo. Gli argomenti appaiono spesso scollegati tra loro, fenomeno inevitabile data la settorializzazione sempre più diffusa: manca quella tendenza all’universale, che dovrebbe essere propria della filosofia, ma che in questi ultimi secoli sta venendo meno. Ogni argomento è spiegato giustapponendo opinioni diverse di autori diversi, senza preoccuparsi di ricercare quale delle opinioni sia quella che si avvicini il più possibile alla realtà, ma semplicemente limitandosi a riportare ciò che è stato detto.
« […] la scuola dev'essere, non diminuzione e prostrazione dello spirito, non meccanizzazione artificiale delle categorie della vita, ma la più chiara celebrazione di quello, e il rinnovamento continuo di questa in tutta la sua pienezza e freschezza; e che perciò vi si deve parlare quello stesso linguaggio che l'uomo parla in famiglia e nella società, o nei libri, ove concentra e potenzia le forze dell'animo suo; e vi si deve respirare la stessa aria del mondo di là delle pareti della classe, quell'aria frizzante e vivificante che è la gioia e la serietà della vita nel suo spontaneo rigoglio. […] E questo senso del destare, non con una esposizione di astratte verità già altra volta trovate e ora messe in assetto e fatte sfilare come articoli di catechismo, bensì con la rinnovata ricerca di un concetto dell'uomo e di un orientamento necessario a chi del proprio spirito vuol far guida e modello all'uomo che si vien formando. » (Giovanni Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica)
Secondo Gentile, e anche a parer mio, non sono sbagliati gli argomenti che vengono trattati, ma il modo in cui vengono trattati. Ciò che si studia a scuola o all’università non viene assimilato dallo studente, non perché il tema non c’entri nulla con la propria vita, ma perché non viene fatto vedere il legame di necessità che lega tale questione con ciò che siamo. Sotto questo punto di vista quindi si può parlare di morte dell’educazione: ogni insegnamento risulta infatti catechistico, cioè violento. Tutto ciò che facciamo è un atto educativo: comportandoci in un determinato modo stiamo affermando che in quelle condizioni è giusto comportarsi così, stiamo quindi giudicando corretta quell’azione, per cui chi si troverà nelle medesime condizioni avrà il nostro consenso a comportarsi come ci siamo comportati noi. Questa è la base del meccanismo educativo, che ci deve aiutare a capire che tutto ciò che facciamo è considerato un atto morale, in quanto esprime un giudizio su un comportamento da adottare in determinate condizioni. Ora, il fine dell’università e di tutta l’istruzione dovrebbe essere migliorare lo studente, eliminando il più possibile ciò in cui va errando, quindi estirpare quella violenza che lo attanaglia e lo devia da ciò che è giusto. Come possiamo pretendere di eliminarla, se gli insegnanti stessi giudicano corretta la violenza, adottando un metodo catechistico di imposizione delle nozioni?
« E tuttavia l’essenza di ogni comandamento è identica a ciò che esso proibisce. Nella legge che vieta il delitto è presente l’essenza del delitto. Nella fede dell’amore è presente l’essenza dell’odio. Si può, certo, preferire la fede nell’amore all’odio; ma si può davvero credere che una malattia possa essere guarita con una medicina che ha la stessa natura della malattia? » (Emanuele Severino, Téchne - Le origini della violenza, cap. II, p. 79)
La possibilità di invertire la rotta pare esserci. Ad un’analisi più dettagliata e meno ricca di sentimenti negativi e catastrofistici, che ogni persona proverebbe dopo aver visto la bassezza di una lezione universitaria, ci si può accorgere che l’educazione non è del tutto morta, ma più verosimilmente è avvolta da un sonno dogmatico che la limita e le impedisce di esprimersi al meglio. Infatti, in più di qualche occasione si sono viste scuole di pensiero o individualità che sono riuscite a svegliarsi da questo sonno, sconfiggendo la violenza e cercando di far vedere la necessità che sta dietro alle proprie azioni, mettendole in rapporto con il tutto. Uno di questi risvegli può essere identificato con la nascita della filosofia nella Grecia antica, dove una serie di circostanze favorevoli ha fatto sì che l’uomo incominciasse a porsi seri interrogativi sulla propria situazione, andando oltre il mito ‒ che fino a quel momento era l’unica spiegazione e rassicurazione di fronte all’imprevedibilità del futuro, dettata dalla mutevolezza delle cose ‒ e rispondendo con un “sì” al thauma che avvenne dentro di loro.
« […] gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. » (Aristotele, Metafisica, tr. it. di G. Reale)
Il thauma, che Aristotele rende con la parola meraviglia e che Severino, in tempi più recenti, nel suo libro I presocratici e la nascita della filosofia, rende con le parole angoscia o terrore, è il sentimento di instabilità che si instaura all’interno di una persona quando, secondo l’interpretazione di Severino, si rende conto di essere in balia del divenire delle cose e che le sue azioni non possono essere controllate come credeva in precedenza. Da qui nasce l’esigenza di trovare qualcosa di stabile su cui basare le proprie azioni: ricercare ciò che è necessario, cioè non contraddittorio, in quanto fisso di fronte al divenire, sembra la soluzione migliore e meno violenta. Il problema nel passato potrebbe essere stato quello di non aver dato continuità a tale sentimento e di non aver educato a percepire tale sentimento. Mettere nelle migliori condizioni ogni singolo alunno, affinché percepisca questo thauma, sembra la soluzione migliore per risvegliare la società dal sonno dogmatico che la pervade da tempo: in questo modo, la stabilità violenta, a cui ognuno è sottoposto, verrebbe scacciata via dalla paura del divenire, che spingerebbe la persona ad interrogarsi su ciò che è necessario.
« La via del sapere sincero è lunga; ed è molto se nell'adolescenza, quando i maestri hanno cure speciali pel nostro spirito, noi c'invogliamo di percorrerla alacremente. Questa voglia non si fa nascere dando un sapere, ma dando il bisogno del sapere, e mettendo nell'anima, con le difficoltà dei problemi che sorgono dall'animo di essa, il pungolo della riflessione ulteriore. » (Giovanni Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica)
3 novembre 2017