Il tempo è la nostra più grande risorsa. Elogiare l’ozio, in questa società preda di una frenesia isterica con meta il nulla, è forse il compito propedeutico più appropriato per chiedersi che cosa farne del tempo.
Si dice spesso che l’ozio è il padre dei vizi, ma se andiamo oltre questa accezione ingenua e sviante scopriremo che la dimensione temporale dell’ozio si potrebbe accostare meglio al kairòs greco piuttosto che al contemporaneo e prosaico chronos.
« La cultura non colmerà mai l’ozio del lavoratore, perché può essere solo il lavoro dell’ozioso. »
« L’uomo ha bisogno di vivere affaccendato. Non vi è nulla di più deplorevole dell’ozioso non predestinato ad esserlo.
Una vita oziosa priva di tedio, goffaggine e crudeltà è tanto ammirevole quanto è rara. »
Nicolás Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, I
La parola “negozio” deriva dal latino negotium, composto da neg- (neque, “no”) ed ōtium (“ozio”). Pertanto, lungi dall’essere il padre dei vizi, l’ozio nel mondo romano era solitamente contrapposto alla sua negazione, il lavoro. L’ozio, quindi, rappresenterebbe il meglio del tempo che abbiamo, perché se il tempo dedicato al lavoro è un tempo già disposto, durante il tempo dell’ozio è presumibile pensare che siamo noi – e nessun altro – chi dispone del nostro tempo.
Probabilmente non c’è nulla di così prezioso come il tempo nell’intero universo – quale sarebbe la vera ricchezza se non il tempo? – però c’è un problema di fondo non banalmente risolvibile: cosa fare di questo tempo.
Esiste una curiosa somiglianza tra la cultura e la ricchezza economica, e cioè che le possiedono solamente pochi; ma un fatto non meno curioso è che le due cose non necessariamente vanno di pari passo: chi possiede la ricchezza economica spesso non è colto, e inversamente chi possiede la cultura in molte occasioni non ha abbondanza di mezzi. Quanto di curioso – per tornare al tema del tempo – è che chi decide di investire i propri giorni nello studio è difficile abbia tempo sufficiente per dedicarsi anche ad un “negozio” che gli permetta di arricchirsi. Al contrario, l’uomo d’affari che dedica la sua vita all’ottenimento non già di un fine, bensì di un mezzo, cioè il denaro, non ha tempo sufficiente per leggere o per altre attività culturali.
La contraddizione evidente sta nel fatto che bisogna perdere quasi tutta la propria vita per conseguìre un mezzo (il denaro) che permetterebbe di dedicare il meglio del nostro tempo (l’ozio) al vero fine della vita: la conoscenza e il piacere. Dunque, se otteniamo il denaro ma abbiamo esaurito il tempo, oppure se disponiamo di tutto il tempo ma non abbiamo mezzi, è chiaro che qualcosa non torna. Ora si dirà che è il sistema ciò che stabilisce questa struttura sociale alla quale tutti alla fine ci adattiamo. È vero, il sistema è presente in ogni momento, ma è altrettanto presente un’altra cosa di pari importanza: la libera scelta che ciascuno esercita per decidere come riempire le stesse ventiquattrore al giorno che si hanno (l’unica vera “democrazia”, assieme al fatto che ognuno di noi può essere in un solo posto alla volta).
In fin dei conti non c’è – né ci potrà mai essere – nessuna dittatura che possa arrivare fino all’intimità delle nostre scelte personali. In verità, le nostre decisioni personali e inquestionabili plasmano di più la nostra vita rispetto a qualsiasi coercizione esterna.
È un dato di fatto che l’élite finanziaria mondiale (grosso modo il 0,01 per 1000 della popolazione) sta dettando una tendenza che è quella di tagliare i fondi per l’educazione, particolarmente nel settore umanistico. I governi finiscono per obbedire a questi dettami e l’obiettivo è chiaro: un popolo abbrutito e senza radici culturali è molto più manipolabile. C’è una differenza fondamentale fra il sapere tecnico e quello umanistico: quest’ultimo è imprescindibile per produrre una presa di coscienza dell’attualità attraverso la conoscenza della storia, della filosofia e della letteratura. E siccome la politica oggigiorno è fatta di pura e vuota retorica per un buon 95%, la conoscenza degli errori e degli inganni del passato rappresenta l’unico rimedio contro i mali del presente.
Ma a questo punto ci dobbiamo chiedere: male per chi? O, bene per chi? Chi voglia contare su un esercito di schiavi ignoranti bramerà una drastica riduzione del sapere umanistico – l’unico sapere in grado di insegnare a vivere – e al contrario chi desideri vedere un’umanità meno abbrutita e più coscienziosa bramerà fomentare questo tipo di sapere.
Platone, due millenni e mezzo fa, serbava una chiara convinzione su ciò che è il bene e ciò che è il male per un insieme di individui: nel caso della società umana il bene del singolo individuo coinciderà col bene della comunità, e viceversa.
Nel sistema capitalista liberale non esiste cooperazione fra individui, bensì una lotta indiscriminata di tutti contro tutti, come una sorta di sindrome di Gordon Gekko generalizzata. Forse è questa la ragione per cui invece di essere il bene di pochi, sia il male per tutti.
Ordunque, ad una coscienza di questo tipo non si giunge da un giorno all’altro, bensì occupando l’ozio quotidiano in modo fruttuoso: è una scelta personale il fatto di pensare o di fare a meno di farlo.
Il malinteso più grande, quindi, sarebbe quello di credere che dopo otto ore di lavoro, o di studio, si abbia già adempiuto al compito di essere “persona”, permanendo in un vuoto ozio.
5 ottobre 2017