È possibile che, in tutto questo suo affaccendarsi, l’arte abbia dimenticato qualcosa di estremamente importante: il contenuto che vuole esprimere. Sviluppare innumerevoli modi di dipingere e disegnare, per illustrare solamente una campagna francese! I paesaggi sono belli; le sensazioni che restituiscono forti; ma è tutta qui l’arte? E allo stesso modo, le macchie di colore sulla tela, che ci coinvolgono a loro volta con delle sensazioni più o meno gradevoli, vogliono aver per fine solo questo?
Perché un’opera sia ben riuscita non c’è bisogno ch’essa sia realistica. Come ricordava Hegel nella sua Estetica in merito all’abilità tecnica a cui ambisce il realismo, è assurdo che si gioisca di una cosa così «meschina» come la verosimiglianza delle nostre produzioni, tanto precise da ingannare persino una scimmia o un uccello:
« I grappoli d’uva dipinti da Zeusi sono stati fin dall’antichità citati come il trionfo dell’arte […], giacché colombi vivi sarebbero andati a beccarli. A questo antico esempio si potrebbe aggiungere quello moderno della scimmia di Büttner, che rosicchiò uno scarafaggio disegnato nell’opera di Rösel […], [la quale] ottenne poi il perdono perché aveva così mostrato l’eccellenza della riproduzione. » (ed. Einaudi, pp. 52-53)
Un episodio, per certi versi analogo, sembra esser capitato qualche anno fa a Ravenna, quando un muratore, tutto preso dalla smania di far bene, stuccò un buco dipinto da un artista al museo d’arte Mar. Il giovane autore, invece di mettere in dubbio l’efficacia del proprio operato, si è subito premurato di dire che, in realtà, lo «ha aiutato a completar[lo]» e che è stato proprio felice dell’accaduto, perché in tal modo ha avuto la conferma che sembrasse vero.
Le medesime considerazioni sull’abilità di riprodurre perfettamente un oggetto sembrano valere anche per la letteratura: Stephen King, nel suo On writing, mostra che, per esempio, nella descrizione introduttiva a un luogo o a un personaggio in un romanzo, è assai “grezzo” lo scrupolo di utilizzare tutti gli elementi possibili per informare il lettore. Spiega che i troppi dettagli, cari a una veduta che vuole la ricerca minuziosa del particolare, non sempre sono adeguati al fine del racconto, anzi il più delle volte lo rendono insopportabile:
« Non vado pazzo per gli scrittori che specificano con il massimo scrupolo le caratteristiche fisiche dei protagonisti o i loro abiti. Considero molto fastidiosi questi inventari del guardaroba; se fossi interessato a informazioni in merito, sfoglierei il catalogo di una marca di vestiti. […]
Credo che l’ambientazione e il tono permettano al pubblico di calarsi nella storia molto più di qualunque raffigurazione fisica, che comunque costituisce una pessima scorciatoia per suggerire il carattere dei personaggi. […] Per me, una descrizione efficace consiste di pochi particolari scelti con cura per dare un’idea del resto. » (pp. 162-163)
Dunque, una volta appurato che non è il grado di “realismo” impiegato nella pittura, nella scultura e in qualsivoglia forma d’arte, a restituire l’efficacia estetica di un’opera, ma la sua capacità evocativa di quelle potenze che muovono il cuore umano, allora possiamo passare a domandarci quale possa essere, un poco più nello specifico, l’oggetto della produzione artistica.
Esso non potrà mai essere un concettualizzare universale, se per ciò intendiamo che un quadro o una poesia possa evocare un vero e proprio sistema speculativo: non vi sarà in alcuno di essi la dimostrazione del trascendentale o la confutazione di qualche asserto. Ciò che un’opera può restituire, secondo il suo mezzo, è, con le parole di Hegel, un «universale individualizzato». Ossia, una volta acquisito un concetto, un artista può – e tanto più vi riesce meglio è – raffigurare sulla sua tela o sul suo foglio una particolare scena in cui concretizza al meglio quel significato in un contesto particolare.
« L’arte, in sé e per sé, possiede una qualità tangibile, che […] si realizza solo attraverso esempi particolari. » (J. Beuys, Cos’è l’arte?)
Se invece si volesse esprimere un concetto generale, forma e contenuto non «appa[rirebbero] più concresciuti l’uno nell’altra» (Hegel, ivi, p. 62), e l’efficacia del messaggio verrebbe meno. Come sarebbe d’altronde possibile disegnare un genericissimo “amore”? O il male? Solo mediante un’allegoria o un simbolo, i quali però non ci restituiscono un’immagine esauriente dell’argomento, ma solo un rimando estremamente formale ad esso. Possiamo dipingere una volpe per intendere la furbizia; e, al di là del fatto che la volpe non ha solo quel significato (esprime più del contenuto che vorremmo attribuirle), comunque un simile soggetto dipinto non farebbe, in un certo senso, che nominare quell’attributo. Non direbbe cosa la furbizia sia, ma è come se si limitasse a ripetere: “furbizia!”. Perciò Beuys avanza l’ipotesi che l’arte, con le sue forme, abbia il difficile compito di consegnarci degli «esempi particolari».
Non può dirci cosa l’amore, in toto, sia; ma può darci uno scorcio di vita, un esempio, in cui quell’amore più vero si realizza. E una simile realizzazione sarà tanto più bella quanto più in essa si mostri la verità dell’amore, cioè quanto più l’artista sappia mostrare, attraverso la tela, di possedere una concezione intelligente dell’amore.
« L’arte è chiamata a rivelare la verità sotto forma di configurazione artistica sensibile, è chiamata a manifestare quella opposizione conciliata, ed ha quindi in sé, in questa rivelazione e manifestazione, il suo scopo ultimo. » (Hegel, ivi, pp. 66-67)
Tuttavia, v’è da chiedersi se l’arte generalmente porti a termine questo suo compito, o se invece rischi molto spesso di scadere in deviazioni tecnicistiche. Volgendo lo sguardo almeno agli ultimi due secoli, sembra che parecchi artisti, invece di rivolgersi al supremo fine dell’arte, abbiano dedicato il loro tempo all’evoluzione tecnica delle forme, dimenticandosi totalmente che in ogni opera vi è, oltre alla forma, un contenuto da esprimere. Migliaia di paesaggi, migliaia di nudi, migliaia di viali di grandi città europee. Centinaia di tecniche, come quella che Matisse, all’alba del fauvismo (ca. 1905), aveva intravisto possibile: i colori puri, opportunamente accostati in toni dissimili da quelli degli oggetti di cui facciamo quotidianamente esperienza, potevano dare spessore e profondità agli oggetti, o esprimere uno spazio, tanto quanto vi riusciva una pittura più tradizionale:
« L’uso dei colori puri non è che l’esterno del Fauvisme; il Fauvisme è derivato dal fatto che noi ci mettevamo del tutto lontani dai colori imitativi, e che con i colori puri ottenevamo delle reazioni più forti – delle reazioni simultanee più evidenti; e c’era anche la luminosità dei colori… » (Scritti e pensieri sull’arte, p. 89)
La quantità di scene di locali e paesaggi prodotti dall’Ottocento e dal primo Novecento pittorico è impressionante; e da questi, realizzati con le innumerevoli tecniche di cui si diceva, si è poi passati alla ricerca di altri mezzi espressivi, che potessero persino esulare assolutamente dal descrivere qualche cosa. Si è arrivati, nel secondo Novecento, addirittura a teorizzare che l’unico metodo per portare in luce il mistero dell’uomo fosse dipingere in modo tale da lasciare agire il “subconscio”, tentando di lavorare il meno possibile una tela, e facendo colare il colore spontaneamente; si è pensato di tracciare linee non più mediante l’uso dei pennelli, ma bucherellando o tranciando le tele; abbiamo assistito a un conflitto fra concretisti e astrattisti, cioè fra coloro che prediligevano un’astrazione geometrica e quelli che invece l’astrazione la immaginavano “disordinata”. Una serie di mezzi unificati dal medesimo precetto: « ciò che contava allora era il fatto di dar vita a delle opere che non fossero naturalistiche e non avessero riferimento con la realtà del mondo esterno. » (Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, p. 79)
Sebbene sia davvero plausibile che la scoperta di nuove tecniche, con alcune trovate decisamente piacevoli, conceda una più ampia capacità di realizzare opere di valore, è altrettanto possibile che, in tutto questo suo affaccendarsi, l’arte abbia dimenticato qualcosa di estremamente importante: il contenuto che vuole esprimere. Sviluppare innumerevoli modi di dipingere e disegnare, per illustrare solamente una campagna francese! I paesaggi sono belli; le sensazioni che restituiscono forti; ma è tutta qui l’arte? E allo stesso modo, le macchie di colore sulla tela, che ci coinvolgono a loro volta con delle sensazioni più o meno gradevoli, vogliono aver per fine solo questo? Anche affidandoci alle giuste parole di Giacometti, quando asseriva che «l’oggetto dell’arte non è riprodurre la realtà, ma creare una realtà della stessa intensità», ci chiediamo: l’arte non vuole essere niente più che la capacità di trasmettere sentimenti vaghi e indeterminati? Vuole davvero che si dica, di una tela, che starebbe bene in un salotto, a mo’ di decorazione che rende una bella atmosfera e nulla più?
Gli artisti, in genere, non badano a quel proposito d’indicare la verità. Poco importa se nel dipingere un concetto non si sa quale sia il suo valore perché non lo si è mai cercato, né perciò si sa davvero come realizzarlo; l’importante è unicamente l’innovazione tecnica. E quel che risulta più paradossale, è che neanche la tecnica oggigiorno sembra se la passi troppo bene: dai precisi tratti cubisti o fauvisti, in cui si scorgeva almeno l’efficacia del gesto pittorico, e dai toni intensi dell’espressionismo astratto, capaci di impressionare lo spettatore, oramai si è giunti a “tecniche” dalla dubbia utilità estetica. Non potrebbe essere altrimenti: prima, l’obiettivo risiedeva perlomeno nel rendere al meglio la sensazione che un luogo lasciava scaturire, o viceversa, fare in modo che un qualche tratto “informe” infondesse nello spettatore una certa sensazione: perciò si studiava l’uso del colore, del disegno, della forma. Ma dal momento in cui non si vuole più mostrare nulla, non vi può nemmeno essere un modo migliore per renderlo. Ed ecco che, se già l’arte dell’Ottocento e di parte del Novecento, risentiva per un verso della mancanza di verità, e i contenuti che ricercava erano alle volte non troppo significativi, quella contemporanea (con le dovute eccezioni) è la conseguenza più pura di tale assenza. Se Matisse poteva ancora dire di essere «debitore della [sua] arte a tutti i pittori», perché la sua tecnica era frutto di un confronto ragionato con le posizioni altrui, ciò che vide, sul principio degli anni ’50, fu l’emergere di alcuni artisti che « sembra che partano da un vuoto. […] difendono un punto di vista inesistente; fanno l’imitazione dell’astrazione. Non si trova espressione fra ciò che vorrebbe essere il rapporto fra i loro colori. » (Ivi, p. 216) Insomma, che non riescono neppure a rendere una sensazione, come sapevano fare i paesaggi o certa arte non figurativa. Ma che riescano o non riescano a trasmettere alcunché, il contenuto è sempre trascurato, se per contenuto intendiamo quello di cui si diceva sopra. È trascurato in Matisse, che offre una riproduzione di momenti della sua quotidianità; e lo è nel non figurativo, in cui appunto, ci si preclude – per definizione – qualcosa più di una sensazione formale, che possa riferirsi a qualcosa in particolare. Ma, si diceva, nemmeno un classico come un quadro di un ambiente naturale è sufficiente al compito dell’arte:
« l’arte, avendo a suo oggetto peculiare il vero, lo spirito, non può dare l’intuizione di questo mediante gli oggetti particolari della natura come tali, per es: il sole, la luna, la terra, le stelle ecc. Questi sono certamente esistenze sensibili, ma isolate, e prese per sé non danno intuizione dello spirituale. » (Hegel, ivi, p. 199)
Gli studi dei grandi pittori non vertono spesso sul cosa dipingere. Nulla negli scritti di Matisse, di Rothko, etc., ci lascia pensare che se ne siano dati troppa pena. Lo stesso Kandinsky, che si propone di indicare Lo spirituale nell’arte (1912), non fa che portare avanti gli studi tecnici dei suoi predecessori, tanto da lasciare in eredità più un manifesto di ribellione alla tecnica naturalistico-realistica che un vero e proprio saggio sulla spiritualità nel modo in cui l’abbiamo presentata, cioè come necessità di un contenuto forte.
Sedotti dalla luce e dai colori che illuminano e definiscono la propria città e la propria terra, oppure “banalmente” dediti a ritrarre il modello che si presta alle loro esercitazioni o il mondo che fa capolino dalla loro finestra, gli artisti ritraggono ciò che immediatamente c’è (sia pur esso una forma geometrica o uno sghiribizzo), senza dedicarsi troppo alla ricerca di qualche significato recondito da mostrare al mondo. Sebbene riescano dei capolavori per gli aspetti su cui seriamente lavorano, cioè la resa dei “soliti” oggetti e soggetti, nel gustare le loro opere sentiamo la mancanza della domanda su ciò che vale la pena raffigurare. E seppure ora anche quell’unico tratto riuscito stia andando perduto, tanto da non permetterci di apprezzare il lato tecnico di molte delle opere contemporanee, non sembra eccessivo far risalire parte della colpa di questo ai grandi, che da un certo punto di vista, così grandi non furono. Con la dimenticanza del senso, siamo stati lentamente condotti sino al drammatico punto in cui « quel che è il meno artistico viene considerato come il vero principio dell’opera d’arte » (Hegel, ivi, p. 80).
26 ottobre 2017