La distruzione delle ideologie e delle religioni consegna all'uomo moderno la disperazione del vuoto, da riempire con le prime cianfrusaglie offerte dal mercato.
Dio muore e, inaspettatamente, il mondo si re-incanta. Appassisce l’oppio dei popoli e, paradossalmente, l’Occidente è più “sballato” di prima. La metafisica e l’ontologia tradizionali non hanno più voce in capitolo nel contesto di un “serio” dibattito scientifico e parallelamente si assiste al proliferare di sette e movimenti sincretistici dalle dubbie influenze esoteriche. Le grandi religioni arrancano dietro alle scienze dure che pretendono di spiegare l’universo secondo criteri fisicalistici e, perciò, riduzionistici, e sempre più la gente si affida a dottrine confezionate da sciamani improvvisati, che hanno fatto di qualche lettura in più il segreto della loro sapienza accessibile a pochi eletti. Il Postmoderno, il tempo in cui trionfa la tecnica e il suo straordinario potere trasformativo, è lo stesso che ha generato Scientology, la New Age e le sue idiosincrasie mistico-complottistiche. Se ne sentono di ogni: teosofia, antroposofia olistica, ontosofia, filosofia omeopatica, neopitagorismi, raelianesimo (sic!) e chi più ne ha più ne metta...
Che cosa è successo? Ci si è liberati della grande zavorra ideologica che rendeva schiave le masse e ora queste stesse masse, fatte di individui tormentati oggi come una volta da problemi laceranti (e a cui si sono aggiunti nevrosi, smarrimento, perdita di identità, sensi di colpa dovuti all’incertezza circa i valori a cui aderire etc.), richiedono a gran voce soluzioni salvifiche che evocano, almeno nella forma, le medesime modalità esplicative messe in campo dalle grandi religioni rivelate, apparentemente spazzate via dal positivismo scientifico e dalla morte di Dio.
Ma cosa è morto? Non tanto il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, che anzi sembra essere più che mai vivo e vegeto nelle circonvoluzioni misticheggianti di certi neo-profeti da strapazzo, quanto l’aspirazione a cui esso, nei secoli moderni e premoderni, voleva rispondere: quella di una visione unitaria ed universale della realtà; comprensione che, non riducendo il mondo a questo o quell’aspetto astratto (come di fatto succede con l’operato delle vittoriose scienze attuali, che ci propinano una natura fatta di sole forze e particelle o una cultura fatta di soli istinti complessi e impulsi cerebrali), ambisce a intravvederne il senso.
È defunto, insomma, il significato più autentico della religione, da intendersi al di là delle sue determinazioni catechistiche particolari, come un momento costitutivo della vita umana.
Risulta dunque scomparsa quella ineliminabile tendenza che vede la ragione non contenta di se stessa, non contenta del sempre insufficiente contenuto che, di volta in volta, razionalmente, determina. Ma insufficiente, appunto, non perché non sia razionale, ma perché rivela solo parte degli aspetti che una spiegazione più razionale ancora, perché più “comprensiva”, abbraccerebbe. La consapevolezza di tale insufficienza, accompagnata alla conseguente necessità che, al di là del nostro limitato ancorché ampio e ampliabile campo d’azione, ragioni “più profonde” esistano, è la coscienza religiosa di ogni individuo e ogni popolo. Ma ciò è quel che il Postmoderno ha voluto dimenticare, non potendo di converso eliminare questa originaria e smisurata ambizione dal cuore degli uomini. Tolte di mezzo allora le strutture che avevano retto fino ad allora, non si è inteso metterne in piedi di nuove: lo spaesamento era inevitabile!
Vediamo allora persone che abbracciano alberi; che parlano agli animali come se questi potessero svelargli l’arcano delle loro vite interiori; che ingurgitano intrugli organici di dubbia efficacia per curare patologie importanti o che, peggio, digiunano lunghi periodi per ritrovare una salute che fino a qualche decennio fa si pensava si mantenesse soprattutto se si mangiava; gente che si serve di talismani, amuleti, mantra, preghiere le più bizzarre; che si accoppia in gruppo in nome di ridicole divinità dal volto alieno.
E per contro gli alberi che andrebbero salvati, in massa, per evitare catastrofi ambientali, continuano a essere distrutti, mentre i relativamente pochi abbracciati sopravvivono solo nelle amene comuni di questi sapienti profittatori dal pollice verde; la dignità del “ciuccio” che accompagnava il contadino nella sfessante opera sua di far fruttare la terra e dar da mangiare ai figli, cede il passo assieme a mille altre belle – belle perché necessarie sul serio? – tradizioni che scompaiono a vista d’occhio, diventando niente più che un vezzo palliativo per poveri nevrotici sull’orlo di una crisi; la vera spiritualità evapora, ovunque, perché ai svariati mantra quasi mai corrisponde un’autentica coscienza etica e sociale. Il sesso, che dagli anni ’70 in poi avrebbe dovuto tramutarsi nell’emblema dell’amore universale tra gli individui, è diventato niente più che lo “scopazzare” disattento e diffuso che vede i giovani fottersi “spensieratamente” a vicenda, condannandoli a una vita in cui all’indifferenza dei corpi che fottiamo corrisponde l’indifferenza delle anime che, se ci facessimo davvero l’amore, riusciremmo perlomeno a sfiorare.
Viene a tal proposito in mente quella divertente scena di Un sacco bello (1980) in cui un Carlo Verdone in versione hippie spiega al padre, uno sconvolto e strepitoso Mario Brega, lo stile di vita che conducono lui e i fratelli della sua comune all’insegna della raccolta e della condivisione, intervallato da momenti in cui tutti si denudano e si buttano nell’acqua. La sintesi esilarante del padre, che fa fatica a vederci anche solo un po’ più di quello, è che il tutto si risolva in un “tutti dentro a ‘na piscina co’ ‘sti cosi de’ fori!” Non siamo, in effetti, di fronte a una dinamica assai simile?
La verità è che star bene – con sé, prima di tutto ‒ è difficile; e richiede il difficile sforzo di comprendere razionalmente: la hegeliana e tanto vituperata (proprio perché hegeliana) “fatica del concetto”. Richiede, dunque, la difficile arte dello studio e del pensiero, il cui lavorio è spesso a prima vista meno affascinante e fascinoso dei voli pindarici dei santoni dell’ultima ora, ma i cui risultati, nel concreto, lo sono assai di più, proprio perché, appunto, sono dei risultati. Che non ci convenga, allora, in mezzo a questo marasma confusionario di cialtronate; in mezzo a questo pot-pourri di visioni del mondo che, forse sì, dan voce a una esigenza legittima e talvolta propongono spunti interessanti e sviluppabili, ma che nella dispersione caotica entro cui si stagliano fanno più danni che non benefici; che non ci convenga – si diceva – recuperare un po’ di sana, desueta, noiosa metafisica? Insomma, un po’ della cara vecchia filosofia? Ahinoi, nel ventunesimo secolo ci tocca di nuovo scrivere, come dovette fare Kant, i Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica.