La medicina non ha a che fare con oggetti, non può pretendere di osservare ciò di cui si occupa come un fisico osserva un peso che cade o un astronomo osserva i pianeti che si muovono. Il medico ha a che fare con un essere vivente, con una storia alle spalle, con delle specifiche esigenze e capacità come quella di amare, soffrire, compatire, ecc. e deve trattarlo in quanto tale.
« Definirò ciò che ritengo essere la medicina: in prima approssimazione, liberare i malati dalle sofferenze e contenere la violenza della malattia. » (Ippocrate)
Così scriveva Ippocrate, cosiddetto “padre della medicina”. Ma che significa esattamente liberare i malati dalle sofferenze? Può forse il curare il paziente ridursi al semplice eliminare ciò che causa la sofferenza corporea? Oppure deve guardare al contesto più ampio di relazioni in cui il paziente si offre come persona?
Sembra che la medicina oggi si preoccupi perlopiù di riportare il paziente a uno stato di salute fisica standard, preoccupandosi poco per il suo star bene psicologico o sociale, e generalmente ignorando tutto ciò che non è sofferenza fisica come la sensazione di solitudine, abbandono e sfiducia che si può avere quando si è da soli sul letto di un ospedale. Tutto questo inoltre lo fa creando un distacco incolmabile tra il medico e il paziente, elevando il primo al di sopra del secondo senza lasciare spazio per un eventuale rapporto di fiducia, di amicizia, di amore.
Tale concezione della medicina è efficacemente descritta da Franco Basaglia, fondatore della concezione moderna di salute mentale, che in Le contraddizioni della comunità terapeutica scrive:
« In medicina, l'incontro tra medico e paziente si attua nel corpo stesso del malato. Questo corpo che si offre al medico per essere curato, non corrisponde al "corpo vissuto", al "corpo proprio", con tutte le modalità e le implicazioni soggettive ad esso inerenti, ma viene considerato dal medico nella sua nuda materialità ed oggettualità. Che il corpo visitato dal medico appartenga al soggetto specifico che lo vive e lo significa, ciò esula dalla finalità del rapporto che viene ad instaurarsi. Il soggetto, che pur è il significato di quel corpo sofferente, non viene preso in causa in questa relazione particolare, come se fosse mantenuto ad una certa distanza. In questo senso l'incontro tra medico e malato si attua attraverso un corpo anatomico che serve, contemporaneamente, come soggetto di indagine e come secondo polo del rapporto; si tratta cioè, di un incontro tra un soggetto ed un corpo cui non viene data altra alternativa oltre essere oggetto agli occhi di chi lo esamina. Estraneo dunque a quest'ultimo quanto al soggetto che lo significa, pur essendo insieme il momento cruciale e la finalità stessa della relazione ».
Il succitato psichiatra voleva far notare come non fosse possibile per la psichiatria avere a che fare con un corpo diversamente dalle altre branche della materia ma rimane il presupposto che la medicina vorrebbe che il raccogliere informazioni sui pazienti, trattandoli come se fossero oggetti, rendesse la pratica medica più scientifica, in modo forse da non distrarre il medico dal suo compito di far tornare a funzionare quella macchina che è il corpo umano. Ma con tale pretesa sembra si voglia ridurre il medico a un meccanico che aggiusta automobili, come se si potesse paragonare quella persona che è il paziente a un’automobile, e la salute di quello al mero funzionamento corretto del suo corpo.
Questo sguardo sul paziente si rivela quindi inevitabilmente miope, poiché la medicina non ha a che fare con oggetti, non può pretendere di osservare ciò di cui si occupa come un fisico osserva un peso che cade o un astronomo osserva i pianeti che si muovono. Il medico ha a che fare con un essere vivente, con una storia alle spalle, con delle specifiche esigenze e capacità come quella di amare, soffrire, compatire, ecc. e deve trattarlo in quanto tale. Un medico che trattasse il paziente come un oggetto dovrebbe astrarre dalle caratteristiche che lo rendono soggetto e la cura che può offrire sarebbe di conseguenza solo parziale, solo corporea, come se l’individuo fosse solo un insieme di pezzi che devono lavorare bene assieme. La vera salute invece deve essere un’armonia interna ed esterna al paziente, il quale deve star bene con sé e con gli altri.
Questa ricerca dell’armonia perduta dovrebbe partire dal medico stesso, che, appunto perché è colui che sa come guarire, in quel momento può essere la persona più utile e vicina al malato, malato che in quanto tale è sofferente e richiede amore, amicizia, sostegno e cura più che in ogni altro momento della sua vita.
« La depressione è un'epidemia di portata mondiale. Nel 2020 secondo le stime dell'OMS la depressione sarà la più diffusa malattia del pianeta. Personalmente credo che la maggior parte delle depressioni abbiano le loro radici nella solitudine, ma la comunità medica preferisce parlare di depressione piuttosto che di solitudine. È più facile liberarci del problema dando una diagnosi e una scatola di farmaci. Perché se cominciassimo a parlare di solitudine, sapremmo, per certo, che non ci sono farmaci. Non c'è industria medica che tenga, basta l'amore umano. E la cosa meravigliosa è che non serve una scuola di formazione per essere amanti. Tuttavia c'è sempre uno squilibrio tra quanti continuano ad "ammalarsi" di questa malattia e coloro i quali cercano, ognun per sé, di arginarla. » (Patch Adams, Conferenza al Teatro Ariosto di Reggio Emilia)
La solitudine che porta alla depressione di cui parla Patch Adams è sicuramente qualcosa che riguarda tutta la nostra civiltà e la nostra cultura, non solo la pratica medica. Ma appunto perché riguarda tutto il nostro vivere riguarda anche tale scienza, anzi soprattutto perché la medicina richiede un movimento verso l’altro, il rapporto ad un’alterità vivente e quindi dovrebbe attivarsi per prima per ridurre questa solitudine sociale. Per un paziente in ospedale, lontano da casa, magari senza persone che possano fargli compagnia per molto tempo, come può non essere importante avere un medico di cui fidarsi, con cui parlare, con il quale aprirsi e superare la sofferenza anche psicologicamente?
Purtroppo sono rari i casi in cui il paziente sente che il medico è lì per lui, che il dottore è veramente presente quando viene visitato, raramente il paziente riesce a sentire l’umana vitalità del medico, e altrettanto raramente il medico riesce a sentire il paziente come una vita non solo biologicamente intesa, ma come vita di un individuo che ama, disprezza, soffre, chiede e dà affetto. La maggior parte dei medici, per non incorrere in generalizzazioni inutili, disprezza questo legame umano col paziente, ne ha paura, pensa sia meglio non correre rischi e astenersi osservando il paziente astratto dalla sua vita per farlo ritornare ad una condizione che sia considerata come standard della salute.
La reificazione del soggetto impedisce tutto questo fantastico mondo che potrebbe nascere intorno alla medicina. La malattia e la morte sono qualcosa di ineluttabile per la natura umana, e per questo ha ancora meno senso viverle in maniera negativa, aggiungendo alla sofferenza corporea anche la sofferenza spirituale. Il legame di amore e amicizia che può instaurarsi tra medico e paziente può invece aiutare a superare la sofferenza spirituale, creando un legame umano tra i due, superando insieme la sofferenza.
Una pratica medica che non sappia vedere il paziente nella sua interezza di persona risulta perciò una pratica mutilata, non al servizio della vita nella sua interezza, ma meramente servitrice di quella parte biologica della vita umana che risulta vuota se non riempita da quei valori che la rendono propriamente umana, valori che vanno oltre il buon funzionamento di un corpo.
24 ottobre 2017