Oggigiorno, tra i "profani", si compie una svalutazione frettolosa dell'arte astratta, la quale – si dice – non riesce ad essere "vera arte". Ma davvero lo sfumare delle figure può essere associato ad un regresso? Qui proviamo a mostrare il contrario, in una breve analisi della tendenza artistica che cominciò a prendere piede verso la fine del XIX secolo.
« La pittura è un linguaggio naturale tanto quanto il canto e la parola. È un modo di produrre una testimonianza visibile della nostra esperienza – visiva o immaginativa –, alterata dai nostri stessi sentimenti e dalle nostre reazioni, e che si manifesta con la stessa spontaneità e immediatezza del canto o della parola. » (Rothko, Scritti sull'arte)
Nel parlare di arte astratta, generalmente, ci rivolgiamo a quella tendenza che caratterizza perlopiù la stagione pittorico-scultorea degli ultimi due secoli. Tuttavia, benché pure qui continueremo a utilizzare il termine in quell’accezione oramai d’uso comune, è bene sottolineare, in via preliminare, che, a rigore, tutta l’arte è astratta. Se astratto vuole dire trascurare, sulla tela, alcuni elementi superflui al fine dell’opera, allora è subito evidente che «tutte le opere delle maggiori epoche culturali, infatti – dalla Cina agli Aztechi, dall’arte cinese a quella bizantina – sono altamente astratte» (Dorfles, Il divenire delle arti). L’arte, insomma, che nel gergo comune si dice astratta, dovrebbe essere con più precisione definita “non-figurativa”, in quanto avente quantitativamente più astrazione rispetto al passato. Ciò premesso – e basterebbe a fugare buona parte dei pregiudizi sul famigerato astrattismo –, quello che vogliamo fare qui è gettare uno sguardo sull’arte novecentesca, cioè proprio quella che nella distinzione più corretta chiameremmo non-figurativa.
Sin dall'Ottocento, la pittura occidentale comincia a compiere un passo decisamente inaudito, assume un volto nuovo. Il simbolismo, l’espressionismo, il cubismo, etc., cominciano a far emergere quello che sarà poi un marchio indelebile dell’arte odierna, ossia l’allontanamento da una certa rappresentazione “fedele” dei contorni dell’oggetto. Se l’arte "classica", tendenzialmente, amava presentare le sue scene senza discostarsi eccessivamente dalle sembianze realistiche delle forme, quella moderna muove nella direzione opposta. Disegnare, per esempio, un orecchio giallo, un cane blu, delle colline rosse e magari dai confini poco “naturali”, perché spezzati e ricomposti in modi differenti, diventa perfettamente lecito: «quand je mets un vert, ça ne veut pas dire de l’herbe; quand je mets un bleu, ça ne veut pas dire du ciel» (H. Matisse). Questo passo, uno fra i tanti, sembra una conquista non indifferente agli scopi dell’arte. Un popolarissimo caso in cui ritroviamo questi elementi è Guernica, che nella sua caratteristica frammentarietà, con le sue “porzioni” di figure che si incasellano in modo inorganico le une con le altre – inorganico rispetto alla visione usuale che non consentirebbe di raffigurare, ad esempio, le linee dei corpi intrecciate –, mostra che è possibile, in quel nuovo modo di dipingere, rappresentare al meglio la lacerazione e la devastazione che la guerra comporta. Gli oggetti sconnessi e rimescolati come si presentano in quel dipinto, non rendono inefficace il suo proposito, ma riescono forse a spiegare ancora meglio la disperazione e il dolore che quegli scorci paesaggistici “civili” suscitano in chi li vive.
La perdita dei contorni usuali quindi, se riesce, come sembra in alcuni tratti di Picasso, a penetrare meglio il reale di quanto non lo facesse un’arte più consuetudinaria, non sembra affatto fuori luogo. In effetti, la fedeltà all’oggetto come si presenta, privo di critica, nell’esperienza immediata, non risulta essere un tratto distintivo della buona arte. Per questa ragione appaiono sciocche quelle correnti pittoriche aventi per unico obiettivo una rappresentazione assolutamente realistica; e come, a ben pensarci, sarebbe possibile un’imitazione totale della natura, quando il mezzo che vorrebbe esprimerla la raffigura soltanto? Sarebbe un’assurdità «gareggiare con essa», poiché ne risulterebbe nient’altro che una «caricatura della vita» (Hegel, Estetica). Il filosofo di Stoccarda spiegava:
« L’opera d’arte può […] limitarsi all’imitazione della natura, ma questa non è la sua determinazione essenziale. […] Lo scopo nell’imitazione della natura potrebbe sembrare questo, che l’uomo voglia mostrare l’abilità di produrre anch’egli quel che produce la natura. […] Ma questo sarebbe solo l’interesse interamente soggettivo di voler mostrare la propria abilità. » (Hegel, Lezioni di estetica)
E lo stesso asseriva Gillo Dorfles a proposito di una certa corrente novecentesca chiamata iperrealismo; il cui obiettivo estetico si rintracciava nella rappresentazione non solo naturalistica, di quel realismo di cui l’arte classica era fautrice, ma in un’ossessiva ricerca del particolare quasi fotografico. Più il dipinto restituiva i dettagli precisi dell’esperienza quotidiana – di qui l’iperrealismo –, più era di valore.
« Ma nel caso dell'iperrealismo, quello che ha colpito più acutamente il pubblico, non è tanto la resa veristica dovuta all'impiego di mezzi fotografici o meccanici quanto l'abilità esecutiva delle immagini realistiche "dipinte a mano"; ed è certamente codesto l'aspetto più deteriore e meno interessante del fenomeno. » (Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi)
Il teoreta tedesco e l’esteta italiano, a distanza di poco più di un secolo, rilevano in questa façon de faire null’altro che del mero autocompiacimento per la propria abilità tecnica. Quest’ultima, seppur magari risulti interessante e affascinante in un primo momento per lo stesso spettatore, che rimane stupito dalla resa inusitata, non riesce tuttavia a saziare il bisogno che l’arte pone, e anzi finisce per annoiare. L’arte vuole mostrare qualcosa di più, affrontare i problemi che attanagliano il cuore umano: «L’arte […] parla agli uomini delle cose umane, ridesta sentimenti assopiti, offre rappresentazioni dell’autentico interesse dello spirito […]» (Hegel, op. cit.). Vuole evocare, insomma, quelle potenze che sono i valori che abitano l’essere umano. Le evoca per conoscersi e per farle conoscere. Tanto che,
« anche se si limita a presentare un quadro della passione che lusinghi le passioni stesse, […] è capace di rendere oggetto per l’uomo quel che l’uomo è, di portarlo a coscienza. In ciò è già presente la forza dell’addolcimento; perché l’uomo ora contempla i propri impulsi, che ora sono per lui, fuori di lui […]. Nelle lacrime c’è già consolazione […]. Contribuisce ancor più ad alleviare il dolore l’espressione di esso in parole, in immagini, in suono e figura. » (Hegel, Op. cit.)
Allora, quando ciò accade, lo stesso artista si commuove davanti alla propria creazione:
« come se per incanto avessi evocato un calore, un palpito, un respiro, così forti da far paura. » (Jean Dubuffet)
Lo stato d’animo che un paesaggio desta, può essere magnificamente espresso anche da dipinti poco ortodossi come quelli di Rothko, la cui maestosa dimensione e l’intenso colore richiamano «l'estremo silenzio delle profondità inesplorate», e dalle opere di Pollock, che, nel loro banale aspetto di «matasse arruffate», sono sufficientemente “complesse” da riuscire «a imprimere un senso di potenza anche a prescindere dall'assenza d'ogni figurazione e persino d'ogni composizione» (Dorfles, Op. cit.). L’astrattismo pittorico e scultoreo, vediamo anche qui, non preclude il compito dell’arte, e anzi, pare in alcuni casi lo favorisca; e lo favorisce ogniqualvolta un contenuto richiede una composizione formale di tal sorta. Peraltro, per riallacciarci a quanto detto prima, ecco un buon esempio di come le figure più realistiche non diano garanzia di buona riuscita:
« un dipinto mi interessa finché riesco ad accendere in esso una specie di fiamma, la fiamma della “vita” o della “presenza”, dell’”esistenza” o della “realtà” […]; ma a volte i miei quadri mancano di queste qualità. Posso averci messo delle figure […] esse sono riconoscibili ma non hanno movimento, non hanno “vita” […]. » (Dubuffet)
Perciò, certo comune pregiudizio, per cui l’arte astratta sia in toto da biasimare, non trova spazio. Quella critica, che vuole a priori più belle le opere “vecchio stile”, muove unicamente da un sensatissimo, cioè normale in principio, sentimento di estraneità scaturito dal non conoscere l’ambito artistico; ma, appunto, una volta addentratisi nei problemi delle arti, quella preoccupazione mano a mano svanisce.
Tuttavia, è ben plausibile che certa arte novecentesca, smaniosissima di ricercare nuovi materiali e nuove impressioni luminose, spaziali o “tattili”, si sia sbagliata nel pensare che il suo obiettivo fosse quello di «dar vita a delle opere che non fossero naturalistiche e non avessero riferimento con la realtà del mondo esterno», poiché, come rilevava anche Dorfles, la stessa voglia di mostrare nella propria opera la sensazione che un certo materiale dà, è già sempre un trarre qualcosa dalla «lezione della natura» (Op. cit.). È possibile anche, che una parte dell’arte concettuale, dedita al recupero della funzione gnoseologica dei dipinti e delle sculture – cioè un’arte che rinnovava l’urgenza di trasmettere un messaggio mediante il proprio operato –, di contro a tutti i movimenti artistici antecedenti che quest’obiettivo avevano smarrito, abbia svolto male il suo compito. Abbia, insomma, peccato in esteticità, dando luogo a intenti lodevoli seguiti da realizzazioni mediocri:
« Naturalmente non bastano queste premesse [il voler riportare in auge l’interesse per il messaggio veicolato] a far sì che le operazioni così eseguite si debbano considerare come accettabili ed esaltabili […]. » (Dorfles, Op. cit.)
È probabile che parte dell’arte del nostro secolo, più che ottima arte, sia ottima narratrice delle contraddizioni che lacerano l’uomo contemporaneo; che, cioè, sia una grandissima testimone della perdita di senso dei nostri tempi, più che una grandissima arte. E noi, con Dorfles, non riteniamo che «quest’orgia di libertà e capriccio sia per durare indefinitamente» (Cfr. Il divenire delle arti), ma che vi sia comunque un interesse scientifico, appunto, nel rilevare l’espressione in pittura e scultura di queste personalità «dilaniate e scomposte, disintegrate e schizoidi […] succubi d’un’angoscia esistenziale e “cosmica”» (Ivi, testo leggermente modificato). Le quali, peraltro, non mancano di lasciar trapelare, alle volte, un segreto movimento «proteso alla ricerca d’un novus ordo» (Ivi).
Se, com’è ovvio, non spetta qui a noi capire nello specifico quali siano le correnti o gli artisti più o meno biasimevoli, quel che invece, in ultimo, importa chiarire è il discorso sull’attualità di un’opera. Molti pittori, tra cui il succitato Dubuffet, si domandano con un certo timore quale sarà la durata dei loro dipinti; quando arriverà il momento in cui essi saranno considerati “vecchi”, “superati”, “finiti”. L'unica risposta che può dare loro pace è quella più ragionevole; ossia che qualora l’opera trasmettesse quelle "potenze" di cui si diceva sopra, il sentimento che evoca non perirebbe mai. Non perirebbe, come non perisce l’opera di Platone, che ancora dà smacco a tanti intellettuali odierni; o la poesia di Dante, capace di versi dalla pregnanza incredibile. E certamente non saremo così attratti, trattandosi di abitudini oramai distanti o divenute sgradevoli, dall’abbigliamento o da qualche particolare modo di fare; così non saremo nostalgici della situazione in cui versava Firenze ai tempi di Dante, o delle guerre tra le polis dell’Antica Grecia. Ciò che attraversa e commuove gli spiriti che dimorano nelle più svariate epoche è unicamente ciò che è vero.
« L’opera d’arte deve avere come contenuto gli interessi più elevati dello spirito e della volontà, ed essi devono tralucere attraverso l’esteriorità dell’esistenza, il loro accento deve risuonare dovunque. […] Lo spirituale è la cosa veramente potente e duratura, e se anche questa materia è presa dalle epoche più lontane, […] questa oggettività è anche la nostra soggettività. » (Hegel, Op. cit.)
O, che è lo stesso, nel riferimento preciso ad alcune correnti artistiche:
« Ritengo che gli esponenti migliori della pop art […] come quello di certo informale […] come quelli dell’arte povera […], e di quella concettuale […], non possano essere considerati “decaduti” né superati. » (Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi.)
18 settembre 2017