Gli ultimi secoli sono stati caratterizzati da un sempre maggiore sviluppo della teoria dei diritti, accolta come soluzione per sanare le disuguaglianze e le prevaricazioni presenti nelle comunità. Si è rivelata una dottrina sufficiente a migliorare il contesto collettivo?
Ad aprire qualsiasi libro di storia, senza neppure fare chissà quali analisi, si può notare come buona parte delle vicende umane abbia implicato situazioni di abuso verso una fetta non trascurabile della popolazione. Schiavitù, condizioni di vita precarie, sfruttamento ecc. sono alcune delle situazioni in cui non poche persone si sono ritrovate nei secoli. Il tempo, seppur lentamente, ha portato ad un miglioramento delle condizioni, con l’aumentare delle proteste dei sottomessi, sempre più coscienti di ritrovarsi in uno stato di minorità che non aveva alcun fondamento.
Fra le più note azioni in questa direzione, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) e la più recente Dichiarazione universale dei diritti umani (1948). Già dai documenti sopra enunciati, risalta, nella lotta al miglioramento generale della condizione umana, la parola diritti. Proprio su di essi, gran parte delle teorie politiche si sono sviluppate, oltre alle miriadi di lotte sociali sviluppate negli ultimi decenni. Sembrerebbe di aver trovato quell’elemento mancante, ciò che, non venendo rispettato, provocava le degenerazioni sociali delle civiltà precedenti.
Sorge allora spontanea la domanda: questa consapevolezza ci ha portato ad un netto miglioramento? È stata tolta quell’ignoranza che spingeva l’uomo a vivere come una bestia? La risposta, in buona parte, è no. Di soprusi e prevaricazioni, in giro per il mondo, se ne vedono ancora tantissimi. Non passa un giorno senza sentire un attentato, un atto di corruzione politica o una protesta contro un’ingiustizia al telegiornale. Al che verrebbe da pensare che, in fondo, la teoria dei diritti non sia ancora sostenuta da tutti, che qualche Stato sia rimasto indietro nel comprenderla e accettarla. Eppure dei conti non tornano, visto che i Paesi occidentali, gli epigoni dei diritti, paiono soffrire ugualmente di vari problemi. Si guardi alla sola America, che ad oggi si ritrova con un terzo della popolazione che fatica a soddisfare i bisogni più elementari (105.303.000 persone, stando ai dati riportati da Repubblica a marzo 2017). Dov’è il diritto al lavoro, ad una rimunerazione equa e ad una vita decente, quando continuano a vedersi licenziamenti in piena libertà e sgravi fiscali per chi ha maggiori capacità di spesa? Dov’è il diritto a creare una propria famiglia, avere una casa e ottenere un lavoro che promuova le sue capacità, se l’individuo non ha i mezzi per anche solo cominciare i suoi propositi? E come gli Stati Uniti, anche i Paesi europei non sono esenti da problemi ancora irrisolti.
Si può essere ancora sicuri che il problema sia solo una mal comprensione della teoria? O forse la stessa dottrina dei diritti è problematica, ha cioè delle contraddizioni che la inficiano dall’interno?
Per rispondere, è necessario analizzare un termine che sta alla base di tale pensiero: libertà. È questo il principio che sta tendenzialmente alla base delle teorie dei diritti: ognuno ha la possibilità di far qualcosa – non gli deve dunque essere impedita quella azione – perché è un uomo e in quanto è libero, può decidere, secondo propria coscienza, come dirigere la sua vita, senza che siano gli altri ad imporgliela. Una concezione la cui nascita è più che comprensibile: dopo anni di soprusi, si è deciso di vietare che fossero altri ad obbligare con la violenza la gente, per permettere che nessuno agisse contro la propria volontà. E fin qui il discorso funziona. Tale affermazione tuttavia non basta. Cos’è la tanto famosa libertà di scelta, in questa accezione, se non il mero faccio quello che mi pare? Se la base teorica del proprio agire è questa, come posso esser sicuro che le persone non abbiano fini fra loro contrastanti, facendosi male a vicenda? Detto con un esempio: se ho la libertà di fare soldi, perché devo aiutare un povero donandone parte dei miei? Perché dovrei smettere di arricchirmi e ottenere un potere sempre maggiore sull’economia?
Un lucidissimo Mazzini, di fronte ai punti critici della rivoluzione francese, parlò, nel saggio critico “La réforme intellectuelle et morale” di E. Renan, di come la radice del problema fosse una concezione della vita che si può benissimo sovrapporre alla degenerazione sopra citata:
« I diritti degli individui o dei diversi ordini sociali, non santificati da sacrifici compìti, non armonizzati e diretti dalla fede comune in una legge morale provvidenziale, guidano presto o tardi all’urto, al cozzo reciproco e ogni rivendicazione assume aspetto di guerra e d’odio. »
Come esplicitato dal genovese, finché il diritto di fare d’ognuno non è guidato da una qualche legge che lo armonizzi con le azioni altrui, si finirà sempre per ripiombare nella prevaricazione di chi supera gli altri, col risultato che:
« il successo diventa simbolo di legittimità e il reale si sostituisce, nel culto degli uomini, al vero. Tendenza siffatta si traduce poco dopo in adorazione della forza. »
Una situazione tremenda quella che si sviluppa a partire dal presupposto della libertà astratta. Un modo di vivere orribile, come ben mostra altrove Mazzini, e lontano dal vero vivere umano. Una concezione non fondata, in quanto non basata sullo studio di quello che è l’uomo e di cosa per lui abbia veramente valore:
« Tutto ciò che esiste ed ha vita vive ed esiste in un certo modo, secondo certe condizioni, con una certa legge; tale legge si presenta appunto come legge di vita dell’essere e quindi come limite e condizione per l’armonica coesistenza di più esseri viventi ». (Ugo della Seta, Giuseppe Mazzini Pensatore)
Solo comprendendo tali leggi, si può sapere cosa è veramente buono da seguire per la propria felicità; quale sia la legge morale per ogni singolo individuo, come per ogni società nel suo insieme. Un compito che non si esaurisce in una giornata:
« È errore […] il credere che l’individuo, quasi per intuito innato, possa trarre sol dalla propria coscienza la rivelazione della legge morale; la coscienza […] c’insegna bensì la esistenza d’una legge morale, ma non quale questa legge morale sia. » (Della Seta, op. cit.)
E per fare ciò, è necessario l’intelletto, l’educazione continua e costante su cosa è bene compiere, su cosa può portare la persona a essere felice realmente, senza credere ingenuamente che ciò che immediatamente piace sia ciò che realmente piace. Quante volte si è deciso di compiere un’azione, salvo poi pentirsi di quel che s’era fatto?
Basare una dottrina dei diritti su una così povera concezione di libertà non può che essere deleterio per ogni singolo individuo, il quale finisce per vivere in un coacervo infinito di contraddizioni, che dominerebbe ogni suo buon proposito di fare la cosa giusta:
« I prodotti del pensiero, formalizzati in massime o leggi, sono la garanzia che ci salva dalla furia con cui i singoli momenti della nostra vita potrebbero rapirci, stravolgendola. […] Se noi non distillassimo invece le nostre esperienze e le nostre riflessioni in una costituzione organica, allora i nostri eventi dominerebbero di volta in volta la nostra intera visione del mondo. » (Gabriele Zuppa, Fondazione dell’anima e della democrazia)
Concludendo, un monito inevitabilmente s’ha da fare sul futuro della comunità. O si cambierà direzione del pensiero, oppure la concezione della vita attuale, tanto astratta quanto infondata, finirà per travolgere la felicità di qualsiasi cittadino, incapace di uscire da una schizofrenia che lo porta a volere il suo non bene. Sarà l’oblio dei valori che la specie umana, col passare dei secoli, ha lentamente scoperto. Quelle leggi morali che hanno bisogno di essere tramandate e migliorate sempre più. Solo cambiando radicalmente rotta e seguendo quest’ultima opzione, si potrà fuoriuscire dal pessimo orizzonte postmoderno, scoprendo che forse il buon agire di ogni singolo non cozza con la società in cui vive, a dispetto di quanto il cattivo pensiero attuale continua a insegnare.
10 settembre 2017