Valutare la differenza vuol dire riconoscerne i limiti e le qualità, additarla come causa del conflitto significa invece arrendersi ad essa.
di Simone Basso
Si ingigantiscono rapidamente i danni di una società che non impara a differenziare. Il vivere quotidiano è infatti un continuo circondarsi di persone, animali, cose e più in generale relazioni che nel tempo concorrono alla costruzione e definizione di sé stessi. Ma è la differenza a permettere il movimento e la scoperta, in primo luogo, dell’ente esterno con cui ci si relaziona, in secondo luogo, della propria rinnovata e maggiorata identità. La differenza che nel mondo viene riconosciuta è il segno della ricerca che progredisce, la quale conduce a un ampliamento delle singole identità. L’inglobamento di ciò che prima non era ancora conosciuto all’interno dell’identità che ora l’ha compreso è l’arricchimento dell’individuo. Quando si comprende ciò che differenzia un elemento da un altro, si dimostra di aver ridotto il campo dell’“indistinto” che precedentemente appariva come un unicum indifferenziato. La differenza che si riesce a riconoscere è il grado di conoscenza alla quale si è giunti, il motore della ricerca della verità. Invece, un comportamento sempre uguale a se stesso, che viene reiterato indipendentemente da ciò che si trova di fronte, afferma la propria scarsa conoscenza rispetto all’elemento con cui ci si confronta. Questa è l’indifferenziazione: ciò che frena la ricerca, l’evidenza della limitatezza di ciascuno. Allo stesso modo l’atteggiamento indifferente nei confronti della sofferenza di qualcuno, indica la mancanza di consapevolezza della sua condizione. L’indifferenza dello sguardo è l’espressione della propria ignoranza, il limite della propria conoscenza.
René Girard ha affrontato più volte il tema dell’indifferenziazione; egli l’ha posto al centro della sua riflessione sulle crisi sociali, prendendo come esempio i casi di peste nella storia, ma estendendo il suo discorso a diversi altri tipi di crisi. Girard definisce come “cattiva” la reciprocità dei comportamenti incapaci di riconoscere il differente che li circonda e quindi di caratterizzarsi rispetto alla relazione che stanno sviluppando: nelle crisi, pertanto, lo scontro e il conflitto accentuano e moltiplicano i comportamenti reciproci, ovvero ripetutamente uguali a se stessi, non in grado di comprendere l’unicità dell’altro con il quale si rapportano.
« Quando la società va verso la rovina [...] la reciprocità che diventa visibile [...] non è quella dei buoni comportamenti, ma dei cattivi, è la reciprocità degli insulti, dei colpi, della vendetta e dei sintomi nevrotici. [...] Anche se oppone gli uomini tra loro, questa reciprocità cattiva rende i comportamenti uniformi ed è all’origine di una predominanza dello stesso, sempre un po’ paradossale perché essenzialmente conflittuale e solipsistica. [...] L’identità dei comportamenti causa il sentimento di una confusione e di una indifferenziazione universali. [...] È il culturale che in qualche maniera si eclissa, indifferenziandosi. » (René Girard, Il capro espiatorio)
Se quindi è la differenza che offre la possibilità di progredire e diventare gli uomini che si vuole nel confronto con essa, allora è altrettanto vero che sarà parimenti fruttifera l’organizzazione di una società che sarà capace di riconoscere il differente per poterlo ricomprendere entro di sé e arricchirsi a sua volta.
Ma qual è l’odierno confronto che si ha con ciò che è “differente”, tanto da non rientrare all’interno di quello che è il sistema conosciuto? Girard scrive:
« Dovunque sentiamo dire che la “differenza” è perseguitata ma questo discorso non è necessariamente proprio solo delle vittime, è il sempiterno discorso delle culture, che si fa sempre più astrattamente universale nel rifiuto dell’universale [...]. » (Ivi)
Che cosa significano queste parole?
Molto spesso la causa di molte persecuzioni viene ritrovata nella non accettazione delle differenze etniche, politiche o religiose. Per confermare che questa associazione sia vera si deve prima approfondire che cosa significhi “perseguitare”. Questo verbo è solitamente inteso come coalizione di una maggioranza nei confronti di una minoranza, alla quale vengono attribuite colpe o crimini da essa non veramente compiuti. Il più delle volte, come detto prima, la persecuzione viene associata ad un rifiuto della differenza. Ciò di cui non ci si è ancora accorti, e che Girard fa notare, è che le ragioni della persecuzione in ogni cultura non sono da ricercarsi nella differenza, ma nel suo mancato riconoscimento.
« Non è mai la loro differenza specifica che si rimprovera alle minoranze religiose, etniche, nazionali; si rimprovera loro di non differenziarsi in modo opportuno, al limite di non differenziarsi affatto. Gli stranieri sono incapaci di rispettare le “vere” differenze; non hanno buoni costumi o non hanno gusto, secondo i casi; non capiscono bene il differenziale in quanto tale. Barbaros è non chi parla un’altra lingua, ma chi mescola le sole distinzioni veramente significative, quelle della lingua greca. Dappertutto il vocabolario dei pregiudizi tribali, nazionali, ecc. esprime l’odio non per la differenza, ma per la sua mancanza. » (Ivi)
In un periodo come quello odierno invece, in cui il tema delle differenze viene affrontato quotidianamente, ogni giorno viene propagandata la ricerca di una indifferenza verso tutto ciò che non si conosce, un comportamento che sia uguale nei confronti di tutti; si dice di non trattare diversamente chi è diverso, ma questo è impossibile, come impossibile è non essere diversi. Così, comportandosi sempre allo stesso modo, o almeno cercando di farlo, si persegue un’indifferenziazione più discriminante di qualsiasi differenza. Ciò che dà origine agli scontri tra culture e a quella che Girard chiama la «persecuzione vittimaria», non è la differenza, come il più delle volte viene affermato, ma, al contrario, il suo mancato riconoscimento. L’indifferenziazione contiene quello che Girard chiama l’«astratto rifiuto dell’universale», che si esprime nell’astratta accettazione dell’altro, falsa perché non risultante da un vero confronto, e discriminatoria in quanto inconsapevole di ciò che l’altro incarna. Accettare l’altro non significa condividerne i valori opposti al proprio, bensì riconoscerne i limiti e le qualità. Illudendosi quindi di comportarsi allo stesso modo verso chiunque, si costruisce un muro a causa del quale sarà precluso qualsiasi riconoscimento di chi ci si trova davanti. Contemporaneamente la fantasticheria di comportarsi sempre allo stesso modo, farà credere di doversi aspettare che anche l’altro agisca in questo senso, ovvero che risponda in maniera indifferenziata alle proprie azioni, in quella maniera cioè, che rientra nello schema che già si conosce; quando il comportamento sarà differente però, questa vana speranza non verrà rispettata, ed incapaci di affrontare la differenza, si determinerà la nascita del conflitto. Salvo poi accusare la differenza stessa di averlo provocato. Questo illusorio tentativo di indifferenziazione è all’origine della discriminazione, è «l’astratto rifiuto dell’universale» che diviene incapace di mettere in atto una sana differenziazione. Qualsiasi idea di incontro e integrazione del diverso si abbia, sarà impossibile da realizzare fin tanto che non venga intrapreso un vero percorso di riconoscimento e valutazione della differenza, sia essa culturale, fisica o di opinione.
26 settembre 2017