I giovani del Duemila non sognano più, sono smorti, spenti, chiusi nelle loro prigioni, incastrati nei cicli produttivi di un capitale impazzito, pronti a inseguire Charlie Chaplin in Tempi moderni. Cosa è accaduto e come se ne può uscire?
FRANCESCO POSTORINO: Qualcuno disse che il Novecento è il secolo dell’anti-filosofia, dei linguaggi oscuri e della morte di Dio. Concordo in parte e aggiungo che tutti noi ne paghiamo le conseguenze. Non pochi studiosi sono dell’avviso che l’inizio della modernità abbia spalancato le porte al nichilismo. Stando a questa tesi, da Cartesio in poi non si è fatto altro che disprezzare i volti della trascendenza sino a cancellare per sempre l’incontrovertibile.
Personalmente mi spiace questo approccio deterministico. Non credo che l’illuminismo dei philosophes sia in qualche modo responsabile della notte dell’Olocausto. Non sono convinto, in altri termini, che la modernità in senso lato sia la madre naturale dei tempi bui che stiamo vivendo, anche perché molti moderni non hanno smesso di interloquire con l’immensamente altro, non hanno svuotato il mare dell’assoluto.
Mi riferisco a coloro i quali hanno cercato di contenere la foga del tempo, a disciplinare la storia, a dare un’importanza non smisurata alla vita del qui. Non mi pare, ad esempio, che il filosofo di Kӧnigsberg abbia qualcosa in comune con le «coscienze felici» del Duemila. La tensione kantiana tra il Sein e il Sollen, di cui parlo con costanza nei miei scritti, preannuncia una verità in fieri ambientata nel non-sapere. E il noumeno, colpevolmente divorato dalla futura scuola idealista, è la sobria rivendicazione di un limite, il segno che l’uomo non può conquistare l’essenza, una sospensione di giudizio, quel bisogno agnostico di rinnegare l’ultima parola. Kant ha sconfitto sul piano gnoseologico la metafisica tradizionale, eppure con senso critico ha protetto l’imperituro. I suoi degni successori, pur con rigore speculativo, hanno invece tradito l’alternativa al divenire e si sono tuffati in modo spregiudicato nei luoghi elusivi dell’immanenza. Penso che lo storicismo puro, l’orgia dialettica, la sconfitta dell’«altrove» e del Sollen, il realismo filosofico oltre che politico e culturale, l’ostentato ateismo ad opera di alcuni moderni, abbiano offerto un’arma preziosa all’«ultimo uomo» sbeffeggiato da Nietzsche, una scimmia che attualmente urla nelle «gabbie» televisive, nei salotti osceni del bon ton e negli spazi schizofrenici dei social network.
ANTONIO LOMBARDI: Che questo sia il tempo in cui si compie – se pur solo in actu signato, e cioè nelle menti degli illusi – la promessa di una fine della filosofia, invocata e celebrata dai sacerdoti del neopositivismo, dell’ermeneutica, dello scientismo e della tecnica, è fuor di dubbio. E tuttavia – in actu exercito – quella della fine della filosofia è, anch’essa, per quanto miserabile, una filosofia: contraddittoria, maldestra, nociva, potenzialmente letale; perché attende a una sia pur risibile “comprensione” del molteplice d’esperienza in cui siamo immersi e “navighiamo” (era non a caso questo l’argomento del Croce della Logica, che così confutava qualsiasi tipo di irrazionalismo, estetismo, a-filosofismo). Sono d’accordo con te anche nel rifiutare quel determinismo storiografico per cui l’epoca in cui stiamo vivendo sia l’esito inequivocabile della Wirkungsgeschichte delle imprese speculative tipiche della modernità; e tuttavia tu stesso non puoi fare a meno di individuare una origine storica della crisi: appunto, non si tratta stupidamente di dire che Cartesio o gli illuministi siano i padri del nichilismo (povero Cartesio, che voleva fondare addirittura teologicamente il metodo scientifico; poveri illuministi, che pretendevano di liberare il mondo dalle pastoie dell’ignoranza e della superstizione con la “sola” ragione!), quanto piuttosto ‒ come ben suggerisci ‒ di individuare quegli “slittamenti” per cui quelle imprese hanno sortito effetti probabilmente opposti alle loro intenzioni.
Mi pare proprio il caso dei “successori” di Kant, a cui ti riferisci: vorremmo mai negare che Hegel, con tutte le ambiguità che comunque gli appartengono (ambiguità messe in rilievo da Löwith, per esempio), non conceda un qualche spazio all’impossibilità dell’“ultima parola” quando pensa allo spirito come ciò che si sottrae alla determinatezza di qualunque Bestimmung astratta, per sua stessa natura destinata a togliersi nell’assoluta Negativität dell’Idea? Vorremmo mai dire che il neoidealismo e le sue filiazioni più o meno eterodosse non abbiano fatto, infaticabili, la ronda attorno al mistero dell’Ulteriore? Sono piuttosto le interpretazioni distorte di queste dottrine (il marxismo, per esempio, che “empirizza” la dialettica, elevando l’astratto e il finito ‒ la materia, il sensibile ‒ a principio metafisico; il problematicismo spiritiano e lo storiografismo gariniano, per venire all’Italia novecentesca) che hanno reso l’Atto una vera e propria gabbia, talmente ampia che non si vede né via d’uscita né sbarra di sorta, molto più di quanto non avrebbe fatto il suo “inventore”, che lo considerava invece ultima e postrema “apertura” ontologica. La categoria incategorizzabile! Viviamo, ahinoi, dei nostri malintesi. Ma fortunatamente, anche nel Novecento, c’è chi resiste (qualcuno che va «in direzione ostinata e contraria», come sapeva qualcuno, ci sarà sempre) e prova a capire davvero, non solo il presente, ma anche il nostro passato, la nostra tradizione. Il compito resta quello di guardarci indietro e comprendere dov’è che abbiamo sbagliato a “leggere”; più per idiosincrasia nostra che non per demerito dei grandi.
FP : A proposito di Lӧwith, mi viene in mente una pagina contenuta nel suo splendido Da Hegel a Nietzsche, in cui il filosofo tedesco approfondisce la distinzione hegeliana fra il «vecchio» e il «giovane». Il primo simboleggia la saggezza, il compiuto, lo strumento che corrobora la formula secondo cui il reale è razionale e viceversa, la calma del concetto puro, l’equilibrio delle menti virili; il secondo, invece, è l’incarnazione del Sollen, il paladino del dover essere, un fan dell’a priori sempre insoddisfatto, colui che vuole ripudiare l’agonia dell’ancien régime e costruire finalmente il sogno. Per Lӧwith, proprio Hegel s’identifica con il «vecchio», mentre i suoi allievi critici (Feurbach, Ruge e Marx) sono i veri «giovani».
Quando dico che lo storicismo ha vinto, intendo dire che il «vecchio» è riuscito a vincere la sfida secolare. Ha vinto pertanto il Sein, ha trionfato l’immagine fenomenica di un dato che non rinvia al fondamento, non segue la caparbietà di un imperativo un tempo osannato dagli spiriti rivoluzionari. Quell’apparire che kantianamente sfiorava i canoni «superficiali» dell’essere, oggi diviene una norma inderogabile intenzionata a introdurre la verità di comodo per il personaggio nichilista. Se il giovane cede il posto al vecchio – e non si tratta della gentilezza sporadica che possiamo osservare in un pullman o in una fila al supermarket – irrompe il cinismo postmoderno e s’inaugura la stagione del nulla. Il vecchio, infatti, rappresenta il già accaduto, ed è la lenta riproposizione di un adempimento. Non vorrei essere frainteso. La dimensione filosofica della vecchiaia è molto importante: il dubbio moderato che viene introdotto nelle maglie spesso faziose di chi vuole guarire nell’immediato le ferite dell’umanità, insomma quella medicina responsabile che serve a gettare un po’ di acqua nel bollore della gioventù, mi sembra tutto ciò necessario. Il problema è che la tensione fra vecchio e giovane oramai è diventata un’illusione.
I giovani del Duemila – d’ora in poi mi rifaccio anche alla condizione anagrafica – cercano in tutti i modi di indossare il vestito della saggezza. Non sognano più, sono smorti, spenti, chiusi nelle loro prigioni, incastrati nei cicli produttivi di un capitale impazzito, pronti a inseguire Charlie Chaplin in Tempi moderni. Vengono puntualmente ingannati dal “sapiente”, e nondimeno vi è nell’aria la loro arresa culturale. Non si organizzano. La loro tranquillità, forse non compatibile con quella «odiosa» e «di classe» che Simone de Beauvoir rimproverava a un affascinante Merleau-Ponty nei giardini dell’École normale supérieure, è il cattivo silenzio di chi ha rimosso l’impulso della reazione. Del resto, scendono in piazza con il nemico, ringraziano chi li accarezza nelle fredde stanze del dominio. Alcuni leggono con fervida attenzione gli inutili corsivi di vecchie firme, o ascoltano i sermoni moraleggianti nella società dello spettacolo profetizzata da Guy Debord. Il giovane si perde così nelle mille voci di un racconto manovrato dal vecchio potente. Lo si nota in tutte le aule decisioniste, ma anche dans la rue. L’annuncio di Nietzsche del Gott ist tot registra, dunque, la netta supremazia di un bieco conservatorismo e la morte del possibile.
Nella fase cupa del nichilismo sarebbe bello ripristinare la categoria spirituale della gioventù, e infilare elementi di primavera nell’inverno che ci opprime. Il giovane, secondo me, dovrebbe avere la capacità di «de-situarsi», come direbbe Karl Jaspers, cioè trovarsi e non trovarsi nel presente, camminare nell’immanente e con un occhio guardare il «prima», rendersi conto che la vita non si esaurisce nell’istante borghese, non si ferma nella narrazione monopolistica del vecchio o nell’ultimo sputo della scienza. Che l’intraducibile Umgreifende lo si può tradurre se, appunto, si mantiene l’abito della purezza, della tensione, del sublime, del calore. Purtroppo il sistema dominante non gioca a suo favore. Lo squadrone neopositivista miete vittime, distrugge l’originario e coltiva il funzionalismo premiando i vertici del sopruso. Il filosofo neoidealista Guido de Ruggiero sosteneva nel merito che «questo pericolo, per quanto grave, non è il più grave che incomba su di noi. Il pericolo maggiore non è dell’oggi, ma del domani, quando non ci sarà più il dramma, ma il ristagno, la calma desolata che segue la catastrofe». Era il 1941. Direi che ci siamo. Il vecchio fa tutt’uno con la legge disumanizzante. Adesso viviamo in una continua domenica di conciliazione, dove viene peraltro ridicolizzata l’ansia dei giusti, degli onesti, dei «giovani» e di chi non può.
AL: Queste precisazioni mi paiono essenziali. Il «vecchio», per l’appunto, non è l’eterno che risuona, nella voce dei classici, con sempre rinnovata freschezza ‒ il «bastone che percuote la roccia», avrebbe detto Ernst Jünger ‒ ma l’esatto opposto: è il cristallizzato, lo sclerotizzato, l’avvizzito, il mummificato; e tale può rivelarsi anche un «giovane», se non è in grado di rispondere alla chiamata rivoluzionaria (intesa nel senso buono, e non in quello deteriore di cambiamento coatto e irriflesso, da romantico “colpo di pistola”) che il classico gli lancia e sempre gli lancerà dalla lontananza estrema e però prossima più di ogni altra cosa dei suoi (solo anagrafici) secoli.
Come ben dici: il vecchio è il compiuto, è lo “stato”; ed è per questo che pretendere di riproporre e sostare presso ciò che è stato, sorpassato, significa agire secondo una logica paralizzante, da ultimo mortifera. Ma questo accade proprio perché il postmoderno si è dimenticato dell’eterno, di ciò che è sempre nuovo perché vale in ogni tempo e in ogni spazio ‒ ha dimenticato la verità; o, almeno, la consapevolezza che una verità, quand’anche non la conoscessimo, deve esserci – e bisogna cercarla, andando veramente “oltre”. Ciò che gli manca è lo slancio. La sua è una giovinezza al botulino, che gozzoviglia sempre allo stesso identico party; e celebra, sfoggiando i suoi mascheroni da “trucco e parrucco”, sempre il medesimo festeggiato: la logica funzionalista a cui hai accennato, che da amorevole dittatrice concede di sballarsi settimanalmente mentre impone l’eterno ritorno del circolo di produzione e consumo, consumo e produzione («Produci! Consuma! Crepa! … Sbattiti! Fatti! Crepa!», sbraitava negli anni ’80 un ormai attempato punkettone cattolico). E chi non produce/consuma è fuori dai giochi … uno scenario da “grande bellezza”!
La gioventù è spensieratezza, si dice, e noi per primi ci siamo abituati a questo adagio. «Goditi i tuoi anni!», ci vien detto. Ma se ci riflettessimo con un minimo di consapevolezza storica ci stupiremmo: un tempo, almeno fino alla prima metà del XX secolo, era l’anziano quello “senza pensieri”, ormai giunto al termine della vita e libero dalle preoccupazioni che lo avevano tormentato un tempo; spettava invece al giovane pre-occuparsi, struggersi e persino dannarsi nella ricerca di categorie nuove per la messa in piedi di un mondo che fosse nuovo, in cui le contraddizioni che abitavano il suo presente fossero finalmente tolte.
Questo capovolgimento di paradigma, che annulla come giustamente dici l’autentica dialettica tra vecchio e giovane, prima ancora che ai piani alti è riscontrabile tra di noi, poveri uomini della strada. Basti vedere come gli adolescenti vivono oggi cose decisive come le relazioni sociali e amorose. A tal proposito mi sovvengono le parole di David Foster Wallace, tra i grandi affreschisti di questo sfacelo, quando nel ’96 scriveva che «il mondo delle arti degli Usa di fine millennio considera fighe e giuste l’anedonia e il vuoto interiore» e concludeva che i ragazzini, nati con addosso già la «noia-del-mondo», entrano in contatto tra di loro solo perché c’è «fame-dei-coetanei». Entriamo in rapporto con gli altri solo perché c’è un bisogno ancestrale, ormai svuotato di tutto il resto, di farlo. Se biologicamente potessimo fare a meno di avere (parvenze di) rapporti di qualunque tipo, smetteremmo di averne. Scopiamo con chiunque solo perché, per usare ancora le parole dello scrittore statunitense, «il cosa è più ininfluente del fatto che ci sia qualcosa». Tolta la verità, rimangono gli appetiti: mangiamo per riempirci; facciamo sesso per svuotarci; i momenti ricreativi sono sempre più appiattiti su sessioni baccantiche all’insegna di sostanze e musica obnubilanti ‒ il che non significa che “sesso, droga e rock‘n’roll” siano cose brutte, sporche e cattive; il problema è che è rimasto solo quello: anche gli antichi erano dei grandi campioni di orge ed esperienze dionisiache, ma riuscivano a mediare queste dimensioni con tanto altro! Manca insomma la dimensione gerarchica: “questo è più importante di quello” non riusciamo più a dirlo, perché significherebbe contravvenire al dogma relativistico (che bel paradosso!) per cui non sono ammessi giudizi di valore. E così: nessun rapporto è speciale; nessun gesto irripetibile; nessun desiderio individuale accantonabile; nessuna esperienza condivisa realmente dotata di senso. La domanda allora è: come uscirne?
FP: In effetti, il postmoderno ha rifiutato la cornice della verità, della bellezza, i suoni dell’infinito e si nutre di una noiosa democrazia al ribasso. Al di sopra dell’«evento» provvisorio, vige un’anticipazione di verità che solo uno sguardo severo e al contempo «giovanile» può assecondare. Un autore poco conosciuto, Thomas Green, due secoli fa scriveva una pagina molto significativa nel campo della filosofia morale e politica; l’idealista inglese ha cercato di salvaguardare il principio attivo della coscienza e quel senso «divino» dell’a priori inquinato dalla superficiale affermazione dell’empirismo. La nostra epoca, invece, spara contro questa anticipazione e si adegua al gioco perverso di un Dasein matematico che chiacchiera senza sosta. La chiacchiera domina sulla magia dei sentimenti e sugli inizi assoluti della poesia, signoreggia nei luoghi della politica, si intrufola nelle chiese o nella cattolicità del superfluo, insulta l’esercizio dialogico fra parlanti, e a quanto pare ha contaminato parecchi filosofi i quali si divertono nei festival del sapere, mettono una parola dietro l’altra e reinventano un pensiero debole al fine di incantare con ritmo sofistico una platea curiosa. Voglio chiarire un punto. Credo occorra diffidare, altresì, dell’intellettuale in vacanza. Mi riferisco a quel “sapiente” che denuncia il profilo nichilista, rievoca la tradizione speculativa migliore, invita a comportarsi diversamente, a vivere nell’incanto, ma poi non sente il valore. Quanti titolari di cattedre (acquistate) si rivelano maldestri «commercianti» e burocrati della verità! Oggi, proprio perché galleggiamo nella morte di dio, il docente universitario o l’intellettuale che firma autografi o manifesti senza incrociare gli occhi del «giovane», racconta con ipocrisia il significante, gli imperativi, il criterio normativo del valore. Mi spiace, inoltre, il filosofo-mercante che fa il selfie e cita citazioni già citate in assenza del sentimento che riempiva le menti di un tempo. In più, l’intellettuale, quando è in vacanza, fa l’alternativo, il creatore, intende mostrarsi libero, solo che quando torna in ufficio – data la perdurante assenza di dio, cioè del fondamento, del valore, dell’irriducibile – riprende la grammatica burocratizzante di un sapere mortificato, e così dà ragione all’Anvur, ai criteri scientifici che avrebbero bocciato Socrate o Heidegger.
Il filosofo deve essere ultimo fra gli ultimi, perché la verità si allontana per natura dalle competizioni hobbesiane. Come sai, sono molto legato alla tradizione filosofica dell’azionismo italiano: Guido Calogero, Aldo Capitini o de Ruggiero – di recente ho scritto un volume su di loro, dal titolo Croce e l’ansia di un’altra città (Mimesis) – conoscevano la verità. Quella azionista è una verità non astratta o dal sapore giacobino, ma una ricerca inesauribile nel volto dell’altro. La cultura personalistica sente, a mio avviso, il contatto con l’incontrovertibile. Calogero ha vissuto il suo liberalsocialismo in un costante rendez-vous con le mani, la mente e le gambe del «tu». Questo è il suo gioco a tre, purtroppo poco noto: l’«io» deve qualificare il «tu», riconoscerlo nel suo dire e nel suo tratto essenziale, e il «tu» ha il dovere di affacciarsi nell’immagine sbiadita del «lui». Quest’ultimo è la terza persona che invoca cittadinanza, la terza verità che chiede aiuto, ascolto, sorrisi, pianti autentici. Il «lui» non ha un nome, perché magari è già annegato nelle acque chic della borghesia liberale, oppure è la puttana che nessuno vuole, il drogato irrecuperabile, i nuovi membri dell’«esercito industriale di riserva», i precari massacrati dal princeps legibus solutus. Il «lui» è tale in quanto non ha ancora goduto dell’azione empatica e responsabile del nuovo «tu». Capitini è più esigente: oggi, anzi adesso mentre scrivo, devo immergermi nella «persuasione», devo sostituire al «si dice» della folla una voce robusta, coadiuvata da un fortissimo afflato religioso, che sappia arginare le esibizioni del male, e quindi inventare l’«uno-tutti» in nome di una trascendenza finalizzata all’accrescimento spirituale di ogni essere venuto alla Terra.
Mi chiedi come uscire dalla crisi. Spesso i filosofi non hanno osato offrire risposte. Seguendo autorevoli esempi, hanno preferito attendere «sul far della sera», per poi pronunciare un detto comprensivo, storiografico o erudito. Il filosofo deve rispondere. Il «deve» è iscritto nel registro dell’a priori. Ecco, bisogna rivisitare l’a priori, ripulire il fondamento dal chiasso fenomenico sempre più in voga, reintrodurre il meraviglioso bisticcio fra la storia e il dono di senso, e riassaggiare le problematiche millenarie che hanno tormentato le menti nobili, uscire dalle eventuali sicurezze e gettarsi nell’ignoto. Come direbbe il poeta Boris Pasternak, urge «inciampare» per conoscere la bellezza della vita. «Tornare a casa», aggiungerebbe con pari enfasi Hermann Hesse. Rompere con la bugia, con la mala fede, ripristinare le aperture dell’Essere, revisionare la legge del divenire, dare forza al pensiero e ai sentimenti. Se oggi la poesia è morta, la filosofia è morta, la politica è morta, il diritto è morto, la religione e l’etica sono decedute da un pezzo, e tutto questo perché si è spento dio, bisogna anzitutto far resuscitare l’essenza. Un buon inizio è fissare un serio appuntamento con il «lui», chiamarlo per nome appena diventa «tu» e camminare insieme, a testa alta, nei cieli dell’a priori.
AL: Il rischio dell’“inciampo” è inevitabile per quel viator che l’uomo è (guai se non rischiassimo: non sarebbe vita degna di esser vissuta!); esattamente come la dimensione “domestica”, dalla quale egli pro-viene e alla quale da ultimo è sempre diretto, ché altrimenti non avrebbe senso alcun “andare”. Oggi, però, sembra che piaccia indugiare nella pura e semplice “erranza”, senza alcun interesse per la “dimora” in cui sarebbe più giusto abitare; e così, alla fine, giriamo in tondo, senza mai andare veramente da nessuna parte: rimaniamo più fermi di quanto non faremmo se assegnassimo ancora un qualche valore alla sicurezza della casa presso il cui focolare desidereremmo riscaldarci, in compagnia dei lari e dei pargoli, di una tiepida serenità.
Odisseo, che tanto ha viaggiato perché tanto ardentemente desiderava poter accarezzare ancora una volta le guance di Penelope, ha certamente condotto una esistenza più avventurosa e piena rispetto ai mille giramondo che vagabondano in questa Europa globalizzata, dandosi arie da bohemien, ma senza portare in cuore nessuna vera missione, nessun valore da voler vedere realizzato se non quello – fasullo ‒ di accumulare il maggior numero di esperienze possibili. Ma a che prezzo? Al prezzo dell’annichilimento gerarchico cui ho già accennato, per il quale se tutto viene accolto, se nulla potenzialmente può essere respinto, rigettato, non c’è niente che “sia” nel senso forte del termine. Anche il leopardiano pastore dell’Asia, dopo tante scorribande e tanto “scolorar del sembiante”, lancia prostrato un grido di disperazione all’astro lunare, a invocare per sé la medesima, immobile salvezza: il divenire del mondo desidera soggiornare presso la stabilità dell’essere.
Tu dici che un certo pensiero di impronta azionistica e personalistica ha avvertito il contatto con l’incontrovertibile. E mi compiaccio che tu faccia il nome di pensatori italiani; ormai quasi
completamente dimenticati dalla esterofilia della nostra cultura. Io da un po’ di tempo vado sostenendo che solo gli italiani, certi italiani, hanno pensato – o almeno ci hanno provato
seriamente – a pensare radicalmente il senso dell’incontrovertibile. Mi riferisco a Giovanni Gentile; a Gustavo Bontadini; a Emanuele Severino e a pochi altri. Attraverso la loro lezione – per godere della quale siamo irrevocabilmente chiamati alla loro riscoperta – è
possibile ritornare a marciare, come ti auguri, nel segno dell’a priori; e cioè di quella eternità che da sempre e per sempre ci avvolge e, potenzialmente, ci redime. Si rende necessario
lo studio delle nostre “radici”, quelle più profonde, quelle più autenticamente filosofiche; si rende necessario, quindi, almeno in funzione propedeutica, lo studio delle nostre origini al fine
di un loro pieno riscatto e della loro valorizzazione.
14 settembre 2017