Dalla seconda metà del secolo scorso, nell’ambito delle scienze psicologiche, ha preso piede, con le teorie di Donald Winnicott, il concetto del “falso sé”. Esso è chiaramente esposto dallo stesso autore come una organizzazione del soggetto atta a difendere e proteggere il vero sé – o quello autentico –, qualunque esso sia. Il falso sé si organizza nei rapporti d’amicizia, d’amore e anche con il proprio io, giacché influenza lo sviluppo di tutta la personalità adulta, poiché la sua presenza, che scinde e dissocia l'io, si sviluppa nei primissimi momenti di vita.
Alice Miller, winnicottiana di studi, in Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé, descrive così la condizione che porta il “povero bimbo” a sviluppare una personalità falsa: l’esistenza di una madre profondamente insicura sul piano emotivo, alias una persona non soddisfatta delle relazioni affettuose che ha; una sorprendente capacità del bambino a percepire questo bisogno insoddisfatto; e infine la ricerca da parte della madre – o di entrambi i genitori – di soddisfare tali bisogni attraverso il figlio. D’altronde un neonato è sempre disponibile al genitore: lo può educare proprio come piace a lui. Ed ecco che, lentamente, il bimbo impara, con la ripetizione e la dipendenza coercitiva e ineludibile dei genitori, che, nella primissima dialettica del pensiero che ricerca il piacere, l’immediatamente Altro è l’unica soddisfazione dell’Io. Non c’è spazio ad uno sviluppo critico della propria vita, perché non c’è la propria vita autentica dove cercare. Quindi Il “falso sé” si organizza per difendersi dal mondo, non per conoscerlo e elaborarlo, pensarlo, ma per ricevere più premi e meno punizioni possibili, anche a costo di vivere una vita insoddisfacente. Il sé è così alienato da se stesso, reificandosi a sostanza o strumento per l’Altro. Il “falso sé” è paragonabile a quello zircone che viene scambiato per diamante: non ha tutte le caratteristiche del diamante pur essendo esteticamente simile, perché non ha il valore del diamante stesso, dato magari dal materiale, dalla lavorazione particolare o dalla provenienza.
Miller, delineando nella stessa opera di cui sopra la persona inautentica adulta, sembra fare un tripudio alla fenomenologia dei soggetti che si osservano nel mondo postmoderno in cui viviamo:
« Dietro [a queste persone] sta sempre in agguato la depressione, il senso di vuoto, di autoalienazione, di assurdità della propria esistenza, che le assale appena si esaurisce la droga della grandiosità, appena non sono “al massimo”, appena vengono abbandonate dalle loro sicurezze da “superstar” o quando, all’improvviso, sono colte dal sospetto di aver tradito una qualche immagine ideale di loro stesse. Da qui derivano angosce, pesanti sensi di colpa e di vergogna. »
Da qui sorge una domanda problematica per la ricerca filosofica: come è possibile che una persona non scelga per il proprio bene? Come conciliare la tesi del “falso sé” con la logica dei principi e delle categorie filosofiche?
Il principio logico aristotelico – e non solo – è assolutamente incontrovertibile:
« Vi è un piacere associato a ogni sensazione, e lo stesso vale per il pensiero e la contemplazione. » (Etica Nicomachea, X, 4, 1174b)
« Le passioni sono state definite mediante il piacere e il dolore. » (Etica Eudemia, II, 2, 1220b)
Ciò mostra che ogni qualvolta si prende una decisione, essa è scelta in funzione tra le tutte possibili ed è sempre quella che risulta più utile e buona per sé. Anche qualora, si dice, una persona facesse un cosiddetto “sacrificio”, quel determinato “sacrificio” è risultato essere il più soddisfacente, utile e buono per sé – o anche il meno peggiore – rispetto a tutte le altre opzioni. Infatti, chi organizza la sua esistenza in modo falso ha il “problema” che la sua scelta è certamente ciò che lui considera il suo bene nell’immediato, ma è così gonfio di autostima da supporre che non sia necessaria una comprensione più ampia della propria volontà, e, nonostante cambino sia le condizioni, sia i soggetti, si accontenta di “rattoppare” laddove potrebbe correggere nel rinnovamento continuo dello spirito. Crede che il confronto, per raggiungere la verità nelle emozioni sue e degli altri, sia solo un gioco di immediatezze, di emozioni appunto, che affreschi astrattamente la situazione particolare, senza circondarsi di quei caratteri che richiama il Concetto:
« E già nello stesso parlare, in plurale, di caratteri del concetto, ci siamo conformati al modo comune di esprimersi, perché veramente il concetto non può avere caratteri, ma carattere, quel solo carattere che gli è proprio. E questo carattere è il suo essere universale e concreto. » (Benedetto Croce, Logica come scienza del concetto puro)
Un esempio, probabilmente banale, ma efficace alla comprensione, è quello di un individuo che per continuare ad alimentare la propria grandiosità sociale – e difendere il vero sé – decide di “castrarsi” esibendo ciò che gli altri vogliono da lui: la ricerca di una famiglia modello eteronormativizzata e maschizzata, una casa grande e un’auto lussuosa e così via. Tutti feticci della propria oggettualità nel mondo. Non che tali determinazioni non possano assumere il carattere di bene e utile, ma esse determinazioni sono investite da un significato che non è più l’evento di un incontro relazionale tra il sé e il mondo, ma solo un’occasione di istanze sia dell’Io che dell’Altro facilmente decifrabili, ripetitive e assolutamente univoche. Non c’è spazio per la differenza e per un percorso sia condiviso sia ricco di nuove possibilità, che un progetto concettuale abbraccerebbe, perché sempre più onnicomprensivo di relazioni e connessioni. L’unica possibilità è soddisfare immediatamente l’Altro, senza una visione storica, processuale, pedagogica e profonda. Non ci si chiede se tali soddisfazioni, finte del sé, possano portare ad un destino felice delle proprie relazioni. Ci si basta così come in quell’immediato “si è”. È la stessa rappresentazione che Jacques Lacan, nel VII Seminario L’etica della psicoanalisi, chiama “eccitazione minima”: uno stato di senso di colpa verso sé e l’Altro da sé che, per angoscia da castrazione, tende al minimo soddisfacimento della situazione relazionale. L’angoscia da castrazione è l’emozione predominante del soggetto che ha organizzato un falso sé: egli è diventato l’elemento oggettuale “fallico” – in senso di potenza alterante – nei confronti dell’altro e ha paura di perdersi – o perderlo – continuamente, di dichiarare di essere di più di quello che in una semplice occasione gli altri pretendono. Da un lato suppone che tale investimento sia sufficiente a soddisfare i bisogni delle relazioni che instaura per un innalzamento esagerato della propria autostima (il vero sé che si dichiara sufficientemente raggiunto e completo nella sola esteriorizzazione di una parte, che diventa appunto oggetto). Dall’altro è cosciente che c’è un “di più” che non valuta nella scelta, perché valutarlo significherebbe provare una emozione lontana dall’angoscia di castrazione che ormai si è abituati a sentire. Sarebbe come sperimentare nuove vesti, nuovi comportamenti che si conoscono solo come potenziali inespressi e ci vuole una forte dose di coraggio e pensiero complesso, nonché equilibrio tra la propria autostima e umiltà, nel riconoscere l’Altro come valevole conoscitore di tutto se stesso. Il senso di colpa, l’anima del depresso o dello “scoraggiato”, è quella insoddisfazione latente del vero sé che, pur consapevole di cosa si dovrebbe fare in una situazione, si accontenta del cosa ci si aspetta da lui, dal cosa si è già sperimentato non deludente per l’Altro astratto e dal cosa “si dice” e “si deve”.
Per vivere una vita autentica e non sperimentare l’angoscia, il senso di colpa, che una persona “falsa” sperimenta giornalmente, è necessario colmare il vuoto esistenziale concedendosi il fallimento come una parte del proprio progetto di vita, perché dietro quel fallimento c’è una sperimentazione della propria identità, quella vera, non ricoperta di emozioni che si sono provate senza l’Altro, quindi di natura già alienate e alienizzanti. Invero ammettere di dover considerare di più del mondo, perché solo una visione sempre più comprensiva, in chiave di sperimentazione e ricerca delle proprie risorse, ed inclusiva, come conoscenza estesa e profonda dell’Altro, è il processo di una vita autentica che accompagna la felicità.
16 agosto 2018
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