L’unità vera non si ricerca nell’obbligo e nell’autorità, ma nel dialogo e nella ricerca. Uno Stato autoritario non vedrà mai sorgere nel suo seno un’unità nazionale, nemmeno se durasse cent’anni. Può invece vederla nascere uno Stato democratico, a patto che cominci a comprendere che cosa significhi essere tale.
Nel primo dopoguerra una confusione ideologica e perciò sociale era in atto. Folle di disperati d’ogni ceto sociale – pochi abbienti – e molte rivolte; una politica che ristagnava nell’immobilismo a causa dell’inettitudine e della corruzione dei suoi esponenti. Il quadro italiano dell’epoca, con le dovute differenze, è quello che ritrae buona parte dei paesi occidentali anche oggi, un secolo più tardi. Ai nostri giorni come allora si va ricercando un rimedio a questo caos assiologico e politico: si auspica l’avvento di un ordine, di uno Stato in cui finalmente vigano educazione e disciplina capaci di placare le mille voci discordanti e prepotenti che animano i nostri dibattiti, sia a livello locale, sia a quello nazionale. Non c’è fra noi unità di intenti, collaborazione, affiatamento: siamo una nazione spaccata e “anarchica”. La colpa – quando la si cerca – ricade in prima istanza sui politici, poi sui migranti, in ultimo sugli Stati europei che non ci sostengono economicamente o moralmente; tuttavia, nonostante le insistenti speculazioni, nessuno ne viene a capo e, al di là dei violenti scontri verbali (ché dialoghi non possono certo essere definiti), la confusione permane. Ma non si pensi che sia un’assoluta novità nel panorama nostrano. L’avvento del fascismo si giustifica proprio con la ricerca di un rimedio al male che albergava nella “vecchia” (così veniva definita, anche se in realtà era neonata) Italia liberale. La fiducia che d’ogni parte – almeno all’inizio – pioveva addosso al nuovo governo fascista derivava dalla speranza che un atteggiamento così sicuro e fermo suscitava: ci si aspettava da quello un’uscita dalla crisi economico-sociale e un rinnovamento del paese. Per questo molti intellettuali e politici l’appoggiarono subito, e per questo le alte gerarchie militari lasciarono che si facesse strada.
Tuttavia, quell’unità che apportava il fascismo era un’unità solo fittizia: al suo interno abitavano, proprio secondo un’esponente fascista, almeno cinque anime diverse che facevano capo ai più disparati ambienti di partito: ex liberali, nazionalisti, conservatori, repubblicani, rivoluzionari. All’avviso di Emilio Gentile invece sono riducibili a due, perché è sufficiente raggruppare la molteplicità disordinata nelle due frange tradizionalista e rivoluzionaria. E cosa implica questo? Che all’interno del Partito, che voleva essere simbolo dell’unità nazionale e dell’“italianità” delle opere, vigeva la medesima frattura che era in atto nel mondo liberale. Certo, a differenza del precedente, si era più operosi, ma probabilmente solo perché tutto veniva deciso per autorità. Che si fosse in accordo o meno, quel che si doveva fare si faceva, nel bene e soprattutto nel male. E l’opposizione era limitata: prima per proprie colpe (la marcia su Roma, l’Aventino, etc.) e poi per restrizioni imposte (censura dei giornali avversi al Regime, pestaggi, arresti, etc.). In ogni caso, quel che ne risultava – e lo si è visto con l’implosione finale del fascismo – era una conflittualità latente, solo mascherata da una ferrea disciplina. L’ordine e la gerarchia militare decidevano lo stile del movimento e scandivano i suoi solenni rituali, ma non erano sufficienti a conferire l’ordine che il popolo e i fascisti stessi si aspettavano di sperimentare attraverso il nuovo governo.
Né vi sarà mai ordine, se così lo si attende: questo, per essere veramente tale, dev’essere spirituale e non estrinseco. Deve provenire dalla concordia delle voci e non dalla soppressione di esse mediante censura o costrizione. Perché si può soffocare, per un istante o per anni, un dissidente, ma, essendo egli convinto delle sue ragioni, appena ne avrà occasione farà valere in un modo o nell’altro le sue posizioni. Allo stesso modo, le colpe che facciamo ricadere su questo o quell’evento non appartengono a un esame del tutto sincero, perché la nostra unità e il modo in cui affrontiamo quegli accadimenti dipendono unicamente dalla nostra indole.
Se vogliamo venire a capo del problema e risolvere la confusione politica che domina il nostro paese, non possiamo tentare di far cessare le opinioni opposte deridendole o limitandosi ad affermare che sono imbecilli, ma dobbiamo affrontarle per persuadere noi stessi e gli altri della loro effettiva sciocchezza. Parliamo molto ma dibattiamo poco. Il più delle volte – dai social il fenomeno è così lampante da non lasciare alcun dubbio – vomitiamo il nostro luogo comune sotto qualunque riflessione, senza neppure tentare di coglierla. Non ci sfiora nemmeno il sospetto che forse la nostra idea sia sciocca o incompleta e che possa essere arricchita, arricchendo così la nostra stessa esistenza, mediante il confronto. Non appena ci accorgiamo che un altro non la pensa alla stessa maniera, ci limitiamo a constatare questo fatto o a fiondarci addosso all’avversario con insulti, senza tentare di comprendere meglio il motivo dell’attrito né ricercare quale sia la verità sull’oggetto in questione. Sembra trattarsi di mera divergenza di idee, che nasce e perisce in un breve scambio di battute; tuttavia, quell’apparente piccolo dissidio si ripercuote sull’intera società: dai piccoli gesti che paiono innocui nasce l’educazione dei propri figli, il modo di concepire lo Stato, un certo gruppo sociale, il rapporto con gli altri; le minute questioni generano e indirizzano l’uomo di partito, il giornalista, il medico, l’imprenditore, decidendone l’onestà e la diligenza dell’operato. Allora, se ogni idea è così importante, è bene per chiunque mutare quell’atteggiamento dominante che considera a priori, cioè senza verifica, il proprio pensiero come l’unico in cui sia possibile dimorare. Un piccolo passo verso la disciplina e l’ordine è cominciare a interrogarsi su quanto si intende per disciplina e ordine, e mettere in discussione quanto indebitamente si reputa ovvio e indiscutibile. Una volta fatto questo scopriremo, con gli orizzonti un bel po’ più estesi, quanta ricchezza vi sia in ciò che ci circonda e quanto povero fosse l’ideale di cui sino a quel momento ci eravamo fatti portavoce, favorendo, inconsapevolmente, il declino della nostra politica. Se vogliamo indirizzare il nostro paese verso quello che davvero è importante, siamo costretti anzitutto a comprendere che cosa importante sia. La miopia intellettuale e la sua scarsa comprensione della realtà è l’unica vera colpa del declino dell’Occidente.
Ci sarà ordine e disciplina solo quando saremo unanimi sulla considerazione delle cause e delle ragioni delle circostanze, e insieme saremo in accordo sul modo in cui procedere. Non si tratta di concludere ogni dibattito, ma, al contrario, di favorire una società in cui si dibatta sul serio, per la ricerca del vero su cui poggia ogni possibile concordia. Però questa grande conquista, che sancirebbe finalmente la nostra rinascita, non può avvenire senza che ciascuno in cuor suo cambi. L’unità vera non si ricerca nell’obbligo e nell’autorità, ma nel dialogo e nella ricerca. Uno Stato autoritario non vedrà mai sorgere nel suo seno un’unità nazionale, nemmeno se durasse cent’anni. Può invece vederla nascere uno Stato democratico, a patto che cominci a comprendere che cosa significhi essere tale.
26 agosto 2018
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