L'Italia della Seconda repubblica non pare essersi lasciata alle spalle i problemi di giustizia della Prima repubblica, che avrebbe dovuto superare, ma che sembra avere perfino aggravato.
di Giacomo Pegoraro
« Oh Socrate, non è poi nemmeno una gran somma quella che certe persone pretendono per salvarti, per tirarti fuori di qui. E poi, non vedi come sono a buon mercato questi vigliacchi? Gente che si vende per poco. »
Platone, Critone
Seriale, diffusiva, è la piaga che completa il tridente spietato e micidiale – assieme a concussione ed evasione fiscale – di quella squadra, la criminalità organizzata, che continua a dilaniare e a infliggere colpi bassi al Belpaese: si tratta della la corruzione. Azzardando un paragone, questo trinomio è assimilabile alle tre fiere che Dante incontra ai piedi del dilettoso monte, le quali analogamente incarnano tre vizi della società del ‘300: l’avarizia, la superbia e la cupidigia. Il magistrato del pool di Tangentopoli, Piercamillo Davigo, la definisce simonia secolarizzata (Il sistema della corruzione, Laterza 2017), stando a quanto affermava Carl Schmitt secondo cui tutti i concetti di diritto pubblico sono concetti teologici secolarizzati.
La portata del fenomeno corruttivo non dovrebbe stupire, considerato che affonda le sue radici già nel sistema dell’istruzione quando si bistrattano meritocrazia e competenza, a favore di clientelismo e nepotismo. Ma perché la corruzione dispone ancora di cotanta diffusione dopo Mani Pulite, lo scandalo che ha travolto l’Italia nei primi anni ’90 evidenziando la portata del sistema corruttivo? Teniamo a mente che i dati che ci giungono sui casi di corruzione sono riferiti soltanto a quella nota alla magistratura, ma, probabilmente, di sommersa ve n'è altrettanta. D’altra parte si può vedere da abitudini ampiamente diffuse: da quando si paga in nero l’elettricista a quando si sale in treno prendendosi un piccolo rischio piuttosto che pagare il biglietto – piccoli sotterfugi che denotano un comportamento disonesto. Il suo proliferare è favorito dal terreno fertile che trova, come sintetizza una celeberrima sentenza attribuita a George Orwell:
« Un popolo che elegge corrotti, impostori, ladri, traditori, non è vittima, è complice. »
Di fronte alla flessione che ci mostrano gli ultimi dati forniti da Transparency International Italia sull’indice di percezione della corruzione si aprono due porte: una è quella dell'effettiva diminuzione di questo crimine; l'altra è che siano diminuiti coloro che hanno il coraggio di denunciare, e questo fa rabbrividire. La stessa organizzazione scrive:
« A guidare la classifica dei virtuosi, ancora una volta, abbiamo Danimarca e Nuova Zelanda, seguiti da Finlandia e Svezia. Non a caso, tutti Paesi che possiedono legislazioni avanzate su accesso all’informazione, diritti civili, apertura e trasparenza dell’amministrazione pubblica. »
Per eliminare questo malcostume tipicamente italiano è necessario che lo Stato metta quella fetta di società non ancora intaccata da questo male nelle condizioni di denunciare, con una giurisprudenza che sia a vantaggio di essa, non del malaffare. Per spezzare questo circolo vizioso non bastano gli strumenti legislativi, ma è fondamentale attuare modelli educativi, di comportamento: deve emergere una condotta seria, morale e intellettuale. Quanto al carattere diffusivo della corruzione si potrebbe dire che tanto più aumentano coloro che ritengono di anteporre l'interesse particolare a quello collettivo, tanto meno il popolo va accorgendosene: è un crimine che coinvolge più soggetti e più permea nella società più ci si assuefa ad essa.
Il legiferare incessante e insistente in Italia trova una spiegazione in quanto delineato da Tacito (Annales, III, 27): «corruptissima re publica plurimae leges» (moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto). A significare che lo Stato è corrotto e, conseguentemente, viene meno la legalità quando le leggi si moltiplicano, per porre invano un freno, che produce semmai un effetto contrario: si finisce per trovarsi in un labirinto, in un contesto intricato all’altezza dell’avvocato Azzeccagarbugli: l’intento finale è lo stesso del personaggio manzoniano, ossia creare confusione in cui destreggiarsi meglio. È sconfortante assistere talvolta, ma non poi così di rado, a notizie che riportano casi in cui a macchiarsi di questo reato contro la Cosa pubblica stessa siano rappresentanti dello Stato che per conto di esso sarebbero deputati alla vigilanza e all’amministrazione della giustizia.
Altro tasto da toccare è il tema della certezza della pena: seppur intesa nelle sue finalità rieducative come espresso nell’articolo 27 della Carta Costituzionale, sembra convenga ai più provare a farla franca arrivando fino all’ultimo grado di giudizio, magari avendo nel frattempo occultato e manipolato parte di quelli che potrebbero potenzialmente essere gli elementi chiave nella composizione del quadro probatorio, piuttosto che desistere dalla prosecuzione dell’azione giudiziaria. È utopico pensare che ci possa essere una prevenzione seria al reato se la situazione delle sentenze passate in giudicato è penosa.
La grande questione che si pone è: come interrompere questa “indignazione passiva” e rimboccarsi le maniche per costruire una classe dirigente, e quindi un Paese, che creda davvero nei valori che vuole fare propri? Solo una rinnovata sapienza ci potrà salvare.
16 aprile 2018