Sempre più spesso ci si trova a fare i conti con quel fenomeno – l’immigrazione – che negli ultimi anni si è fatto sentire in maniera pressante soprattutto sul territorio italiano. Come recita un rapporto OCSE del 2014 “L'Italia è il Paese Ocse che dal 2000 ha ricevuto i più alti flussi migratori, sia a livelli assoluti che in percentuale sulla popolazione totale”.
Un fenomeno in crescita costante, che impone un’attenta riflessione alla ricerca non solo di soluzioni umane che permettano di dare vita a risposte efficaci – e sostenibili – a livello sociale, ma anche ad elaborazioni concettuali che eliminino il pericolo di scadere nella più bieca xenofobia, nella semplice e pura emarginazione del diverso, nella segregazione e nella “lotta fra poveri”, complice anche la difficile congiuntura economica globale dovuta alla crisi.
Una proposta di comprensione di questo fenomeno così tipico della nostra epoca può essere quella di Bernhard Waldenfels: un concetto di estraneità innovativo e postmoderno. Nato ad Essen nel 1934, Waldenfels è di uno dei massimi esponenti della fenomenologia oggi in attività, che ha studiato a Monaco con Helmut Kuhn ed è stato uno dei più proficui allievi di Maurice Merleau-Ponty a Parigi negli ultimi anni di vita di costui. Grazie alla vicinanza col maestro francese, ha presto intrapreso un percorso di studio della fenomenologia dell’intercorporeità (approfondendo il ruolo irrinunciabile di ciò che avviene ai corpi, e di conseguenza agli esseri umani, quando entrano in contatto tra loro) e della polirelazionalità (ossia la molteplicità delle relazioni che possono essere intessute, appunto, tra esseri umani). Proprio per questo acquisisce fondamentale importanza il ruolo dell’Estraneo (nelle diverse declinazioni di straniero, di esperienza straordinaria, di differenza da un ordine dato) che sconvolge il recinto di certezze del soggetto il quale pensa se stesso come una sorta di “bolla” chiusa e a sé stante.
C’è, infatti, una sensazione che permea il vissuto dell’uomo occidentale, in tempi – come quelli odierni – in cui all’ordine del giorno ci sono migrazioni, spostamenti di popolazioni da un lato all’altro del globo, intrecci di civiltà e modi di vita diversi: l’inquietudine al cospetto di una sorta di “aggressione” da parte degli estranei, persone provenienti da un altrove imprecisato, non localizzato, che parlano lingue incomprensibili e si relazionano tra loro con atteggiamenti enigmatici. Dagli anni Novanta ad oggi sempre più persone hanno abbandonato la “propria” rassicurante terra di origine, diventata invivibile e devastata da guerre, dittature e dissesti economici, per inseguire la speranza di una nuova possibilità di vita in Paesi più prosperi. Questo è il fenomeno chiave della contemporaneità. I “rifugiati”, gli “extra-comunitari”, i “diversi”, gli “alienati”, gli incompresi sono solo alcuni esempi di una più ampia categoria di persone (che può inglobare l’umanità in generale, a seconda del punto di vista dal quale si guarda), quella dell’estraneo, dello straniero, dello straordinario, a cui appartengono tutti coloro che irrompono all’interno di un contesto im-proprio. Essi turbano perché divengono presenti e richiedono attenzione, ascolto, cura. Trovare le possibilità di dialogo, di comprensione, a-partire-dalla-differenza e non nonostante la differenza, è lo scopo che ci si dovrebbe prefiggere in quanto uomini occidentali secondo Waldenfels.
Occorre superare una volta per tutte i tentativi di divisione del mondo in due parti tra loro contrapposte, compiere un salto al di là della dialettica (intesa empiricamente, come contrapposizione tra due persone o gruppi) e, utilizzando il metodo genealogico per andare all’origine della propria struttura sociale, individuare i meccanismi che permettono alle comunità di pulsare, di evolversi e di cambiare. L’assunto di base è che non si deve cercare di eliminare la differenza che provoca attrito fra un polo riconosciuto come “proprio” e uno differente, “straniero”. La vera forza che spinge verso la creazione di sempre nuove sfere di co-abitazione e convivenza è il riconoscimento della differenza già a partire dal “proprio sé interiore”, ossia da quanto di più vicino e sicuro sia possibile per l’uomo concepire.
Cosa significa accettare il dialogo, partendo dalla diversità?
Muoversi a partire da uno sfondo omogeneo, all’interno di un quadro accettato, che a causa del “pungolo”, della spina nel fianco causata dall’irruzione dell’estraneo – e di conseguenza, del turbamento che ne deriva – viene messo in discussione. La destabilizzazione iniziale lascerà pian piano il posto ad un nuovo assetto, diverso dall’originario, che conserverà qualcosa di entrambe le parti entrate in relazione e allo stesso tempo ne eliminerà altre.
Questo non deve spaventare se si riflette sul fatto che è impossibile sentirsi del tutto “a casa propria”, a proprio agio, con sé stessi (si ricorda l’effetto straniante che si ha quando si percepisce la propria voce registrata). Il colore scuro della pelle è solo la goccia che fa traboccare il vaso dell’inquietudine, già colmo quando ci si appresta a incontrare l’altro.
Chi sono io?, dunque, è la domanda da cui per Waldenfels dovremmo partire per capire chi è l’altro, che da sempre l’uomo ha pensato come a sé contrapposto. Io è l’altro, è un altro rispetto a quanto aveva dato per scontato all’inizio del percorso di esperienza del mondo.
Dice Waldenfels:
« Bisogna anzitutto guardarsi dal pensare allo straordinario come a qualcosa di totalmente estraneo ed esotico, qualcosa che sta al di fuori ed è davvero lontano. Al contrario, l’estraneo è qualcosa che comincia all’interno dell’ordine. Per questo lo straordinario può essere descritto solo come qualcosa che, a partire dall’ordine, ne travalica i limiti. Insomma, un eccesso rispetto all’ordine che si crea all’interno dell’ordine medesimo. » (Estraneo, Straniero, Straordinario. Saggi di fenomenologia responsiva)
L’estraneo è la spina ineliminabile dal proprio ambiente, che continuamente spinge all’azione, al cambiamento, alla risposta reattiva e alter-nativa. L’innovazione di Waldenfels è quella di porsi in netta contrapposizione rispetto ad ogni atteggiamento conciliante e risolutivo, che punta ad appianare i contrasti e a livellare le diverse esperienze con cui si è costretti a fare i conti dal momento che si è in vita. Si deve comprendere l’Estraneo in quanto diverso: soltanto così potrà trovare una sua giusta collocazione, nel rispetto e nella tutela delle differenze. Non si deve più ricorrere a valori e ideali universali accettati acriticamente e senza confronto con l’alterità dalla maggioranza, bensì ad un nuovo tipo di inter-azione, rappresentato al meglio dalla risposta – reazione, spostamento dal proprio centro – all’appello di ciò che è diverso.
Il “corpo”, che si muove, respira, fa esperienza in un mondo esterno al suo involucro, assume esso stesso i caratteri di qualcosa di estraneo. Quando si vive – ci si alza dal letto, si mangia, si cammina per strada e ci si reca al lavoro – non ci si può osservare dall’esterno, non si può riflettere su se stessi, non si può nemmeno giudicare se stessi in maniera obiettiva se non “estraniandosi”, assumendo una diversa prospettiva come si fa quando ci si riguarda riflessi in uno specchio, spesso senza accettarsi. È così che accade quando si incontra il diverso: non lo si riconosce come simile. Inevitabilmente egli disintegrerà l’ordine costituito, la normalità. Eppure, nel momento in cui scompone un ordine l’Estraneo è il punto di inizio per dare vita alla relazione, abbandonando una prospettiva che rischia di rimanere solo interna al soggetto.
Un punto di inizio imperfetto, che non punta ad eliminare i contrasti ma, semmai, in un primo momento porta ad acuirli, mettendo sotto la lente di ingrandimento quelle che sono le differenze di cultura, abitudini, modi di vita. Proprio questo punto imperfetto diventa il tipo di approccio fondamentale per continuare a tutelare la bellezza dell’essere umano, la ricchezza della diversità e il dialogo fra culture.
23 aprile 2018