I gilets jaunes sono l'ultima delle reazioni – benché inattesa ed esplosiva – ai governi democraticistici che nei decenni hanno condotto ad avere in disprezzo il nobile ideale di creare una comunità politica europea, fatto cadere in discredito la democrazia, alimentato la sfiducia nei confronti della politica, favorito la ribalta di sovranisimi e populismi di varia fattura. Viviamo in una crisi perenne e abbiamo così poca consapevolezza delle sue radici profonde che la situazione, nella sostanza, è destinata a non migliorare.
Per chi potesse modificare in qualsiasi momento a proprio arbitrio la legge, di fatto, non vi sarebbe legge, perché non ci sarebbe nulla a cui si dovrebbe adeguare, adeguando piuttosto ogni cosa al suo arbitrio. Per chi è al di sopra la legge, non vi è legge. Questo regime di cose, a cui è soggetta una comunità, è detto tirannico o dispotico. Così Locke, nel suo Secondo trattato sul governo (1690):
« Là dove finisce la legge comincia la tirannide. »
Alfieri ne ricalca la definizione nel suo saggio Della tirannide (1777):
« Tiranno, era il nome con cui i Greci (quei veri uomini) chiamavano coloro che appelliamo noi re. E quanti, o per forza, o per frode, o per volontà pur anche del popolo o dei grandi, otteneano le redini assolute del governo, e maggiori credeansi ed erano delle leggi, tutti indistintamente a vicenda o re o tiranni venivano appellati dagli antichi. »
Denunciando però che – proprio stando a questa definizione e di contro al linguaggio allora invalso – le nazioni dell'epoca erano governate da tiranni:
« Tra le moderne nazioni non si dà dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e tremando) a quei soli prìncipi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le vite, gli averi, e l'onore. Re all'incontro, o principi, si chiamano quelli, che di codeste cose tutte potendo pure ad arbitrio loro disporre, ai sudditi non dimanco le lasciano; o non le tolgono almeno, che sotto un qualche velo di apparente giustizia. E benigni, e giusti re si estimano questi, perché, potendo essi ogni altrui cosa rapire con piena impunità, a dono si ascrive tutto ciò ch'ei non pigliano. »
Condorcet, che impiega il termine dispotismo in luogo di tirannide, mantiene la definizione e nota che despota lo si è sempre inevitabilmente con una cerchia di complici. Così, nell'incipit delle sue Idee sul dispotismo (1789):
« Dispotismo deriva dalla parola greca δεσπότης, che significa padrone. Si ha dispotismo tutte le volte che gli uomini abbiano dei padroni, ovvero siano sottomessi alla volontà arbitraria di altri uomini.
Il dispotismo di un solo uomo è una chimera; ma il dispotismo del piccolo numero sul grande numero è molto comune, e ha due cause: la facilità che il piccolo numero ha di riunirsi, e le sue ricchezze, con le quali può acquisire altre forze. »
Subito dopo avanza un rilievo fondamentale:
« Ci due tipi di dispotismo che si potrebbero chiamare di diritto e di fatto – se la prima espressione potesse associarsi a quella di dispotismo; li chiamerò quindi dispotismo diretto e dispotismo indiretto. Il dispotismo diretto ha luogo in tutti i paesi dove i rappresentanti dei cittadini non esercitano il diritto negativo più esteso, e non hanno dei mezzi sufficienti per fare riformare le leggi che trovano contrarie alla ragione ed alla giustizia. Il dispotismo indiretto esiste quando, malgrado il voto della legge, la rappresentanza non è né uguale, né reale, o quando si è assoggettati ad un'autorità che non è stabilita per legge. Così, in Inghilterra, per esempio, si troverà che il dispotismo diretto esiste, poiché il diritto negativo del re e della camera dei pari non lascia alla nazione nessuno mezzo legale di revocare una cattiva legge; che i rappresentanti del popolo non hanno, per ottenere questa riforma che i mezzi indiretti che feriscono anche la ragione, la dignità nazionale e l'ordine pubblico. Ma l'Inghilterra è sottomessa soprattutto al dispotismo indiretto, perché la camera dei comuni che dovrebbe, per la legge, rappresentare la nazione, non la rappresenta nella realtà; che lei è solamente un corpo aristocratico di cui quaranta o cinquanta persone, o ministri, o pari, o membri dei comuni, dettano le loro risoluzioni. »
Assevera dunque che, al di là di ogni formalità, dispotismo è ogni situazione in cui vi sia costrizione, in cui ci si trovi a dover sottostare a ciò che è contrario in una certa misura alla propria volontà. In una certa misura poiché quei tiranni sono scambiati per re e quelle tirannidi per regni: sono tutto sommato coloro ai quali volutamente ci si affida, dal momento che non si vagheggiano o non si ricercano alternative. È l'osservazione di Tolstoj, che in Guerra e rivoluzione (1906) – riprendendo La Boétie e il suo Discorso sulla servitù volontaria (1550 ca.) –, sospinto dalle rivoluzioni della storia a lui recente, incalza perché il regime zarista possa presto cadere:
« Ovunque esista un'istituzione che permetta a una minoranza di imporre alla maggioranza quello che essa decreta per legge o per regolamento amministrativo, ogni individuo della maggioranza è costantemente minacciato, lui e la sua famiglia, dei più gravi pericoli, di mali dovuti non a dei cataclismi sismici indipendenti dalla nostra volontà, ma al pugno di uomini di cui subiamo volontariamente la servitù. »
L'arbitrio dei pochi è stata storicamente l'abitudine e un'abitudine voluta. Quindi, paradossalmente, quell'arbitrio è voluto; e, poiché voluto, ritenuto giusto.
Capita però che alcuni inizino a notare che questa giustizia non sia proprio un bene e si inizino così a vagheggiare altre leggi e altre forme di governo e altri princìpi. Quando coloro che governano una comunità politica mantengano e impongano delle leggi contro la nuova volontà profilatasi, costoro diventano ancor più o ancor più inequivocabilmente tiranni o despoti. Avendo due termini a disposizione, potremmo assegnare a ciascuno un significato preciso: tiranno potrebbe essere chiamato colui che violi i diritti universali – anche solo perché ingenuamente, assieme alla sua comunità, non li riconosca –; despota chi, trovandosi depositario del potere, governi contro la volontà della comunità.
Poiché nel corso della storia il governo è stato in mano dei pochi senza che la comunità politica venisse interpellata, si è creduto che il male provenisse proprio da questa mancanza di considerazione della volontà generale; mentre invece l'ignoranza generale voleva che quei regimi tirannici esistessero. Dunque, il governo tirannico diventa dispotico quando non è più voluto. E, però, viene riconosciuto come tirannico proprio quando esso profili il suo dispotismo, cioè quando di esso si riconosca il male e quindi non lo si voglia più. Prima che esso venga riconosciuto come male non è visto come tirannico; dopo che venga riconosciuto come tale e si imponga contro la volontà, esso diviene dispotico.
Si vede così che, benché senza giustizia non ci possa essere bene, la giustizia non basta a fare il bene. Ma ciò rimane così poco in vista e, conseguentemente, non ci si accorge che i regimi che si vorrebbero abbattere con le rivoluzioni, le guerre giuste, ecc. erano – e talvolta sono ancora – ritenuti giusti, cioè voluti dalla comunità politica. Per di più, si è portati a ritenere che la democrazia, intesa come governo della volontà della comunità politica, sia la soluzione al male della tirannide. Quando invece proprio la volontà della comunità aveva voluto quel male e quella tirannide riconoscendoli come bene e come diritto.
Ci si è così trovati a dover scoprire, osservare, spiegare che non c'è garanzia di bene neppure nel caso la decisione sia estesa a tutti.
« Domandare l'opinione del proprietario, sottomettere cioè al popolo francese i progetti della sua futura abitazione, era troppo visibilmente una finzione o un inganno: in casi del genere la domanda determina sempre la risposta e, d'altronde, anche se questa risposta fosse stata libera, la Francia non era certo più di me in grado di darla; dieci milioni di ignoranti non fanno un sapiente. » (H. Taine, Le origini della Francia contemporanea, 1875)
Ove però ci sia un ordinamento che preveda di esautorare il potere politico, qualora esso non corrisponda più alla volontà generale, garantisce che la tirannide non diventi dispotismo e che non si debba ricorrere alle rivoluzioni violente.
« L'idea di una democrazia razionale non è che il popolo stesso governi, ma che esso abbia garanzia di buon governo. Questa garanzia non si può avere con altro mezzo che conservando nelle proprie mani il controllo ultimo. Se si rinuncia a questo, ci si consegna alla tirannia [leggasi: dispotismo, ndr]. » (J.S. Mill, Su La democrazia in America di Tocqueville, 1835-1840)
Questo però non sembra ancora bastare. Cosa ne è quando le alternative sono fittizie? Usando le laconiche parole de L'uomo a una dimensione (1964), con Marcuse possiamo avanzare questo rilievo (che peraltro ben calza con gli ultimi decenni politici italiani e internazionali):
« La libera elezione dei padroni non abolisce né i padroni né gli schiavi. »
Proprio la crescente impressione o consapevolezza che “i politici sono tutti uguali”, che, a prescindere da destra o sinistra, “comunque non cambi niente” e che a trionfare sia sempre il pensiero sostanzialmente unico dell'establishment – ciò ha fatto sì che si iniziasse a rivolgersi a crescenti forze antisistema, nelle varie forme che hanno assunto: sovraniste, populiste, antidemocratiche o, almeno nei proclami, a favore di forme di democrazia diretta.
Dunque, anche il «controllo ultimo» può non bastare e consegnarci alla tirannia e al dispotismo. I governi, i parlamenti nazionali e le istituzioni europee sono oggi senza dubbio tiranniche e dispotiche. Sono dispotiche perché il voto lascia inalterato lo status quo, tiranniche perché le crisi economiche, sociali, ambientali si perpetuano. Le forme e perfino le istituzioni politiche tradizionali sono ormai esautorate nell'opinione condivisa, ma ciononostante perdurano negli anni, per giunta aggravando la situazione che da decenni promettono di risolvere.
Ma questi tratti dispotici e tirannici che sempre più subiamo sono frutto di quegli stessi valori che molti di noi – il popolo! – incarnano nella quotidianità. È il popolo stesso, benché venga osannato dai populismi, ad essere individualista, arrivista, consumistico, indifferente all'ambiente, ecc. I valori dei politici, dei manager, dei proprietari, che il popolo disprezza, sono i suoi stessi valori. Come possiamo sperare che la scalata verso alte cariche o posizioni di prestigio attenui quel che i più di noi sono, invece di potenziarlo? Uomini che aprano prospettive sul futuro non se ne vedono; semmai si vedono uomini nuovi, ma solo perché peggiori dei precedenti.
« La società moderna si degrada tanto in fretta che ogni nuovo mattino contempliamo con nostalgia l'avversario di ieri. » (Nicolás Gómez Dávila, Escolios)
Non solo è la classe politica ad essere moribonda, ma lo è anche quella degli accademici, degli intellettuali, degli uomini di cultura. Manca chi denunci, si mobiliti, crei, faccia vedere quel che i più non sanno vedere, con cognizione di causa.
« Qualunque sia la loro forza di percussione e di impatto, gli avvenimenti contemporanei sono poveri di contorni, di rilievi, di spigoli, se l'immaginazione non inventa per vederli un lessico dai significati appropriati.
La percezione si ottunde se gli artisti scarseggiano. » (Ivi)
Ed è assai difficile che l'eccezione emerga. Emerge semmai chi è così simile alla mediocrità da potervici facilmente riconoscere.
« La personalità di questi tempi è la somma di ciò che fa colpo sugli stupidi. » (Ivi)
E c'è ormai qualcosa che sopravviva al mercato, perché se ne riconosca il valore e non si pieghi ad esso?
« Il Progresso alla fine si riduce a derubare l'uomo di ciò che lo nobilita, per potergli vendere a buon mercato ciò che lo svilisce. » (Ivi)
L'uguaglianza al ribasso paventata da molte voci, che hanno iniziato a levarsi preoccupate e spaventate fin dall'Ottocento, si è andata via via realizzandosi.
« Le masse saranno sempre al di sotto della media. La maggiore età si abbasserà, la barriera del sesso cadrà, e la democrazia arriverà all'assurdo rimettendo la decisione intorno alle cose più grandi ai più incapaci. Sarà la punizione del suo principio astratto dell'uguaglianza, che dispensa l'ignorante di istruirsi, l'imbecille di giudicarsi, il bambino di essere uomo e il delinquente di correggersi. Il diritto pubblico fondato sulla uguaglianza andrà in pezzi a causa delle sue conseguenze. Perché non riconosce la disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale: culminerà nel trionfo della feccia e dell'appiattimento. L'adorazione delle apparenze si paga. » (H.-F. Amiel, Frammenti di diario intimo, 12 giugno 1871)
Per dirla ancora con Gómez Dávila:
« Dobbiamo compatire l'egualitario.
Quale sfortuna ignorare che ci sono ranghi e ranghi al di spora della nostra mediocrità. » (N. Gómez Dávila, Escolios)
Così, se i desideri non vengono coltivati, e non diventano ideali, essi rimangono piccini.
« È probabile che il dispotismo, se riuscisse a stabilirsi presso le nazioni democratiche del nostro tempo, avrebbe un altro carattere: sarebbe più esteso e più mite e degraderebbe gli uomini senza tormentarli. […]
Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria. » (A. Tocqueville, La democrazia in America)
Insomma, in modo conciso e di nuovo con le parole di Gómez Dávila:
« Non speriamo che la civiltà rinasca, se l'uomo non torna a sentirsi umiliato nel consacrarsi a compiti economici. » (N. Gómez Dávila, Escolios)
Finché questo non accadrà, la tirannide e il dispotismo disegneranno il profilo del nostro animo e delle azioni politiche.
14 dicembre 2018
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