Vincere e sbaragliare la concorrenza: questo è il pensiero dominante della nostra epoca. Ma cosa succede quando tale paradigma si radica nella quotidianità e nei nostri modelli educativi?
Non serve guardarsi troppo attorno per accorgersi che viviamo in un mondo competitivo, a volte spietato, il quale genera direttamente individui che conducono la loro esistenza nell’ansia del raggiungimento di un obiettivo. Tale sistema, che gioca sul desiderio di apparire migliori degli altri – spesso in base a criteri fortemente discutibili –, trasforma l’esistenza in una battaglia con pochi vincitori e molti sconfitti, producendo non pochi problemi. Uno dei principali è la disabitudine ad assumere la responsabilità per le proprie azioni, l’incapacità di ammettere di aver sbagliato: riconoscerlo infatti, in questa ottica, significa proclamarsi dei perdenti, degli “ultimi”. Ma se si pensa al fatto – pur banale – che dagli errori si impara come migliorare in qualsiasi ambito della propria vita, la tendenza a rifiutarli o addirittura a non riconoscerli non può che portare a risultati dannosi.
Se questo clima porta a disagio, pressione, e insicurezza degli adulti, ad esempio in ambito economico-lavorativo e sociale, esso non è estraneo nemmeno ad ambiti quali l’istruzione e lo sport. Essi, avendo a che fare anche con soggetti in tenera età, rischiano di divenire, se improntati in un’ottica arrivista, luogo di mala educazione.
L’esempio scolastico è eclatante. Sono in crescita gli episodi di denuncia o interferenza da parte dei genitori in quello che dovrebbe essere il normale svolgimento dell’attività degli insegnanti. Se il secolo passato ci riporta metodi alquanto severi utilizzati nella gestione degli studenti, al giorno d’oggi lo spazio di manovra degli educatori sembra ridotto all’osso. La causa principale di questo atteggiamento, aggressivo verso i docenti ed eccessivamente protettivo nei confronti dei propri figli, sembra essere il desiderio di primeggiare che – trasferito sui bambini – genera in loro il convincimento di essere bravi e speciali e di meritarsi sempre risultati eccellenti. Il loro senso di giustizia ed equità, per paura che un fallimento li possa ferire, viene coperto con l’abitudine a ritenersi unici.
Allo stesso modo in ambito sportivo si tende ad una eccessiva competizione, unita – in un mix esplosivo – ad una forte deresponsabilizzazione. Sin da piccoli si è abituati a dover essere i
migliori; ciò procura grosse pressioni ai bambini, i quali non vivono in modo spontaneo la loro attività, ma la affrontano come la affronterebbero i loro competitivi genitori o allenatori.
In questo clima le prestazioni poco positive, gli sbagli e i fallimenti vengono percepiti come catastrofi, a partire dagli stessi bambini, col risultato che essi imparano a non accettarli
e ad addossare la responsabilità a qualcun altro o a qualcos’altro. A condire questa triste situazione ci pensa poi l’esagerato tifo da parte dei genitori, che spronano in modo del tutto
inadeguato i figli, arrivando ad insulti e a violenze verso gli avversari o i direttori di gara, sommersi letteralmente da ogni tipo di ingiuria.
A tal proposito sono da considerarsi illuminanti le parole di Julio Velasco, allenatore e scrittore argentino, che molti ricordano per aver guidato la cosiddetta generazione di fenomeni negli anni '90.
Uno dei motivi di tutto ciò sembra essere il generale arrivismo di cui soffre la nostra società, di cui si trattava sopra: se valutiamo le persone in base alle loro prestazioni, ossia
alla loro capacità di raggiungere un certo obiettivo – spesso quantitativo e numerico – vi saranno solo vincenti e falliti. I primi loderanno se stessi e le loro abilità, i secondi se la
prenderanno con la sfortuna, le condizioni sfavorevoli o l’interferenza di qualcun altro. Se vincere è l’unica cosa che conta, perdere diventa un’infamia da evitare, a costo di mentire a se
stessi.
Nella crescita dei più piccoli questo si traduce spesso in una totale impreparazione ad affrontare il mondo; essendo il fallimento colpa dell’insegnante, dell’allenatore, delle condizioni esterne, si impara solo a gioire della vittoria e non a costruire sugli errori. Forse basterebbe comprendere che sbagliare non significa essere condannati o essere incapaci, che esistono molte vie di mezzo tra la riuscita e la catastrofe e, soprattutto, che il valore delle persone non potrà mai ridursi all’esito delle loro performance. La vittoria di ognuno si realizza nella capacità di relazionarsi con i propri risultati, con i propri sforzi e, fortunatamente, anche con i propri errori.
5 dicembre 2018