Il Novecento è il secolo della decostruzione, del pensiero debole, della secolarizzazione pressoché totale della società; è il secolo della guerra di trincea, dell’Olocausto e degli attacchi nucleari sul Giappone; è il secolo di Heidegger, Derrida e Vattimo; è il secolo in cui la verità si fa interpretazione. Si può andare oltre il Novecento? Forse è il Novecento stesso a chiederci di assumerci questa ancora inverosimile responsabilità.
La necessità di non arrivare a conclusioni è il fardello lasciatoci dalle filosofie del Novecento. La conclusione a cui sono arrivate le filosofie del secolo scorso, verrebbe da dire, è che non ci sono e non ci devono essere conclusioni. Rispetto alle precedenti filosofie succedutesi nel corso della storia del pensiero, nel Novecento viene meno la costruzione di sistemi (quando non si procede alla decostruzione dei sistemi di quelle filosofie), viene meno il bisogno di affermare qualcosa che si dia positivamente. La storia della filosofia precedente il XX secolo, forgiata, già dalle sue origini, dalla metafisica della Grecia antica e da quella giudeo-cristiana, ci aveva consegnato filosofie della presenza, talvolta prepotentemente affermatrici e sistemiche. In certi casi – come nello hegelismo e nel marxismo – si è assistito a filosofie propostesi come ultime, precedute da correnti e apparati di pensiero che, anticipandole nel tempo, ne avevano necessariamente preparato il terreno.
Il Novecento, in ragione soprattutto delle vicende storiche traumatiche che ne segnano il corso e della secolarizzazione pressoché totale della società in seguito alla morte degli idoli, inverte drasticamente la tendenza. La portata del pensiero si indebolisce consapevolmente, i sistemi e le verità stabili non possono che rappresentare una chiusura, un ritorno a dogmi metafisici ormai dimostratisi inadeguati e identificati con l’oblio dell’Essere. Al contrario, si fa forte la necessità di interrogarsi incessantemente sui concetti, di indagarli evitando di cristallizzarli accontentandosi di soluzioni accomodanti, muovendosi in cerchio senza mai toccare il punto (istanza primaria, questa, del circolo ermeneutico). Non affermarsi più su niente o nessuno, pena la violenza e l’occultamento del punto di vista dell’altro, non chiudere più le interrogazioni, affrontare di petto l’impossibile incombenza di distruggere o decostruire l’onto-teologia tradizionale su cui si fonda il pensiero occidentale, senza proclamarsi pensatori ultimi e fondativi: è questo il fardello consegnatoci dal secolo scorso.
Se però così stanno le cose – ammesso che le cose in qualche modo possano stare, darsi nell’ordine di una stasi, rimanere senza evolversi, senza che un movimento si renda inevitabile – il pensiero novecentesco (che vede in Heidegger, Derrida, Vattimo, Rovatti solo alcuni dei suoi nomi rappresentativi), spazzando via il bisogno di quietarsi e di costruire, potrebbe essere diventato, almeno parzialmente, ciò che si proponeva di non diventare: pensiero ultimo, modo definitivo, fisso, di fare filosofia.
Di qui l’audace annuncio della necessità di onorarlo superandolo – come se custodisse in esso l’esigenza di essere oltrepassato – e togliendolo dalla posizione di pensiero ultimo, cioè esattamente ciò che cerca di non essere. Il fardello diviene stallo: se non si trasforma la riflessione novecentesca in qualcosa di più, in un auto-superamento di se stessa, potrebbe non vedersi più niente di nuovo sotto il sole; il rischio è quello di interrompere il movimento, Aufgabe prioritaria dei maestri del XX secolo. La stessa morte di Dio in Nietzsche richiamava alla responsabilità di una ricostruzione di nuovi princìpi su basi umane, responsabilità di ricostruzione responsabile (seppur, dando prova, una volta di più, di essere tra i principali ispiratori del pensiero del Novecento, Nietzsche non dia informazioni circostanziate su tali princìpi). È forse tempo di andare oltre e di dire parole nuove (che tengano conto delle vecchie, beninteso), se vogliamo «dire la vita e il suo perpetuo divenire» (Luce Irigaray, To Be Born). È l’assunzione di un compito, forse nulla più di un’esigenza ingiustificata; certo non la stesura di un programma definito e definitivo, di un metodo o di una nuova filosofia; il senso di responsabilità impone di superare, di superarci, di spingere la filosofia verso una nuova positività ancora a-venire.
4 dicembre 2018
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