Accusare un filosofo di essere poco pragmatico, di studiare molto ma realizzare poco, è senz’altro una tesi sostenuta da chi ha la vista oscurata da un enorme “fantoccio”.
La vulgata, in genere, definisce gli “intellettuali” – specie i filosofi – come dei soggetti poco inclini alle cose pratiche. Eppure, quando si parla di poca praticità della filosofia, non si tratta solo di una cecità degli inesperti: proprio tra gli addetti ai lavori, e ahinoi tra i più famosi, vi sono coloro che non fanno che avallare questa tesi. Dichiarare di non poter conoscere nulla, è implicitamente proclamare il totale fallimento del proprio operato. Non si può che rabbrividire di fronte al quadro accademico a cui tutti i giorni tocca far fronte. Quadro che è stato dipinto minuziosamente da Francesco Pietrobelli, nel suo articolo La malattia umanistica.
Giovanni Gentile, ne La riforma dell’educazione, ammonisce così:
« Ritengo anch'io che l'esperienza sia la pietra di paragone di ogni nostro pensiero, filosofia compresa. Ma non bisogna scambiare per la nostra esperienza il primo fantoccio che si prenda giuoco della nostra immaginazione. Anche dell'esperienza, non se ne può parlare se non dopo essersene fatto un concetto; ed ognuno infatti ne parla riferendosi per l'appunto, ed esclusivamente, a quel concetto che gli è riuscito di formarsene. »
Accusare un filosofo di essere poco pragmatico, di studiare molto ma realizzare poco, è senz’altro una tesi sostenuta da chi ha la vista oscurata da un enorme “fantoccio”.
Questo “fantoccio” gigantesco è comparso per esempio qualche tempo fa, fra i commenti sotto un articolo di “Le Figaro”, quotidiano francese, che trattava di filosofia nelle scuole. V’era chi sosteneva che la filosofia non può che fare male a causa del suo “distogliere” dalle faccende quotidiane; poiché chi scriveva il commento aveva avuto a che fare – personalmente! – con uno di questi studenti, che non era nemmeno in grado di farsi un caffè con la moka. Trascurando per un istante il fatto che è decisamente più semplice insegnare a usare una moka, che a spiegare a un saccente di mezza età che buona parte delle cose che pensa sono probabilmente delle colossali sciocchezze (come lo era, di fatto, il suo commento), dispiace che il bonhomme in questione non si sia fermato un attimo a riflettere. Perché se lo avesse fatto avrebbe potuto immaginare che il ragazzino francese forse a casa non ha mai posseduto una moka del caffè, ma solo una macchinetta o magari neppure quella; e che quindi poteva non aver mai avuto occasione d’imparare. Ché se ciò fosse colpa della filosofia, s’imputi ad essa qualsiasi mancanza su ogni piccola inezia, e la si faccia risalire a un qualche filosofo: non hai mai tagliato l’erba perché vivi in appartamento? Ah, come si vede che leggi Aristotele! Non sai cucinare bene? Eh, qui si nota il retaggio di J.S. Mill…
Chi avanza simili critiche, come il signore francese, non si rende per nulla conto che, al momento di puntare il dito, si esprime sempre in relazione a una particolare “cosa pratica”, ritenuta, in quel frangente, banalissima da realizzare (e, frequentemente, v’è la presunzione di sapere bene come gestire un’attività solo per averne acquisite un paio di nozioni). Ma a scrutare meglio, di “cose pratiche”, ve ne sono infinite; non è possibile che ciascuno di noi le conosca tutte, tanto meno colui che si autoproclama concretissimo. Per questa scontata ragione, il passaggio dal non saper far qualcosa – perché banalmente non lo si è mai imparato – al non saper far nulla, è ingiustificato. Aggiungere, poi, che ciò avviene perché si legge Platone, è quanto di più ridicolo si possa sentir pronunciare. Perché – per fortuna – è vero che Platone non insegna a sbrigare le faccende quotidiane, se per esse intendiamo i lavori di casa; ma è altrettanto certo che egli educa a sbrigare altre “faccende quotidiane”, di importanza e difficoltà maggiori. Tant’è che se egli avesse letto il pensatore greco, sarebbe riuscito a fare queste poche considerazioni da sé.
Un altro grosso “fantoccio” è quello di chi, più o meno consciamente affine alle critiche di carente pragmatismo della teoresi, afferma che la filosofia tratti solamente di astruserie. Infatti, ad essere “astruso” è qualcosa che, oltre all’essere fastidiosamente incomprensibile, non ha gran valore, né gran senso, e, conseguentemente, “non è pratico”. Che senso ha studiare la dialettica, socratica prima e idealista poi – cosa c’azzecca con l’esperienza la sintesi? Possiamo vederlo con un esempio… pratico. Burioni, il famoso medico impegnato nella divulgazione del pensiero pro-vax, risponde a una richiesta di chiarimento in questi termini:
« Gentile Giarrusso, se parliamo di vaccini ci sono due possibilità: lei si prende laurea specializzazione e dottorato e ci confrontiamo. Oppure – più comodo per lei – io spiego, lei ascolta e alla fine mi ringrazia perché le ho insegnato qualcosa. Uno non vale uno. »
Se avesse piena consapevolezza della sua esperienza, non avrebbe replicato così, perché avrebbe il vago sentore che il sapere che la sua laurea gli ha garantito, e alla quale si rifà – ma che ora con quelle parole tradisce –, è nato proprio con il confronto che lui nega. È sorto in risposta alle obiezioni che una volta risolute concorrono a formare il corpo della scienza e a delineare il suo progresso. Nessuna tesi medica, di cui egli si fa portavoce, si è potuta affermare zittendo le altre posizioni, ma dimostrando perché fossero infondate. Sapere qualcosa equivale, al medesimo tempo, a sapere perché qualcos’altro invece è falso. Il progresso della conoscenza non finisce, non v’è mai la certezza che una tesi sia garantita una volta per tutte – e la storia della medicina, come quella di ogni scienza, incarna proprio questo procedere incessante. Burioni saprebbe, se sapesse di filosofia, che la conoscenza – la Scienza – è dialettica.
La risposta che questi ha riservato al suo avversario perciò non è scientifica, come comunemente la si considera, solo perché pronunciata dalla bocca di uno scienziato (che in questo caso non si è rivelato tale), ma affatto dogmatica. Capita che gli scienziati deprechino la religione “perché non dimostra nulla”, e poi, quando chiamati in causa, si comportino a loro volta da “fedeli” di un dogma indiscusso. Così qui, come i no-vax sembrano farlo a proposito dei vaccini, anche lui ha parlato a sproposito.
Infatti, che ha ottenuto rispondendo con questi toni? Nulla, se non, appunto, di risultare un autoritario: ha fatto la figuraccia di chi pretende di affermarsi senza giustificare le proprie posizioni. Egli non ha educato, non ha insegnato, ha solo fomentato l’ostilità dei suoi oppositori. Se avesse voluto veder trionfata la scienza medica – come sostiene di volere – avrebbe dovuto accettare il confronto – che non è altro che la vera e propria scientificità –, o spiegare perché in quel frangente un confronto non poteva avvenire, promettendo così un’altra occasione di dialogo (e un simile rinvio di discussione sarebbe stato a sua volta un confronto, perché entrambe le parti avrebbero convenuto che quello spazio era troppo ristretto per discutere con proprietà un argomento tanto complesso). Nel modo in cui si è posto, insomma, non ha vinto la verità: perché se una cosa è vera solo in quanto dimostrata, allora è lampante come in questo fugace scambio di battute non ci sia traccia di scientificità. Quindi, per correggere Burioni anche su quest’altro punto, strettamente legato al primo, la scienza è democratica perché può fiorire solo in seno al dialogo, ossia mettendosi alla prova; ché se non fosse democratica non sarebbe affatto scienza, verità, ma dogma. Affermare di voler essere scientifici e poi rispondere abbaiando addosso a chi chiede delucidazioni, è un pelino contraddittorio.
D’altronde proprio Platone ci aveva già richiamati su questo punto. Quando ne Le leggi l’Ateniese discute con Clinia e Megillo circa la promulgazione di nuove norme, si accorge del fatto che una «prescrizione tirannica» è tutto fuorché efficace. Costringere e sottomettere alla propria autorità («io spiego, lei ascolta», tradurrebbe Burioni) equivale a non “sottomettere” affatto alla legge che si vorrebbe attuata, alla verità, perché così facendo non viene realmente capita e voluta. Discutere, invece, «allo scopo di persuadere», cioè convincere l’altro della veridicità della propria posizione, è l’unico modo di far sì che la norma non sia solo imposta dall’alto – e quindi odiata e alla prima occasione tradita –, ma voluta fortemente come giusta.
L’altro – e, in questa sede, ultimo – “fantoccio” dell’esperienza è quello che ci porta ad essere certi di sapere delle nostre vite più di chiunque altro. Come fa un estraneo a sapere di noi più di noi stessi? Se un autore giudica qualcosa che ci riguarda, lo si cataloga come un arrogante che cerca di “inculcarci le sue idee” ma che in verità non può dirci nulla su come, di volta in volta, incarniamo quei valori e decidiamo per essi.
Eppure, non sembra così semplice: falliamo buona parte dei rapporti, per finire col rivolgerci, disperati, agli psicologi; educhiamo i nostri figli con le migliori intenzioni possibili, ma ci deludono non appena incontrano un ostacolo; pensiamo di avere le idee chiarissime sulla politica, ma continuiamo a scegliere argomenti e persone che, puntualmente, non risolvono i nostri problemi; e via così. Forse qualcosa non va?
Magari, in fondo, proprio quegli inutili filosofi alcune cose le avevano capite: avevano ben presente, per cominciare, che la buona intenzione sommata alla conoscenza superficiale che abbiamo del mondo, non è sufficiente a fare il nostro bene e quello dei nostri cari:
« Non appena un fanciullo si fa uomo crede di essere in grado di conoscere ogni cosa e ritiene di onorare la propria anima con elogi e di buon grado le permette di fare tutto ciò che vuole, ma, come detto, così facendo la danneggia piuttosto di onorarla [...].
Nessuno, pare, tiene conto di quello che vien detto il prezzo più grande della malvagità, e cioè rendersi simili agli uomini malvagi e, una volta divenuti simili, scansare le persone e i discorsi onesti e staccarsi da essi per incollarsi ai disonesti e cercarne la compagnia essendo inevitabile che chi si lega a simili individui finisca col fare e col patire ciò che queste persone sono portate per natura a fare e a dire nelle reciproche relazioni. » (Platone, Le leggi)
Per quanto riguarda il volere una cosa, ma far sì che si realizzi l’opposto, possiamo prendere in esame un episodio di questi ultimi giorni. Il direttore del Museo egizio di Torino, Christian Greco, ha deciso di promuovere una campagna volta a una partecipazione più massiccia degli arabi ai nostri eventi culturali. Ha scelto, in relazione a un certo contenuto esposto al museo, di dimezzare il costo del biglietto alle coppie arabe, per i prossimi tre mesi. Com’era ovvio, non si sono fatte attendere le critiche di parte della destra, che si è premurata subito di esporsi, definendo la proposta razzista e discriminatoria.
Tuttavia sono proprio questi partiti a preoccuparsi maggiormente del problema dell’immigrazione e dell’integrazione (che fatica ad avvenire). Allora, se è così, com’è possibile ch’essi siano contrari a un’iniziativa come questa, volta ad allargare proprio la partecipazione alla cultura, che, in ultimo, coincide con la via verso l’integrazione? Se vogliono che la legge sia rispettata, allora l’unica condizione affinché ciò avvenga – come si è ricordato poc’anzi, richiamandoci alla «persuasione» di cui Platone parlava – consiste nella partecipazione di chi arriva in Italia ai valori su cui essa si fonda. Certo, una sola visita a un museo non compirà da sé tutto il lavoro; ma è un buon inizio: lo è, almeno, perché si esibisce la volontà di coinvolgere, negli affari dell’Italia tutta, anche chi è arrivato come “ospite”. Chi abita il suolo italiano, da dovunque esso provenga, ha il diritto e il dovere di occuparsi del sistema in cui vive. E un simile “attaccamento” alla Patria, una simile preoccupazione nei confronti della Repubblica, non può che partire, appunto, dalla comprensione dei suoi valori.
« E crediamo che possa esistere un male peggiore per lo Stato di quello che lo frantuma e che da uno qual era lo rende molteplice? E quale bene maggiore può esserci di quello che lo tiene unito e lo rende uno? […]
Ora, il fatto di mettere in comune piaceri e dolori non è forse potente forza di coesione, soprattutto quando la totalità dei cittadini si rallegra e si rattrista insieme per gli stessi eventi felici o infausti? » (Platone, Repubblica)
Per questo motivo, le cose non si sistemeranno certo sbraitando addosso agli immigrati, e nemmeno, contrariamente a quanto si pensa, cacciandoli via, poiché, se nell’errore, continueranno ad esserlo. Né lo si farà con i mega-proclami che ascrivono difetti comportamentali alla genetica di un’intera etnia, e che si immaginano che gli uomini siano come sono per qualche loro proprietà fisica, e non per l’educazione ricevuta.
Beninteso, il problema dell’immigrazione non è solo questo (ci sono pure i mezzi, il modo in cui l’Europa è organizzata, etc.), ma è di certo qui che buona parte della retorica va a parare – come nel caso appena considerato.
Per concludere parafrasando Platone (Rep., VI), la filosofia è inutile solo nell’opinione di chi non sa servirsene con proprietà. Ovverosia, la filosofia è inutile secondo chi ha una pessima filosofia. E, dopotutto, quest’ultima non ha granché bisogno d’essere difesa; piuttosto, ad aver bisogno di difesa, mediante l’aiuto della buona filosofia, sono gli uomini, che vanno tratti in salvo da loro stessi.
17 febbraio 2018
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