In fondo, che utilità avrebbe l’assoldamento di un attore afroamericano o la rappresentazione di una comandante donna severa e coraggiosa se le analisi statistiche mostrano chiaramente la disparità in ambito lavorativo e culturale fra neri e bianchi, uomini e donne?
Il fenomeno del whitewashing è stato molto discusso e criticato: il fatto che attori bianchi impersonino personaggi pensati originariamente di un’etnia diversa ha tutte le potenzialità per tacciare i produttori e i registi di una mentalità “caucasico-centrica” per quanto riguarda gli ideali di bellezza che possono rendere un protagonista affascinante e attraente per il pubblico. La polemica scatenata dal whitewashing non sembra tuttavia attecchire altrettanto nei casi in cui si verifica una tendenza parallela, quella del blackwashing, che, come eloquentemente chiarisce il termine, si tratta dello stesso meccanismo descritto sopra, salvo il fatto che attori neri rivestono ruoli concepiti per attori bianchi. Per un meccanismo simile vediamo che sempre più eroine di film e libri ricoprono ruoli tradizionalmente associati a figure maschili: personaggi forti, che compiono azioni eroiche e avventurose – vedi Hunger Games e il filone di racconti simili per ragazzi – o che assumono il comando e si battono con onore in situazioni difficili – per esempio la comandante Holdo in Star Wars: Gli ultimi Jedi.
Provenendo da un contesto che per secoli ha visto il predominio culturale ed economico del maschio bianco e ricco queste scelte di cast e di taglio narrativo spiccano e, se da una parte possiamo gioire e ci possiamo rallegrare del fatto che finalmente vengano sdoganati certi stereotipi razzisti e sessisti, dall’altra non possiamo fare a meno di chiederci se ciò non sia una mera strategia di marketing che tradirebbe, almeno negli intenti, quella che sembrerebbe una maggiore rappresentazione mediatica positiva, e quindi considerazione, delle categorie che sono state e sono tuttora discriminate. Se quest’ultima ipotesi è non accettabile, ma almeno prevedibile da parte di un’industria che vive come ogni altra industria dei prodotti che riesce a vendere, dal punto di vista del pubblico – da cui proviene un certo tipo di domanda – la questione si fa più problematica: se il desiderio di veder rappresentate le categorie cosiddette “deboli” non fosse altro che un espediente per mettersi la coscienza in pace e soddisfare un bisogno di political correctness, ormai così diffusa che il termine stesso ha assunto una connotazione negativa, diventando a sua volta una parola poco politically correct, allora tutto ciò che di buono potrebbe esserci in questo fenomeno verrebbe minato alla base. Il blackwashing o la costruzione di eroine muoverebbe dall’interno dello stesso fenomeno senza oltrepassarlo. In fondo, che utilità avrebbe l’assoldamento di un attore afroamericano o la rappresentazione di una comandante donna severa e coraggiosa se le analisi statistiche mostrano chiaramente la disparità in ambito lavorativo e culturale fra neri e bianchi, uomini e donne? Il fatto che categorie “deboli” abbiano trovato negli ultimi anni maggior impiego in un contesto mediatico, il fatto che vengano ideati più personaggi di finzione che vi appartengono, non rappresentano solamente quasi una gentile concessione da parte di coloro che stringono fra le mani il potere nel mondo reale?
Può essere che sia così, e d’altra parte non ci si potrebbe aspettare una prospettiva neutra nella rappresentazione sullo schermo di gruppi che nella realtà vengono in vari modi discriminati: in tal senso vengono spiegate le goffaggini e le forzature che di tanto in tanto emergono sulla pellicola. Ciò non toglie che, considerando una visione più ampia, questi fenomeni favoriscono l’introduzione di nuovi elementi nel confronto e forniscono spunti e modelli positivi: l’ampliamento del dialogo che scaturisce da ciò evidenzia gli elementi problematici nella società e, come sempre succede, le opere artistiche fungono da specchio che riflette ed esterna quello che succede nelle nostre vite. Oltre al riflesso, e quindi alla sensibilizzazione che fomenta il dialogo, la presenza di personaggi che oggi troviamo inusuali svolge una funzione educativa, che – come sembra giusto sperare ed immaginare – ci porterà a mettere in discussione e a sdoganare tutto quel retaggio di convinzioni e legacci che ci portiamo dietro, coscientemente o meno, come fossero un’eredità. Per queste motivazioni il blackwashing e gli altri fenomeni paragonabili ad esso, pur potendo trovare la loro origine in un meccanismo mirato al profitto economico, si possono collocare nello stesso processo che ha portato all’abolizione della schiavitù e al suffragio universale, un processo di presa di coscienza e di emancipazione dai pregiudizi che ci portano a opprimere delle persone perché hanno un aspetto, un sesso, una religione differente dalla nostra.
3 febbraio 2018