Se quindi fermarsi solo all’universale o al particolare è negazione del pensiero, ne consegue che il pensiero coincide con quella connessione di particolare e universale che è il giudizio: il pensiero è lo stesso atto del giudicare. Rinunciare al giudizio significa quindi rinunciare al pensiero.
Sempre più spesso sentiamo ripetere quello che ormai è divenuto uno dei mantra dell’Occidente postmoderno: «Non giudicare». Ma se prestassimo attenzione a ciò che questo imperativo richiede ci accorgeremmo delle contraddizioni che esso comporta. Il “non giudicare” infatti ci richiede di non schierarci con alcuna fazione, di assistere come spettatori ignavi e vigliacchi di fronte a ciò che accade, facendoci "i fatti nostri” perché, nel relativismo individualistico che domina il mondo postmoderno, nessuno di noi è ritenuto in grado di giudicare l’operato altrui né positivamente né negativamente. Ognuno per sé, ognuno giudice solo delle proprie azioni, inconsapevoli che esse, anche quelle apparentemente più innocue, condizioneranno inevitabilmente anche la vita degli altri, e che, viceversa, le azioni altrui avranno a che fare anche con la nostra vita.
Se quindi il “non giudicare” è da una parte la logica conseguenza di questo nostro atomismo individualistico, che ci porta a percepire l’altro come qualcosa di slegato da noi, esso porta con sé altri problemi dal punto di vista teoretico: possiamo infatti davvero smettere di giudicare? In realtà fare a meno di giudicare non è possibile. Innanzitutto perché già la stessa esortazione a non giudicare è frutto di una riflessione, quindi di una successione di giudizi, che hanno portato chi enuncia a concludere che sia meglio non giudicare: ossia è un giudizio che spinge a non esprimere giudizi. È un’opinione che ordina, contraddicendosi, di non avere opinioni. Ma quindi cos’è realmente un giudizio? E perché è così importante che non possiamo farne a meno?
« Il giudizio è giudizio […] perché mediazione e del particolare mediante l’universale e dell’universale mediante il particolare. Tanto infatti l’universale quanto il particolare, nella loro immediatezza, sono proprio negazione di quella universalità, in cui consiste il pensiero » (G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere).
Se quindi fermarsi solo all’universale o al particolare è negazione del pensiero, ne consegue che il pensiero coincide con quella connessione di particolare e universale che è il giudizio: il pensiero è lo stesso atto del giudicare. Rinunciare al giudizio significa quindi rinunciare al pensiero.
Andando più a fondo nell’indagine di questo meccanismo ci accorgiamo che ogni nostra azione e scelta, fosse anche quella di non far nulla e restare in silenzio, sono frutto di un giudizio, e per la precisione di un giudizio di valore: meglio parlare o meglio stare zitti? Meglio la carne o la verdura? Meglio ammazzare una persona o lasciarla vivere? Di fronte a tutte le alternative e ai bivi che si parano di fronte a noi, noi dobbiamo giudicare, giudicare cosa sia meglio: e la nostra scelta sarà sempre nella direzione di ciò che riteniamo migliore: da qui non si scappa. Se pensassimo veramente di poter vivere senza dare giudizi di valore, questo significherebbe fare continuamente la prima cosa che ci passa per la testa, senza discrimini, nella situazione mentale che comunemente chiameremmo follia, ossia mancanza di discrimine, mancanza di giudizio. Non è un caso che una persona che compie scelte sbagliate e che si lascia facilmente ingannare venga detta «con poco giudizio».
Infine potremmo chiederci donde derivi questa esortazione a "non giudicare"?
Essa nasce dall’individualistico e relativistico pensiero postmoderno, che ritiene gli individui isolati, indipendenti l’uno dall’altro, e ognuno con la propria verità, verità che dagli altri non può e non deve essere in alcun modo toccata e giudicata, proprio perché personale. Di qui l’imperativo a non giudicare, la demonizzazione del giudizio, visto sia come un appropriarsi ed imporsi su ciò che non è proprio, ossia l’opinione altrui, sia come la fonte necessaria di un errore perché, data l’impossibilità di una verità universale che valga per tutti, il giudizio che per sua essenza pretende di essere universale sbaglierà necessariamente. Per uscire da questo meccanismo bisogna quindi riconoscere l’esistenza di una verità comune a noi tutti e la fiducia nella nostra capacità di arrivare ad essa tramite l’unica arma che abbiamo: il giudizio, il pensiero stesso.
L’unico giudizio che dobbiamo evitare è invece quello che ha la pretesa di essere definitivo, che ha la sicurezza di non essere contraddittorio. Esso infatti non può garantire in alcun modo tale univocità, e la sua pretesa di valere eternamente è solo tracotanza. Dobbiamo quindi ricordarci che, sebbene siamo ineluttabilmente condannati a giudicare, di non giudicare con la pretesa di infallibilità.
« L’idea che l’uomo non ha il diritto di giudicare se non è stato presente e non ha vissuto la vicenda in discussione fa presa – a quanto pare – dappertutto e su tutti, sebbene sia anche chiaro che in tal caso non sarebbe più possibile né amministrare la giustizia né scrivere un libro di storia. […] Sono convinta che noi potremo fare i conti con questo passato solo se cominceremo a giudicarlo con franchezza. Così giudicare serve ad aiutarci a dare una ragione, a rendere umanamente intellegibili eventi che altrimenti si sottrarrebbero a tale riduzione » (H. Arendt, Eichmann in Jerusalem)
Nel giudizio, quindi, come ci ricorda la Arendt, non vi è nulla da evitare, perché esso è la normale forma del nostro pensiero, e che, anzi, esso è la nostra arma contro l’accondiscendenza al male, all’errore, alla follia.
15 febbraio 2018