Il linguaggio influenza enormemente la nostra vita, in quanto le nostre azioni si basano su come vediamo il mondo. E il nostro punto di vista, come detto, può essere pericoloso. Ma questo pericolo è inevitabile? L’uomo è costretto a pensare nel modo in cui è stato educato? È cioè determinato dall’infanzia a vivere secondo un dato modo, che esso provochi o meno dolori a chi lo circonda?
Sei storie, con protagonisti ed epoche diversi, eppure tutte significativamente connesse l’una con l’altra: questo, in estrema sintesi, è Cloud Atlas, film del 2012 delle sorelle Wachowski e Tom Tywker, basato sul romanzo Cloud Atlas di David Mitchell.
Si sviluppa così un’unica grande macro-storia, carica di significati sul rapporto fra le persone; specie su quanto il proprio punto di vista – il linguaggio a cui ognuno è abituato – sia influenzato e influisca sulle relazioni con gli altri, per poi evidenziare come, solo aprendosi al confronto con l’alterità, sia possibile realmente capire il proprio atteggiamento nei riguardi della realtà e di chi ci sta attorno.
Uno degli elementi peculiari del film è l’intersecarsi di epoche differenti: dalle avventure del benestante Adam Ewing nel pacifico (1849) a 106 anni dopo la “Caduta” (2321), un evento catastrofico che ha causato la fine di quasi tutta l’umanità. Si tratta di una scelta cruciale in quanto pone di fronte allo spettatore sei sguardi su popoli, costumi e mentalità differenti. Si mette in risalto la differenza culturale presente tanto nell’umanità di diversi tempi, quanto fra persone all’interno dello stesso periodo. Si pone così implicita, ma neanche molto, la domanda: cosa causa questa differenza culturale? Cosa sviluppa questa dispersioni di caratteri, non solo nel tempo ma pure nella stessa comunità?
Ciò che, con lo svilupparsi progressivo della pellicola, emerge, è che il nodo centrale della questione è l’educazione. Il proprio punto di vista non è qualcosa di neutrale, un elemento uguale per tutti fin dalla nascita. Esso è inevitabilmente plasmato dalla società in cui si vive. Arte, politica, il rapporto con l’altro ecc.: ogni elemento del proprio pensiero si sviluppa grazie e a causa di chi ci circonda fin dalla tenera età, di chi ci insegna un nuovo comportamento a partire dalla nostra “espressività naturale”, inserendoci all’interno di un determinato gioco linguistico. Come afferma Wittgenstein criticando Agostino: non bisogna considerare lo sviluppo educativo di un bambino – il suo apprendimento linguistico – come un semplice imparare dagli adulti il nome per esprimere il nominato a cui il bambino pensa – come se questo avesse già nella sua testa una comprensione compiuta della realtà, che aspetta solo del mezzo per pronunciarsi. Ciò che l’adulto fa non è solo dare un mezzo al bambino per esprimersi, ma è innestare una determinata cognizione su cosa voglia dire essere umani nei vari ambiti.
« Come impara un uomo il significato dei nomi di sensazione? […] Ecco qui una possibilità: si collegano certe parole con l’espressione originaria, naturale, della sensazione, e si sostituiscono ad essa. Un bambino si è fatto male e grida; gli adulti gli parlano e gli insegnano esclamazioni e, più tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore. » (Ricerche filosofiche)
Un determinato linguaggio – un certo gioco linguistico a cui il bambino viene educato – è cioè portatore di una determinata visione della realtà. Non c’è nulla di neutrale nelle parole usate. Per dirla altrimenti: non ci si può illudere che l’adulto insegni ogni singola parola come qualcosa di asettico, in quanto questa avrà sempre una serie di significati correlati al gioco linguistico in cui è inserita. La non neutralità del linguaggio – dell’educazione – pone di conseguenza un problema.
Nella prima storia del film, Adam si ritrova a cena col reverendo Horrox in un’isola del Pacifico. Ad un tratto il discorso si concentra sulla differenza fra i bianchi e i servi neri che, come Kupaka, lavorano nel contesto delle piantagioni:
« Riconosco solo che solleva un’argomentazione convincente sul perché siamo qui, a goderci questo squisito agnello, mentre Kupaka se ne sta lì, contento di servire. »
« Visto? Vedete, questa è la scala delle civiltà. Il motivo dietro questo ordine naturale… »
Queste le affermazioni – prima del medico Henry e poi del reverendo Horrox – che mostrano come, per loro due, la situazione di sfruttamento presente sia più che normale. Educati ad un gioco linguistico in cui chi è nero è schiavo ed è lecito frustarlo, non si fanno scrupoli a mandare avanti la propria attività, per quanto crudele possa essere. Dopotutto, la crudeltà loro non la vedono, non la comprendono.
«Dio, il caldo è insopportabile. Come fanno loro?», questa la domanda che pone Adam quando vede una serie di schiavi neri lavorare una piantagione sotto un sole che lui stesso, senza neppure lavorare, non riesce a sopportare.
«Reverendo Horrox dire, schiavi come cammelli, nati per deserto. Lui dice, loro non sentire caldo come gente civile», così gli risponde Kupaka in un inglese sgrammaticato, evidenziando come il suo padrone sia a tal punto immerso nella propria visione del mondo da predicarla ai suoi schiavi, cercando di convincerli che questa è la natura: lui deve stare in casa e loro a lavorare perché le cose sono oggettivamente così.
Da come si può vedere, il gioco linguistico a cui ci si abitua può essere tanto utile per articolare i propri pensieri e farsi capire, quanto pericoloso, se incanalato verso certe direzioni. Un pericolo che potrebbe portare non solo alcuni a credere normale la crudeltà più sfrenata, ma persino gli stessi oppressi a ritenere normale una situazione che non ha nulla di buono.
Nella quinta storia, collocata in un futuro distopico, Sonmi-451 è un “artificio”: una razza umana considerata inferiore e nata per servire gli altri essere umani. Ella vive da sempre al fast food Papa song. La mattina si sveglia, prende le ordinazioni, serve i clienti e così via fino alla sera, dove prende la sua razione di cibo e va a dormire. Di nuovo, ci si trova di fronte ad una vita da schiavo, eppure Sonmi non è depressa per la sua situazione. Per lei tutto ciò è normale, perché così le è stato insegnato. Da sempre, le è stato detto che lei è un artificio e gli artifici sono descritti come coloro che devono servire e che vivono all’interno del Papa song. A lei non importa di uscire dalla sua prigione, perché dal suo punto di vista è come se l’esterno non la riguardasse.
Il linguaggio influenza enormemente la nostra vita, in quanto le nostre azioni si basano su come vediamo il mondo. E il nostro punto di vista, come detto, può essere pericoloso.
Ma questo pericolo è inevitabile? L’uomo è costretto a pensare nel modo in cui è stato educato? È cioè determinato dall’infanzia a vivere secondo un dato modo, che esso provochi o meno dolori a chi lo circonda?
La risposta è negativa e ancora una il film la esprime con tutto il suo potere evocativo.
Mentre il già citato Adam, di ritorno in Inghilterra via mare, alloggia in una cabina da solo, un nero spunta dietro alle sue spalle e lo blocca per non fargli gridare aiuto. Adam lo guarda in volto e lo riconosce subito: è Autua, il nero che aveva visto frustare nella piantagione. Lo schiavo è fuggito perché non riusciva a sopportare la sua vita. Egli infatti non era sempre stato schiavo: la consapevolezza della libertà lo rendeva incapace di tollerare enormi privazioni come gli altri suoi compagni di lavoro, i quali erano stati cresciuti ed educati in quel contesto. Come ricorda Cavendish nella quarta storia:
« Libertà. Il frivolo motivetto della nostra civiltà. Ma solo quelli che ne sono private hanno il benché minimo sentore di cosa sia realmente. »
Adesso lo schiavo prega Adam di chiedere al capitano della nave di accettarlo e non buttarlo in mare. Adam inizialmente rifiuta, anzi afferma che la vita di Autua è affar suo e lui non c’entra niente, quindi deve essere il nero stesso ad andare dal capitano a chiedere. Segue il significativo gesto dello schiavo, che prende un coltello, lo mette in mano ad Adam e se lo avvicina alla gola; poi dice:
«Allora uccidi io. »
« Non dire assurdità! » (Adam Ewing)
« Se tu non aiutare, uccidere è stessa cosa, è verità. Tu sapere. Io no essere cibo per pesci, mr. Ewing. Morire qui meglio. Fare. Fare presto. »
Adam rimane perplesso, poi desiste e decide di andare a parlare col capitano. Ha cambiato atteggiamento. Ha cambiato il modo di vedere, di descrivere una certa realtà: prima aveva affermato che la vita di Autua non era affar suo, poi si rende conto che così non è. Lasciare lo schiavo al suo destino equivaleva ad ucciderlo. Adam si rende cioè conto che la propria vita non è isolata dagli altri come pensava.
« Come avviene che io sia pieno di compassione per quest’uomo? Come si vede qual è l’oggetto della compassione? (La compassione è, si può dire, una forma di convinzione che un altro prova dolore.) » (Wittgenstein, Ricerche filosofiche)
La stessa Sonmi arriverà a comprendere ciò, quando il ribelle Hae-Joo Chang la libererà dalla sua schiavitù e le aprirà lo sguardo su un modo di pensare che mai la aveva sfiorata. Come lei stessa arriverà a dire verso la fine del film:
« La nostra vita non è nostra, da grembo a tomba, siamo legati ad altri, passati e presenti, e da ogni crimine e ogni gentilezza generiamo il nostro futuro. »
Questo cambiamento di visione del mondo – dello stesso gioco linguistico che ne sta alla base – si sviluppa grazie al confronto con l’alterità – con colui che ci è inevitabilmente connesso, vivendo nello stesso mondo. Grazie all’altro si possono scoprire culture, visioni della realtà differenti e così capire meglio la propria, non dandola più per scontata. Solo tramite ciò si possono comprendere le conseguenze del proprio comportamento e decidere se continuare o cambiare rotta di pensiero.
Tale confronto, per essere concreto, necessita appunto di un avvicinamento, di una comprensione dell’altro di fronte alla sua cultura, le sue emozioni e tutto ciò che lo caratterizza come persona.
Ecco che Adam non vede più nel termine schiavo un “uomo felice di lavorare sotto al sole sedici ore al giorno”, ma vede Autua, un uomo che soffre e il cui dolore richiede non solo un riconoscimento ma, come direbbe Stanley Cavell, avanza una pretesa verso di noi, ci chiede di agire per aiutare.
Ancor più paradigmatico è il caso di Sonmi: fin da bambina credeva che ogni artificio che concludeva la sua carriera di dodici anni al Papa song, andasse a vivere in una sorta di paradiso terrestre, dove avrebbe concluso la propria vita. Grazie a Hae-Joo Chang, si rende conto che le sue ex compagne non venivano congedate col premio che si aspettava, ma macellate per produrre il cibo – per la precisione, una specie di sapone – con cui lei stessa e gli altri artifici si nutrivano. Se prima era indecisa sul mettersi in prima linea con la ribellione per contrastare il governo corrotto in cui viveva, ora non ha più dubbi. Una volta sentito il dolore di quell’alterità tanto vicina a lei, non se la sente più di stare nell’ombra:
« Dobbiamo tutti combattere, e se necessario morire, per insegnare alle persone la verità. »
Il confronto, l’aprirsi all’alterità si rivela così, nello svolgersi del film, un elemento necessario per il progredire dell’umanità. Qualcosa di cui non poter fare a meno, pena l’incomprensione di chi ci circonda. Come per Wittgenstein, anche in Cloud Atlas l’uomo non viene presentato come qualcosa di isolato metafisicamente, incapace cioè di esprimersi ed essere compreso. Tuttavia, più di una scena mostra come ogni persona, se vuole, può essere tanto comprensibile quanto un enigma per chi ha di fronte. In altri termini, chiunque può, immerso nel suo linguaggio e nella propria espressività, tanto aprirsi all’altro quanto racchiudersi in sé, rendere il confronto con l’altro problematico se non impossibile. Una situazione, quest’ultima, che può portare l’essere umano a situazioni di isolamento che rischiano di minare il rapporto con gli altri.
« Anche di un uomo diciamo che ci è trasparente. Ma per questa considerazione è importante che un uomo possa essere un completo enigma per un altro uomo. » (Wittgenstein, op. cit.)
« Come Solzhenitsyn, che si affatica nel Vermont, io lavorerò sodo in esilio. A differenza di Solzhenitsyn, io non sarò solo. »
Altrettanto significativo è l’uscire dall’isolamento, nella terza storia (1970), di Joe Napier, capo della sicurezza di una centrale nucleare. Consapevole che il suo capo stia nascondendo una prossima esplosione della centrale per interessi economici, va dalla giornalista Luisa Rey per aiutarla a scoprire la verità su quanto stia succedendo. Grazie al suo atto, non solo non viene più ritenuto un complice dello stesso Hooks – capo della centrale –, ma riesce a sventare una situazione catastrofica, che avrebbe messo a repentaglio la vita di migliaia di persone.
Come si può già intuire da tali esempi, il semplice decidere di uscire dall’isolamento, cercare di comprendere l’altro – un atto che ha tutti i connotati per entrare nel campo della moralità – non è però sufficiente. Bisogna che l’io, tanto quanto l’altro, sia pronto ad accogliere il diverso, a confrontarsi e mettersi nei panni di chi si ha di fronte per capirlo. Una cosa non facile, specie se l’alterità è carica di un linguaggio, di un comportamento assai lontano dal proprio, che pone cioè l’agire dell’io in discussione.
Si pensi, nelle scene finali, alla conclusione della storia di Adam, che ripudia la tratta degli schiavi e straccia un contratto che doveva portare a suo suocero Moore. La risposta di questo è:
« Adam! Stammi a sentire per il bene di mio nipote, se non per il tuo... C'è un ordine naturale a questo mondo e coloro che tentano di capovolgerlo non finiscono bene! Questo movimento non sopravviverà, se tu ti unisci a loro, tu e l'intera tua famiglia verrete schivati, al meglio esisterete come paria, oggetto di sputi e bastonate! Al peggio, sarete linciati o crocifissi! E per cosa? Per cosa? Qualunque azione compiate non ammonterà mai a qualcosa di più di una singola goccia in un oceano sconfinato. »
Moore non è cioè capace di comprendere le motivazioni di Adam, di capire quanto detto, immedesimarsi nel linguaggio dell’altro, perché il suo punto di vista è totalmente estraneo a ciò. Data la sua educazione, non è capace al momento di mettersi in discussione; qualsiasi cosa vada contro quel che dice, la bolla come assurdità o come qualcosa che non potrà mai apportare alcun cambiamento. Si palesa con forza come Moore non abbia mai esperito il significato di schiavo come Adam, non abbia mai compreso come suo genero la sofferenza dei suoi lavoratori.
Significativa, poi, è la risposta di Adam:
« Ma cos'è l'oceano, se non una moltitudine di gocce? »
Ancor più tragica è l’incapacità di ascoltare di tutta la società in cui si ritrova a vivere Robert Frobisher (seconda storia, 1936), le cui abilità musicali sono sfruttate da Vyvyan Ayrs, anziano compositore di successo, per sfornare opere e venderle come sue proprie. Quando Robert deciderà di andarsene, offeso dal comportamento di Ayrs, il compositore lo ricatterà dicendo che, se andrà via, dirà a tutti che il suo ex aiutante era omosessuale. Una dichiarazione che avrebbe interdetto Robert dalla possibilità di trovare qualsiasi lavoro decoroso in futuro, data la società al tempo. Isolato e incapace di essere compreso, Frobisher finisce per assassinare Ayrs e fuggire. Alla fine, stretto fra gente che lo ripudia, deciderà di suicidarsi.
Oltre agli esempi citati, ci sono molte altre scene cariche di significato in Cloud Atlas, relative sia a quanto trattato che ad altre questioni di interesse. Ciò che comunque risalta da quanto analizzato è uno dei temi che, dall’inizio alla fine, percorre la pellicola: il valore del contesto umano in cui si vive e la necessità di confrontarsi con esso. L’importanza di non dimenticarsi come il proprio linguaggio, il proprio pensiero nasca grazie a chi ci circonda, nel bene o nel male, e come esso non sia qualcosa di fisso e immutabile, ma sviluppabile grazie al continuo confronto con l’altro da sé.
10 gennaio 2018