Per poter intraprendere la strada del progresso che conduca al Bene comune, nel quale ogni persona è valorizzata e tutelata in quanto parte di un’universalità che tutti concorrono a migliorare, è fondamentale riconoscere lo stretto legame esistente tra noi e coloro che siamo stati abituati a considerare come estranei alla nostra vita.
di Emma Pivato
«La mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro». A questa affermazione, tanto declamata quanto poco compresa, affidiamo il difficile compito di esprimere il concetto di libertà sul quale fondiamo la nostra vita e la nostra società. Spesso, durante un dibattito che si sta inesorabilmente inabissando, trascinato a fondo dalla nostra ignoranza, è sufficiente pronunciare la fatidica frase e subito ogni dubbio è fugato. Non si osa metterne in discussione la validità come non ci si azzarda a diffidare di un dogma religioso.
Se ci trovassimo a dover dare una spiegazione approfondita di tale proposizione, che vada oltre il velo di superficialità che la ricopre, riscontreremmo non poche difficoltà: nessuno riuscirebbe a distinguere in modo preciso e inequivocabile entro che limiti una persona può agire “nella sua libertà” senza coinvolgere altri. Comunemente si ritiene che il pensiero sia libero, totalmente indipendente e modificabile solamente dall’individuo a cui lo si attribuisce. Un prigioniero, ad esempio, può pensare che il suo aguzzino sia nel torto e nessuno può sopprimere quest’opinione, neanche ricorrendo a metodi violenti come la tortura. Solo l’oppresso potrebbe scegliere di cambiare la propria idea, e in tal caso sarebbe una sua decisione, che non potrebbe in alcun modo essergli imposta. Si giunge quindi alla conclusione che il pensiero del singolo è libero e totalmente scollegato dalla libertà del pensiero altrui. Stando così le cose, sembrerebbe dimostrato come esista almeno un ambito dell’esistenza in cui il soggetto agisce senza dover subire le influenze dell’altro. Se ci soffermiamo ad analizzare meglio la situazione, ci accorgiamo invece di come anche ciò che ognuno pensa “in modo indipendente” sia in realtà frutto di una serie di relazioni che ha ricavato dalle circostanze in cui vive, e perciò sia altamente influenzato da ciò che credono anche gli altri componenti della società. Allo stesso tempo le idee dell’individuo considerato singolarmente sono fortemente determinanti per coloro con cui entra in contatto. Considerando l’esempio precedente, il prigioniero sviluppa una propria concezione dell’aguzzino proprio perché il comportamento e le idee di quest’ultimo gli offrono precisi spunti di riflessione. A sua volta il carceriere matura il proprio parere (e di conseguenza agisce) basandosi su ciò di cui fa esperienza, ossia sul carcerato che riflette e agisce seguendo le proprie convinzioni. Esiste quindi un rapporto grazie al quale il pensiero di oppresso e oppressore si modificano vicendevolmente. Questo incessante trasformarsi delle idee grazie all’acquisizione di nuove informazioni, che ci provengono dagli altri e da noi stessi e arricchiscono la nostra conoscenza è ciò che Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, definisce movimento dialettico.
Si comincia perciò a rendersi conto che è impossibile stabilire fin dove la propria libertà può spingersi prima di finire e lasciare spazio a “quella dell’altro”, dal momento che ogni nostro pensiero o modo d’agire è in stretta concomitanza con pensieri e modi d’agire altrui. Non riusciamo a trovare un solo ambito della nostra esistenza che non sia influenzato dal rapporto che intratteniamo con ciò che ci circonda. Quando tale consapevolezza inizia a farsi largo nella nostra coscienza, le certezze a cui ci siamo ancorati fino a quel momento cominciano a vacillare. Da una parte non vogliamo assolutamente ammettere che possa essere sbagliato dire «la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro», perché questo metterebbe a repentaglio tutte le nostre convinzioni più radicate. D’altro canto però, non possiamo negare la nuova verità che si presenta davanti ai nostri occhi: che non ci sia aspetto dell’esistenza particolare che sia totalmente separato dall’universale e non si possa di conseguenza distinguere così nettamente la mia libertà da quella altrui. Cominciamo allora a percepire la libertà “dell’altro” come un ostacolo alla nostra. Riconoscendo che non può esserci separazione tra il nostro campo d’azione e quello di coloro che ci circondano, siamo portati a credere che se una persona opera in un certo modo, ci priva della facoltà di agire come più desideriamo. Ci sentiamo come se ci stessero sottraendo ad una ad una le possibilità che abbiamo di scegliere cosa fare.
Per cercare di uscire da questa situazione che ci si presenta spesso si afferma che si sarebbe veramente liberi, allora, se si potesse fare come si desidera, senza nessun freno. Se fosse così non ci si dovrebbe più confrontare con la libertà “dell’altro”, che abbiamo imparato a considerare come una limitazione. Non ci rendiamo conto però che questo è un ideale di libertà irrealizzabile che non potremmo raggiungere completamente. Le determinazioni con cui entriamo in contatto diventano parte del nostro essere e ci servono come fondamento per le nostre conoscenze successive: sono le sole radici da cui può germogliare lo sviluppo della nostra coscienza. Per ogni ostacolo che elimineremo perché ci sentiremo schiacciati, se ne presenteranno altri che ci opprimeranno a loro volta. Se continuassimo a cancellare costantemente ciò che percepiamo come un limite nella convinzione che così facendo miglioreremo la nostra vita, ci troveremmo, prima o poi, nella paradossale situazione di dover annientare la nostra stessa esistenza. Colui che opera difendendo questa concezione sbagliata di libertà è simile a Ercole che tenta disperatamente di uccidere l’idra: per ogni capo decapitato, per ogni limitazione eliminata, ne sorgono due pronte a farci sentire in gabbia. Come l’eroe greco sarebbe morto se avesse continuato a recidere senza riflettere le teste del mostro, così noi soccomberemmo se pretendessimo di annientare tutto ciò da cui ci sentiamo intrappolati.
La volontà di distruggere le limitazioni che ci determinano, evitando di considerare la situazione nel suo complesso e seguendo ciecamente i nostri istinti più svariati è la Libertà negativa hegeliana. Tale erronea concezione di libertà ha guidato l’operare umano nel corso dei secoli e non ha mai cessato di portare con sé una lunga scia di devastazione. Chiunque l’abbia venerata e considerata un valore universale non ha fatto che peggiorare la propria situazione. Emblematici sono gli esempi della Rivoluzione francese del 1789 e di quella russa del 1917: i rivoltosi uccisero indistintamente qualsiasi componente della comunità che minacciasse di frenarne l’avanzata e l’unico risultato che ottennero fu di regredire ad uno stato di oppressione addirittura peggiore rispetto al precedente.
Nel saggio Sulla libertà del 1859, il filosofo inglese John Stuart Mill esamina le numerose sfaccettature dell’intricato argomento della «libertà civile o sociale, ossia la natura e i limiti del potere che può essere esercitato legittimamente dalla società sull’individuo». In alcuni passi dell’opera l’autore sembra negare la relazione viscerale che intercorre tra l’individuo e la società, elementi che sono risultati essere indivisibili. Partendo dal presupposto che la libertà del singolo esista separatamente da quella della totalità degli individui, Mill afferma che «nessuna persona, né alcun gruppo di persone, ha titolo per dire a un altro uomo di età matura che per il suo bene non dovrebbe fare della sua vita quello che decide di farne». Pare quindi che la società non possa assolutamente influenzare la condotta dei suoi componenti. Nel proseguire la trattazione, si dichiara che neppure il governo di una nazione dovrebbe avere voce di capitolo sulla vita dei cittadini, ma debba lasciarli liberi di sperimentare vari stili di vita e di condurre la loro esistenza come meglio desiderano. Non è compito delle istituzioni regolare la vita della popolazione, poiché ogni persona sa cosa è meglio per sé. Le considerazioni espresse dal filosofo inglese risulterebbero essere perciò errate. Come si è già ricordato, infatti, non è possibile pensare che la società e di conseguenza il governo (che è composto da membri della società stessa e agisce nel suo interesse) siano realtà separate del soggetto e che non influenzino le sue azioni e convinzioni. Inoltre, permettere ai vari componenti della società di scegliere il proprio comportamento non ponendo alcun controllo significherebbe esaltare oltre ogni misura la libertà negativa definita da Hegel. Se ognuno potesse agire inseguendo i propri istinti e i propri sfizi senza doverne rendere conto, si giungerebbe in breve tempo a una completa distruzione della comunità. Infatti in simili circostanze si potrebbe arrivare a comprendere anche le più folli azioni dell’uomo, che non sente la necessità di offrire altra giustificazione che non sia il soddisfacimento dei propri bisogni. Mill mostra di accorgersi di questo possibile risvolto e propone allora di promuovere l’intervento di alcuni organi statali, ad esempio quelli di polizia, solo nei casi in cui sia stato provato che gli atteggiamenti del singolo individuo danneggiano la totalità della popolazione. Ancora una volta risulta parecchio complicato decidere quali possano essere le funzioni legittimamente sottoponibili al controllo statale. L’impossibilità che l’autore riscontra nel definire quanto l’intervento statale possa contribuire alla vita della popolazione e quanto invece i singoli debbano agire secondo le loro preferenze, è dovuta alla separazione posta tra il soggetto e ciò che lo circonda.
D’altra parte però, nell’opera si trovano numerosi elementi che sembrano contraddire i precedenti ragionamenti di Mill e collaborano invece ad affermare ulteriormente l’esistenza del rapporto indissolubile tra individuo e società, tra particolarità e universalità. Nell’Introduzione, ad esempio, sta scritto: «tutto ciò che riguarda il singolo individuo, infatti, può riguardare per suo tramite anche gli altri». Mentre non è chiaro fino a che punto Mill concordi con Hegel sui concetti di libertà negativa e movimento dialettico, un punto d’accordo tra i pensieri dei due filosofi è costituito dal concetto dei particolarità in relazione all’universalità. Entrambi infatti affermano l’assoluta necessità di esaltare la particolarità, ossia l’individuo, in vista di un miglioramento dell’universalità, che può essere intesa come la società nel suo complesso. A condizione che si tenga sempre ben presente che un miglioramento si otterrà solo quando ognuno si riconoscerà parte di una totalità a cui tendere e con cui contribuire, se le capacità del singolo vengono valorizzate allora al suo sviluppo corrisponderà inevitabilmente quello della società. Difatti sarà possibile utilizzare le nuove competenze del soggetto per ottenere un corrispondente perfezionamento delle abilità delle altre persone che costituiscono la comunità.
Sulla libertà costituisce un fondamentale punto di partenza sulla strada verso la consapevolezza del rapporto tra singolarità e universalità, del quale Mill sembra essere consapevole, sebbene non pienamente.
Per poter intraprendere la strada del progresso che conduca al Bene comune, nel quale ogni persona è valorizzata e tutelata in quanto parte di un’universalità che tutti concorrono a migliorare, è fondamentale riconoscere lo stretto legame esistente tra noi e coloro che siamo stati abituati a considerare come estranei alla nostra vita. Ciò può essere realizzabile solo se impariamo a riconoscere come la nostra libertà sia anche quella dell’altro e viceversa. Quando riusciremo a rendercene consapevoli e la nostra maggiore aspirazione non sarà più quella di decapitare ogni nuova testa nata dal collo dell’idra, allora potremo sperare di vincere il mostro e raggiungere l’agognato obiettivo: il miglioramento delle nostre condizioni, che sarà sviluppo di tutti.
20 gennaio 2018