Sul corpo: un dialogo con Teodoro Custodero

 

Due libri del filosofo pugliese richiamano ancora una volta al problema sempre aperto della nostra corporeità, categoria che presuppone un crocevia concettuale su cui oggi più che mai occorre riflettere per comprendere quanto di più caro sembra esserci per la cultura postmoderna.

 

Nel panorama artistico contemporaneo  è  pratica oramai comune  che il  corpo diventi esso stesso opera d'arte
Nel panorama artistico contemporaneo è pratica oramai comune che il corpo diventi esso stesso opera d'arte

 

Perché è fondamentale parlare di corpo? Perché esso è diventato oggetto di così tante attenzioni, a tal punto che la perfezione del corpo è oggi un must utopico di ogni essere umano? I social network sembrano esser fatti per spettacolarizzare la nostra vita. Sul nostro profilo Facebook, Instagram o Tumblr che sia, ognuno di noi cerca di proporre se stesso, il proprio corpo, la propria vita come spettacolari. Da questa realtà si muove Teodoro Custodero, che con una doppietta incredibile (5 pensieri superflui sullo spirito ai tempi di Facebook nel 2015 e, quest’anno, Sul Corpo. Schopenhauer sull’orlo del nulla per, rispettivamente, Pietre Vive Editore e Diogene Multimedia) restituisce una visione filosofica più ampia ad un concetto fondamentale per la contemporaneità. Prima di tutto, chi è Teodoro Custodero? Nulla può essere più espressivo delle parole di un maestro nei confronti di un alunno: 

 

« Teodoro Custodero da anni non è più uno studente. È un uomo ormai, nella pienezza dei suoi anni giovanili e nella maturità del suo pensare, come testimonia la scrittura di questo libretto, di agile fattura ma di non poca profondità. Per me però Custodero è anche il testimone di una generazione di studenti che ha seguito e costellato le mie lezioni di storia della filosofia per circa il quindicennio che ho insegnato nell’Università di Bari. Dico testimone, perché con la sua intelligenza e ironia, con la sua passione, filosofica e musicale, con la sua fondamentale onestà e umanità, Custodero ben rappresenta la vivacità, la solida preparazione scolastica e soprattutto la tendenza a riflettere in proprio e a slanciarsi verso percorsi di personale creatività che ho trovato in quella generazione degli anni ’90 che, con riferimento all’Università di Bari, raccoglieva le migliori energie giovanili dell’intera Puglia e, in parte, della Basilicata. » (Pensieri superflui sullo spirito ai tempi di Facebook)

 

Così spiega Roberto Finelli, professore di Storia della Filosofia all’Università di Bari prima, e di Roma Tre poi. Come infatti continuerà il professor Finelli, quello di Custodero è il tentativo di critica filosofica e teorica della contemporaneità, nelle sue preoccupanti derive antropologiche, verso un ritorno armonico, oserei dire spinoziano, di corpo-spirito, logos-pathos, conoscere-sentire. Questo “-” non è casuale, ma è necessario per mostrare che i due termini non possono e non devono essere distanziati, altrimenti il rischio (pericoloso) è quello di assolutizzare con violenza l’uno nei confronti dell’altro. E questa armonizzazione si configura necessariamente in uno spazio etico-politico che supera il «paradosso di una forma di civilizzazione e maturazione dell’umanità solo esteriore, volta solo verso l’esterno, e priva perciò della capacità – elemento sempre più raro in “un’immane raccolta di merci” – di sentire il proprio sentire».

Il corpo ha ricominciato ad acquisire la sua fondamentale importanza, oggi ampiamente riconosciuta, grazie anche a Nietzsche, che nello Zarathustra addirittura riduce lo spirito stesso ad uno strumento del corpo: 

« «Io sono corpo e anima» - così parla il fanciullo […]. Ma il risvegliato, il sapiente dice: io sono in tutto e per tutto il corpo, e niente al di fuori di esso; e anima è solo una parola per un qualcosa del corpo. Il corpo è una grande ragione, una molteplicità con un unico senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, che tu chiami «spirito», un piccolo strumento e giocattolo della tua grande ragione. Tu dici «Io» e sei orgoglioso di questa parola. Ma una cosa più grande, a cui tu non vuoi credere, è il tuo corpo e la sua grande ragione: questa non dice Io, ma fa Io. […] Strumenti e giocattoli sono senso e spirito: dietro a loro sta ancora il Sé. Il Sé cerca anche con gli occhi dei sensi, ascolta anche con le orecchie dello spirito. Sempre il Sé ascolta e cerca: confronta, costringe, conquista, distrugge. Domina ed è anche il dominatore dell’Io. Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente imperatore, un saggio sconosciuto – si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo. C’è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. » (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Dei disprezzatori del corpo)

 

Custodero riprende questo fondamentale legame tra il Sé e il corpo, reinterpretandolo in una nuova luce. Esso è una porta di ingresso per il mondo, senza di esso sarebbe impossibile percepire il mondo, conoscere qualsiasi cosa, anche se stessi. Senza il corpo, non sarebbe possibile la formazione di una identità propria. Potremmo dire che il corpo è il mezzo della vita, ciò che rende possibile la nostra esperienza vissuta.

 

Comprendere il corpo, il suo limite  e le sue potenzialità, nonostante una letteratura già ampia a riguardo, resta una delle problematiche filosofiche e scientifiche da affrontare
Comprendere il corpo, il suo limite e le sue potenzialità, nonostante una letteratura già ampia a riguardo, resta una delle problematiche filosofiche e scientifiche da affrontare

 

A questo punto, dopo una breve presentazione, nulla è più esplicativo delle parole dell’autore stesso, che risponderà alle mie domande in merito.

 

M.R. Vorrei, senza troppi giri di parole, far luce sul problema chiave che hai affrontato e chiarire qual è l’originalità della trattazione schopenhaueriana sul corpo.

 

T.C. Innanzitutto grazie per l’interesse che hai mostrato verso i miei lavori. Sarà stata la nebbia di un inverno vicentino di 3 anni fa che mi ha obbligato a restare annoiato in casa per diverso tempo, fatto sta che in tale reclusione forzata ho iniziato a scrivere sulle cause di questa noia e vi ho ritrovato un “qualcosa” che andava oltre i bisogni del mio corpo e che ho chiamato spirito, per sottolinearne l’immaterialità. Temevo infatti che parlare di mente mi avrebbe portato in un contesto troppo psicologista e quindi inadeguato al tentativo di descrizione fenomenologica della mia esperienza che mi ero prefissato. Ma nel momento stesso in cui parlavo dello spirito vedevo in controluce che si chiarivano degli aspetti del mio corpo. Questa scoperta mi ha fatto ipotizzare di essere un'unità vivente di corpo e spirito, unità problematica in cui queste dimensioni non convivono in un equilibrio definito una volta per tutte. Sperimentavo infatti che non di rado i miei desideri superavano di gran lunga i miei bisogni; il mio pensare e speculare apparivano infastiditi dalle banali e quotidiane occupazioni del mio corpo; le chattate su Facebook e Whatsapp sostituivano tante volte gli incontri e le chiacchierate al bar. Ho provato allora a vedere se questi squilibri potessero essere presenti anche a livello sociale ed ho notato che la nostra  benché tacciata di essere materialista  in realtà è forse la società più spiritualista apparsa sulla scena del mondo. Dico spiritualista ma non nel senso religioso: le religioni infatti – e il cristianesimo in particolare – sono molto attente al corpo, tanto da prometterne ai loro credenti “la risurrezione”. 

«Come?!» – penserà scandalizzato qualcuno – «Che senso ha parlare dello spirito oggi che assistiamo alla celebrazione permanente del corpo?». Eppure ci sono alcuni segnali che sembrerebbero confermare la mia tesi: in filosofia da quasi un secolo si è ripreso a parlare di essere (“il puro vuoto” per dirla con Hegel) a scapito della storia e della realtà, che si è persa nel mare delle interpretazioni e delle decostruzioni; il corpo poi è sovraesposto mediaticamente ma poco sentito individualmente; il virtuale infine ha assunto più valore del reale tanto da determinare la politica e l’opinione pubblica.

Lo scorso anno poi leggendo ai ragazzi Schopenhauer durante un seminario scolastico pomeridiano, ho trovato finalmente un pensatore che riequilibra questa disarmonia ridando dignità e centralità al corpo (anche con una rivoluzione dal punto di vista terminologico) e sottolineando che la dimensione immateriale/spirituale e tutte le sue operazioni sono un mero derivato di quella materiale/corporea.

Schopenhauer sente l’esigenza di caratterizzare il corpo in maniera radicale anzitutto sul piano del linguaggio. Il filosofo di Danzica per parlare del corpo usa il termine Leib. Con Leib in tedesco si indica il corpo vivente a cui si oppone il Körper, il cadavere o corpo inanimato, oppure limitato alla semplice dimensione dell’estensione. Questa distinzione tra Leib e Körper sarà ripresa agli inizi del Novecento da Husserl nelle celebri Meditazioni cartesiane e diventerà centrale nella riflessione della fenomenologia – in particolare francese (Sartre, Merleau-Ponty) – sul corpo della quale Schopenhauer appare un precursore.

È in termini di Körper che fino a Kant si parla del corpo: il Leib di Schopenhauer è corporeità vivente, conoscente e senziente al tempo stesso; non tomba di un’anima da lei sostanzialmente differente (Platone) o mera estensione opposta al pensiero (Descartes) ma unità sostanziale di dimensioni complementari.

 

M.R. Quando in filosofia si parla di corpo, non può non venire in mente Nietzsche, che, probabilmente prima di tutti, ha spostato i vecchi equilibri e ha riportato l’ago della bilancia dal suo squilibrio verso lo “spirito” (per lui derivato dalla tradizione platonico-cristiana), nuovamente verso il corpo. Oggi però, in un periodo storico-culturale che molti denominano come postmoderno, viviamo l’esperienza opposta. Mi spiego meglio: c’è una attenzione quasi maniacale alla cura del corpo, dell’immagine estetica corporea e ciò porta ad alcune laceranti contraddizioni. C’è stato nell’ultimo decennio un boom della “palestra”: molte persone frequentano palestre, lavorano sul corpo. Eppure molti di questi, una volta usciti, prendono il loro pacchetto di sigarette e cominciano a fumare. Questo perché ciò che conta è il corpo inteso da un punto di vista meramente estetico e non platonicamente come “salute” corporea. Il corpo estetico diventa così la chiave d’accesso al mondo sociale, diventando in molti casi oggetto tra gli oggetti spettacolarizzato, esposto in vetrina come intrattenimento, soggetto ai giudizi secondo le mode in voga. Basterebbe guardare un programma di calcio per comprendere quale funzione nel mercato commerciale televisivo svolge la “bella donna” in gonna e tacchi da grattacielo. Cosa ne pensi della situazione odierna?

 

T.C. Per rispondere a questa tua riflessione può venirci in aiuto ancora una volta Schopenhauer, perché la sua filosofia ci insegna – sulla scia di quella kantiana – che possiamo considerare il mondo in maniera duplice: o come rappresentazione, così come ci appare, oppure per quello che in realtà è, come elemento emotivo e irrazionale che Schopenhauer chiama volontà. Ora, il modo di intendere il corpo dal punto di vista meramente estetico dei frequentatori di palestre è il punto di vista della rappresentazione: ciò che conta è quello che mostriamo di noi.  Ma in fondo è naturale questa deriva se si pensa, per dirla con Debord, che il progetto filosofico occidentale è sempre stato dominato dalla categoria del vedere. Vista e conoscenza poi sono strettamente collegati. In greco antico il verbo ὁράω, vedere, nei tempi perfetto e piuccheperfetto (cioè nei passati) e nel futuro anteriore significa conoscere. E oggi, ai tempi di Facebook, è cambiato qualcosa? Là dove il mondo reale si cambia in piccole immagini che escono da uno smartphone, la vista non può che essere il senso umano privilegiato. “Visualizzare” è entrato nel lessico informatico per indicare la consultazione di una pagina internet o delle notifiche di Whatsapp. Vedere però è l’atto di un organo del corpo, gli occhi, e di conseguenza non si può conoscere nulla se si astrae dal proprio corpo e la mente stessa non esisterebbe se non ci fosse il corpo. Spinoza – demolendo l’autonomia del fondamento del filosofare cartesiano e moderno, il cogito – diceva che «l’oggetto dell’idea costituente la Mente umana è il Corpo, ossia un certo modo, esistente in atto, dell’Estensione, e niente altro» (B. Spinoza, Etica, libro II prop. 13). Allora ben venga questo dominio della visione a patto che ci riaccompagni ad attingere e sentire il fondo originario che la produce e ci sostiene: il corpo. Ma temo che nei casi che hai citato tu, si resti invece al livello della rappresentazione e che il corpo sia la vittima delle mode e delle tendenze, cioè di costruzioni spirituali-ideologiche.

 

M.R. Potremmo collegare questo ad un altro argomento interessante che richiama il corpo e la sua funzione nel nostro mondo affettivo quotidiano: quello della sessualità. Gli anni '60 hanno presentato una rivoluzione anche dal punto di vista sessuale (liberazione da ogni vincolo, all’insegna della spensieratezza e della disinibizione, un tentativo di vivere il corpo tout court), eppure ne è seguita una disperazione in campo erotico. Questa libertà totale non portava a nulla, perdeva anzi il fondamento, il cuore della sessualità. Richiamo a tal proposito un saggio dello scrittore David Foster Wallace intitolato Di Fuoco E Di Fiamme (il primo della raccolta Di Carne e di nulla). Le cose naturali sono e basta, ma le nostre scelte di fronte a ciò che è definiscono il buono e il cattivo.

In questa prospettiva è evidente che ciò che rende veramente attraente il sesso non è esclusivamente l’istinto biologico di riprodursi, così come per il cibo non può essere la combustione metabolica. Sembra banale, ma spesso dimentichiamo che il sesso cerca di superare le barricate tra l’io e l’Altro, stabilisce (o cerca di farlo) un legame profondo, intimo. Se così non fosse, non ci sarebbe una sfera sessuale e affettiva così complessa, ma una mera riproduzione animalesca. Come ripensare il corpo alla luce di tutto ciò?

 

T.C. Per rispondere a questa tua domanda ci vorrebbe forse un libro intero e io non credo di avere risposte definitive. Ultimamente Nancy ha scritto un testo meraviglioso su questo tema. Io posso provare a risponderti partendo da una constatazione: l’anedonia, cioè l’incapacità di provare piacere dalle cose che si fanno, sta dilagando non solo tra i depressi ma anche tra la gente comune. Secondo alcuni studi quella più comune è legata ai rapporti sessuali: in molti, anche giovanissimi, non traggono più piacere dall’atto sessuale. Leggevo addirittura che la generazione dei diciottenni di oggi è quella che fa meno sesso degli ultimi 30 anni. Eppure il nostro corpo continua a esperire il mondo che lo circonda come ha sempre fatto; continua a trasmettere le stimolazioni genitali al nostro cervello e via dicendo. Chi si è messo in mezzo? Gli indizi porterebbero a dire lo spirito. È come se assistessimo ad una sorte di nichilismo del sentire: lo svuotamento della stessa materialità – conseguente al vuoto spirituale  e il dominio del virtuale hanno purtroppo disabituato tanti a sentire se stessi, il proprio corpo e la propria emotività. Oggi anche la nuova organizzazione del lavoro – come ci ricorda Roberto Finelli – non ha più al centro il corpo come nel fordismo ma tende a privilegiare le competenze cognitive rispetto a quelle fisiche e, se è vero quello che ci diceva Marx sugli influssi della struttura sulla sovrastruttura, non è strano aver perso la familiarità del proprio corpo e la capacità di relazionarsi a quello degli altri nella sessualità. E anche le parole di Nietzsche sull’origine del nichilismo

 

« Il principio del nichilismo.

Il distacco, la separazione dalla terra natia

Che comincia con lo spaesamento

Che finisce con l’inquietudine »

 (Volontà di potenza, 335, tr. it. di G. Raio)

 

allora assumono un altro significato: la terra natia da cui l’uomo contemporaneo si è separato è il suo corpo e questo distacco non può che generare spaesamento – l’Unheimlichkeit di freudiana memoria – ed inquietudine senza fine.

 

M.R. L’attenzione sul corpo nella filosofia contemporanea è dovuta anche ad un grande pensatore come Gilles Deleuze che ha collegato, in una maniera che prima sembrava impensabile, Spinoza, Nietzsche e Bergson. Quali sono i pregi e quali i limiti della sua analisi sul corpo?

 

T.C. Deleuze è uno dei più profondi anatomisti concettuali del corpo: il filosofo francese ha persino preferito pensare un “corpo senza organi”, proiettando in esso il sogno di un individuo – e una società – non autoritario e senza gerarchie, in cui abbiamo «solo poli, zone, soglie e gradienti» (G. Deleuze, Critica e clinica, Cortina, 1997). Eppure la disorganizzazione del corpo ha come conseguenza la rimozione del suo essere concreto: il medico, tecnico del corpo, verrà interpellato per piegare il corpo alla logica del dover essere ed esercitare su di esso la violenza tecnica – e in fin dei conti economica – del cliente; il filosofo, analista del corpo, invece finirà per congelarlo in astrazioni generalizzanti. Per questo motivo ritengo che si annidi un problema di fondo nella visione filosofica di Deleuze. Dopo di lui – è innegabile – si è visto il moltiplicarsi delle pubblicazioni sul corpo tanto che potremmo pensare che questo possa rientrare tra gli effetti della sua riscoperta. Eppure questo è sufficiente? Basta scrivere o parlare del corpo per rimetterlo al centro della vita? Non rischia di essere solo una nuova rappresentazione, un’immagine, un’esperienza esterna e oggettuale e – per di più – unilaterale dell’uomo? Non è forse giunto il momento di sentire questo corpo e, insieme a lui, l’ulteriorità che lo abita? E per questo – più di Deleuze – può aiutarci gente come Schopenhauer e soprattutto Spinoza, che già nel Seicento ci metteva in allerta sui rischi di un pensiero che divide ed estremizza solo un fattore, senza riuscire a vedere l’unità di fondo delle cose. È Spinoza il primo che ci ha detto con forza che è il corpo l’oggetto dell'idea della mente, da cui la mente non può essere mai separata, e una filosofia del genere non ci permette di giustificare un riduzionismo antropologico di nessun segno, né mentale/spirituale né corporeo, ma ci rimanda a sentire l'intero che ci definisce e struttura. 


26 gennaio 2018

 




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