La realizzazione delle nostre vite non può prescindere dal fare i conti con i traumi personali e le tragedie dell'umanità. Comprendere le dinamiche che vi sono sottese è un momento indispensabile del percorso esistenziale di ciascuno.
di Alice Polerà
Il silenzio spesso rappresenta il guscio di una conchiglia che ognuno di noi si costruisce intorno per creare una sfera di protezione e sicurezza in grado di separarci da una realtà troppo crudele.
Il problema è che si deve sempre fare i conti con quella realtà, perché, nel momento in cui ci si chiude in se stessi, quel pensiero fisso comincerà ad accrescere dentro di sé e sarà ancora più difficile da estirpare. E poi, se quel mostro che viene da dentro, quel fuoco ardente, dettosi senso di colpa, non viene più controllato, nasce la necessità di creare una verità di comodo per non arrivare al proprio annichilimento.
Questo problema è sempre presente nella nostra realtà, ma è tanto più evidente in momenti di guerra: evocare i ricordi di esperienze così tragiche crea dolore sia a chi ha inflitto, sia a chi ha subito l’offesa. Il ricordo di un trauma è esso stesso il trauma, perché fa rivivere nella mente del ferito un rinnovamento del dolore, mentre chi ha commesso l’offesa cerca di scacciare il ricordo in modo da tenere a bada quel mostro che potrebbe distruggerlo di lì a poco. Entrambi, la vittima e l’aggressore, si richiudono inizialmente nel silenzio e cercano il silenzio, vanno alla ricerca di qualsiasi cosa che possa rappresentare un rifugio rispetto a un trauma che non è parte solo del passato, ma che ogni giorno rivive nel presente.
Analizzando prima la visione dell’aggressore, si noterà come questi, troppo tardi, rendendosi conto di aver commesso soltanto uno scempio, si crei una realtà di comodo per cercare di passare da colpevole a innocente, o almeno a giustificato. Come scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati, nel primo capitolo che appunto si chiama La memoria dell’offesa, alle domande poste ai nazionalsocialisti: «Perché lo hai fatto? Ti rendevi conto di commettere un delitto?» Le risposte, sempre le stesse, cercavano di far ricadere la colpa su qualcun altro, dicendo che c’erano stati altri che avevano fatto anche di peggio oppure che si era obbligati a rispondere agli ordini.
Del resto, come dice Edward Daniels nel film Shutter Island: «Cosa sarebbe peggio: vivere da mostro o morire da uomo per bene?» L’uomo, che non riesce più a reggere un grande orrore, si crea un’altra versione dei fatti, in modo da non sentirsi un mostro e si arrampica su quella realtà, che si è creato tassello su tassello, che come una mano di vernice ha cancellato i sensi di colpa.
E poi c’è la vittima, che non ha bisogno di costruirsi una realtà di comodo, ma da memore a volte diventa immemore cercando di eliminare i ricordi più dolorosi. Oltre a cercare il silenzio, egli chiede il silenzio, lo supplica. Ad esempio all’interno della poesia Non gridate più composta nell’immediato dopoguerra da parte di Giuseppe Ungaretti è presente l’utilizzo di imperativi che chiedono il silenzio. L’utilizzo di questo tempo verbale non va interpretato come una volontà di dare ordini, ma come una preghiera di fronte a degli uomini così ignoranti che, invece di stare in silenzio ad ascoltare il flebile messaggio dei morti, continuano ad uccidere con le loro grida e le loro armi, facendo accrescere quel seme di odio e di ferocia.
Facciamo ora un grande balzo ai nostri giorni: oggi, la guerra, esiste? Se c’è, non è di certo la Prima Guerra Mondiale; siamo migliorati, non avvengono più gli scempi di una volta. Tutto vero, sembrerebbe per ognuno di noi; ma se ne sa così poco delle guerre oggi, oppure: se ne vuole sapere così poco delle guerre oggi.
La guerra, come misura ordinaria, è ripudiata dall’articolo 2, paragrafi 3 e 4, della Carta delle Nazioni Unite e su tale argomento la questione parrebbe molto chiara; infatti, viene scritto: «i Membri devono risolvere le controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo.»
Ma il vero problema di fondo è che – mentre muoiono bambini, donne, civili – la violenza e la sete di potere vanno a generare altra violenza; sembra di trovarsi in un'impasse dalla quale non si riesce e non si vuole uscire.
Oggi, come allora, gli interrogativi sulla guerra rimangono gli stessi. La stessa Anna Frank, come possiamo leggere in alcune pagine del suo Diario si chiedeva: «A cosa serve mai la guerra…»; ma, soprattutto, quando una guerra è giusta? Per Juan Ginès de Sepulveda, umanista spagnolo, la questione era già chiusa: appoggiando la legittimità della guerra degli spagnoli nei confronti degli indios, egli sosteneva che alcuni uomini fossero superiori per ingegno, abilità, fortezza d’animo e virtù, mentre gli altri fossero costretti a vivere in servitù. Di posizione del tutto opposta è Gino Strada, fondatore di Emergency, definito un utopista perché impegnato nella lotta per l’abolizione della guerra. Questi definisce la guerra come il cancro dell’umanità perché continua ad esistere, ma ognuno entro le sue possibilità dovrebbe fare qualcosa per cercare di eliminarla. Dice inoltre che:
« La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, ma uccide il paziente [...] è finito Hitler, è finito Mussolini, sono finiti tanti altri dittatori, ma non lo spirito del nazismo, del fascismo. Tutto questo, l’oppressione, la crudeltà, è sparito con Hitler e Mussolini? No, non è sparito. »
Dopo la Grande Guerra e la Seconda Guerra Mondiale non si è di certo aperta un’epoca di giustizia, di felicità, di pace; l’unica cosa che forse è cambiata è che si parla di guerra giusta, necessaria, “umanitaria” ma, come si chiede lo stesso Gino Strada, come possono le guerre essere definite “umanitarie” dal momento che sono mosse dai motivi più squallidi, per il raggiungimento dei quali muoiono civili, distruggono famiglie, portano appunto allo sfacelo dell’umanità?
Le guerre oggi sono un argomento che passa sempre in secondo piano; se ne sa, ma troppo poco, e quando se ne parla al telegiornale o nei quotidiani; le reazioni sono stupore, sdegno, scandalo, “compassione”. Detto così sembrerebbe anche che ci sia un nostro interesse, ma in realtà io credo che tali reazioni facciano emergere, ancora una volta, quanto l’animo umano possa essere corrotto e crudele.
Noi, che nella vita abbiamo come unici obiettivi la fama, la reputazione, la ricchezza, il denaro e il potere come potremmo mai cambiare il mondo, quando «Non esiste alcun ordine morale. Esiste solo questo: La mia violenza può vincere la tua?» (Shutter Island) e nel momento in cui uno potrà sopraffare l’altro non avrà nemmeno un attimo di esitazione?
E poi ci scandalizziamo perché noi ci crediamo diversi dai nazisti della Seconda Guerra Mondiale, ci crediamo i paladini della giustizia e del diritto, tanto che una guerra qua e là, fuori da casa nostra, è diventata semplicemente normale. Noi ci crediamo diversi, noi non siamo come quegli attentatori, certo abbiamo colpa in misura minore, ma in realtà sono proprio la nostra ignoranza e la nostra indifferenza a farci credere ciò. Ognuno di noi non si sente responsabile, si sente troppo piccolo e troppo lontano per fare qualcosa e il risultato è che diventiamo tutti spettatori di una tragedia in cui ci copriamo gli occhi con questa realtà di comodo e rimaniamo immobili, senza fare niente. Cerchiamo i colpevoli, puntiamo il dito contro gli altri ma… noi? Come si dice nel film V per Vendetta:
« Sicuramente ci sono alcuni più responsabili di altri che dovranno rispondere di tutto ciò, ma ancora una volta, a dire la verità, se cercate il colpevole… non c’è che da guardarsi allo specchio. »
In un celebre aneddoto relativo all’opera Guernica di Pablo Picasso, per esempio, si vede come, non sia cambiato nulla rispetto al passato e, anche in questo caso, l’ipocrisia faccia da regina incontrastata: si narra che dopo la realizzazione del quadro, l’ambasciatore nazista di Francia otto Abetz fosse andato a vedere il capolavoro realizzato dal famigerato artista e avesse chiesto: «Avete fatto voi questo orrore, Maestro?»; e così il pittore rispose: «No, è opera vostra».
Tutto ciò non vuol dire che la guerra rappresenti un fenomeno indistruttibile, ma di certo che è difficile da sconfiggere finché non ci sarà un’adeguata educazione che possa far basare questa società ipocrita non su futili valori quali la ricchezza e la presa di potere, ma la giustizia (la vera giustizia) la sicurezza e il dolore, solo allora il nemico sarà abbattuto in maniera pacifica.
Come John Lennon cantava: «You may say I’m a dreamer/ but I’m not the only one/ I hope someday you’ll join us». Potrebbero essere definite come le parole di un sognatore, un idealista o meglio ancora un utopista, ma non vedo come noi potremmo vivere senza i nostri sogni nella speranza che essi diventino realtà; e, nel momento in cui si decreta qualcosa irrealizzabile, è solo perché si è abituati a una mentalità in cui si vuole tutto e subito e si prende come unità di misura la propria vita che, per quanto possa essere lunga, non sarà mai sufficiente per la realizzazione di grandi sogni. Dunque, per avvicinarsi ai grandi valori di giustizia, pace, parità bisognerà, attraverso piccoli passi, mettersi nelle condizioni di trovare problemi migliori giorno dopo giorno, con la consapevolezza di averne superati di peggiori, ma la speranza e soprattutto la determinazione necessarie affinché quei sogni non siano “campati in aria” ma il proprio obiettivo nella vita.
21 giugno 2018
DELLA STESSA AUTRICE