Il relativista crede banalmente che l'umiltà sia un pregio proprio di chi non riconosce l'assolutezza della verità. In realtà è esattamente l'opposto: solo chi riconosce che esiste una verità unica ed assoluta è abbastanza umile da sottomettersi gioiosamente al comando della ragione.
Il nostro è un tempo che, come diceva Gustavo Bontadini in La filosofia a un bivio, articolo apparso sulla rivista "L'uomo" nel 1943,
« non dice nulla pur dicendo un’infinità di cose, con sovrabbondanza mai vista, e senza contare la loquacità. E non è mala parola nostra, ma constatazione tecnica. Il bivio è tra questo prope nihil (dire che non c’è nulla da dire) e tornare al metro della ragione (non la libertà ci fa veri, ma la verità ci fa liberi. Qual sia poi l’essenza della ragione, lo dirà la ragione stessa, e non semplicemente la nostra sete di novità-libertà). »
E si trattava di settantacinque anni fa! Chissà cosa avrebbe pensato oggi il grande filosofo milanese, in mezzo alla moltiplicazione esponenziale del chiasso "social".
Ma il problema, al di là dei mezzi che lo permettono e lo potenziano, è che il chiasso c'è perché chi sovrabbondantemente dice senza dire nulla è segretamente convinto che tutto si possa e si debba dire, in quanto nulla ha più diritto di qualcos'altro al venir espresso; e viceversa niente meriti più di altro di essere passato sotto silenzio. Non esiste verità alcuna, infatti, che possa porre un discrimine tra ciò che è ragionevole dire e ciò che non lo sia.
Il relativista, tipo umano par excellence di questa fase storica affetta da inguaribile logorrea, credendo (come il più bigotto dei fedeli) in questa scriteriata assenza di criterio, è convinto di essere umile: non avrebbe l'arroganza di coloro che affermando l'esistenza di princìpi assoluti e universali, porrebbero se stessi più in alto degli altri, ergendosi a depositari esclusivi del vero. Egli si sente davvero democratico; egli, infatti, vuol dar voce a tutti; egli non si sente superiore a nessuno e non giudica.
Argomentazioni, queste, che possono confarsi a un adolescente nel pieno della sua crisi contestatrice (necessaria a che egli sviluppi il suo pensiero critico in quella fase), ma che un pensiero virile non può tollerare: la verità, che non va confusa con il comando severo di mamma e papà che si arrabbiano se ti fumi le canne, è unica e assoluta; e se il fatto che noi esseri piccoli e finiti la scopriamo "processualmente" e non ce l'abbiamo bella e pronta come fosse una monetina di cioccolato da scartarsi e ingoiare fa dubitare a questi sedicenti umili della sua esistenza, forse è il caso che tornino un poco a studiare.
Chi invece "scriteriato" non è, potrebbe argomentare a lungo e sensatamente contro queste amenità, ma spesso si domanda se possa mai servire a qualcosa con chi è convinto che la verità sia relativa, perché non essendo costoro in cerca, nella discussione, di niente che sia assolutamente vero, parlano tanto per parlare; e invece dovrebbero stare in silenzio per essere coerenti (e per ascoltare, magari): che senso ha infatti comunicare i propri pensieri se non ce n'è nessuno che sia assolutamente vero? E invece parlano, parlano, parlano... e si contraddicono.
Ma chi non è scriteriato non può, proprio per questo, perdere la fiducia nella forza inconcussa del vero; e quindi deve farsi forza e continuare ad argomentare, perché in fondo sa che il vero, proprio perché vero, può e anzi deve convincere della propria verità, se pur dopo mille sforzi e nonostante le innumerevoli resistenze.
E sia, allora.
Il relativismo, che loro professano, crede banalmente che l'umiltà sia un pregio proprio di chi non riconosce l'assolutezza della verità. In realtà è esattamente l'opposto: solo chi riconosce che esiste una verità unica ed assoluta è abbastanza umile da sottomettersi gioiosamente al comando della ragione, una volta che questa gli abbia sufficientemente mostrato che è ragionevole sottomettersi a una massima o a un principio di condotta. Viceversa, chi millanta la relatività del vero non è umile, ma arrogante, perché si sottrae al confronto e dirà sempre e soltanto "per me è così ... e tu non puoi dire niente" oppure "questa è solo la MIA verità". Non avrà mai, quindi, l'umiltà di dire all'altro "hai ragione tu e io ho torto, perché quel che dici tu assolutamente vero"; la verità infatti è soltanto SUA: pare proprio, da come parla, che ne sia lui il depositario.
Chi non si professa relativista non dice, per questo, di essere il solo ad aver capito quale sia la verità; anzi magari ammette di non sapere ancora quale sia (e talvolta dispera addirittura di riuscirci, perché la sua vita gli sembra troppo breve e la sua intelligenza troppo "piccola"): egli prova allora a circondarsi di quelle persone che sono molto più avanti nel percorso di ricerca e scoperta del vero, e con loro ha il piacere di dialogare e confrontarsi nella speranza di vederci più chiaro, pronto ad ammettere il suo errore se razionalmente gli vien mostrata la contraddittorietà del suo dire e del suo fare. Lui, umilmente, è ben disposto a tornare sui suoi passi perché è consapevole che la verità potrebbe mostrargli che non è giusta la direzione che ha preso. Sa, infatti, che solo ammettendo che esiste la verità assoluta acquisisce senso e si rende possibile un dialogo, che possa portarlo a scoprire qualcosa in più e a correggere ciò che sta sbagliando. Chi misconosce l'esistenza dell'assoluto non dialoga, al massimo chiacchiera.
E allora, caro relativista, perché continuare a chiacchierare, a proferire verbo senza dire mai nulla, quando invece potresti dialogare? Ne guadagneremmo tutti: meno rumore ma molte, molte più conquiste e scoperte, che farebbero stare meglio tutti ma proprio tutti.
15 luglio 2018
PER APPROFONDIRE
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