A partire dal libro di Stefano Feltri Reddito di cittadinanza. Come. Quando. Perché si cercherà di comprendere da dove nasce l’idea di un reddito di cittadinanza, come sono considerati i poveri e se queste due cose possano essere correlate tra loro.
I poveri, ecco chi sono per la maggior parte di coloro che urlano contro il reddito di cittadinanza: dei fannulloni, dei buoni a nulla. Feltri scrive sulla loro condizione:
« [I poveri] sono stati trattati di volta in volta come mentecatti, delinquenti, pigri da punire, indolenti da pungolare, vittime del sistema, pericolo per l’economia e per l’ordine pubblico, oggetti di analisi lombrosiana o immagini di Cristo. […] ho cercato di descrivere l’assillo che ha accompagnato i governanti fino ai giorni nostri per distinguere i bisognosi dai simulatori, i disoccupati meritevoli di aiuto dagli immeritevoli. Di qui una ragnatela fittissima di norme per regolare chi, come e quando ha diritto di essere gratificato con sussidi o abbandonato al suo destino. »
Storicamente le prime politiche di assistenza risalgono al periodo dei Tudor, nel Regno d’Inghilterra, alla fine del XVI secolo, e si sono aggiornate nei secoli: all’inizio erano gestite all’interno delle parrocchie, in cui i poveri iscritti potevano beneficiare dell’elemosina dei ricchi; nel 1601 le Poor Laws garantivano una tassazione aggiuntiva ai ricchi per sostenere le politiche sociali ai poveri; nel 1795 la riforma Speenhamland garantiva un sussidio a tutti i poveri, che si dichiaravano tali senza troppi controlli, in linea con la variazione del prezzo del pane che però risultava simile allo stipendio di un operaio. Questa fece emergere il problema di numerosi inglesi che preferivano dichiararsi poveri piuttosto che lavorare – non ricorda già qualche discorso che si sente schiamazzare in metropolitana o postato sui social tipo “Io alla gente che non fa un piffero non gli voglio dare nulla!”? Poi, nel 1834 con le New Poor Law e vari altri provvedimenti a scopo mutualistico, sia i problemi dello scarso controllo dell’erogazione che quello di chi includere all’interno del gruppo beneficiario sono stati in parte risolti. A ruota hanno seguito la Francia, con Bourses Du Travail nel 1800; poi la Germania con il governo Bismark, primo esempio di Stato Sociale modernamente inteso: nel 1883 si prevedeva uno schema assicurativo statale obbligatorio per tutti i lavoratori e la prima separazione tra politiche di assistenza (tutti i cittadini in condizioni di vulnerabilità) e previdenza (tutti i lavoratori); infine l'Italia: anche se l’associazionismo popolare iniziò in Sardegna e poi nel resto della penisola attraverso la Chiesa grazie alle Opere Pie, essa, dalla seconda metà del XIX secolo con l’art. 38 della Costituzione, garantì politiche di assistenza e previdenza ai cittadini – ma veramente regolamentati solo con la L. 328 del 2000.
È forte la correlazione tra le politiche di assistenza e il liberalismo economico che avvampa in tutta Europa negli ultimi secoli; scrive De Ruggiero sul liberalismo europeo:
« Ciò che il Terzo Stato (tutti quelli che non erano né nobili né del clero) fin d’allora chiedeva era l’impero del diritto comune, in modo che l’eguaglianza di tutti gli individui di fronte alla legge ponesse ciascuno in grado di sviluppare le proprie capacità, e che la stessa identità delle norme potesse far liberamente germinare le differenze delle attività dei singoli. Ed anche a questa esigenza la monarchia assoluta veniva opportunamente incontro, rendendo possibile, con la sua opera assidua di livellamento, l’introduzione e la diffusione del diritto privato romano – un diritto di eguali, almeno nella soggezione – in luogo del multiforme diritto consuetudinario. Così, almeno un elemento formale e universale era acquisito al nascente liberalismo borghese: l’eguaglianza giuridica. » (Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo)
Tuttavia con l’idea del “livellamento” passava in sordina l’elemento pubblico, privato e quindi anche istituzionale, che per poter usufruire di tali sussidi si dovessero avere condizioni particolari: un certo, preciso e stimato, livello di povertà e il “fare” qualcosa. Quel “fare” indica una regolamentazione politica in cui il “disgraziato” non può essere “povero e basta” per godere dell’assistenza, ma un povero che dimostri di non voler essere più povero, che si industri a uscire dalla sua condizione disagiata attraverso comportamenti specifici, sempre più finemente regolamentati dalle varie burocratizzazioni, esclusive ed escludenti, degli Stati – perché disagevole anche per chi lo osserva. Da qui il loro allontanamento dal centro della vita pubblica, nei “ghetti”, per favorire il “decoro”; ma questa è un’altra storia, tutt’ora presente, che riguarda tutto quel mondo che vuole essere fatto diventare nulla per paura e brama narcisistica di controllo assoluto sull’Altro. Che fine hanno fatto lo studio e la ricerca dei motivi per cui da non-disgraziato il cittadino è diventato disgraziato? La povertà – definiamola una volta tanto: il “non possedimento di sufficienti mezzi per comprare beni e servizi di primaria utilità” – sembra essere diventata una colpa del povero. Tautologia purissima: la colpa del tuo essere povero è solo la tua. Riflettendo un attimo su questa inferenza pare ovvio che il termine “tua” si riferisca a “persona povera”, alias riformulando: la colpa del tuo essere povero è solo perché sei povero. Sei povero perché sei povero. Questa persona è nata povera per qualche mutazione genetica che influenza il conto corrente o eredita un'incapacità a far soldi? Come si diventa poveri?
E qui arriva il reddito di cittadinanza – che di “cittadinanza” ha ben poco, come vedremo, giacché non tutti i cittadini vengono inclusi; quindi sì di cittadinanza, ma con molte riserve – proposto dal Movimento Cinque Stelle e che non è affatto solo appannaggio del partito pentastellato italiano, ma, come si è visto, ha alle spalle una storia e dei problemi secolari. Istituzionalmente in Italia lo precede il SIA di Monti e il REI di Gentiloni, come impianto organico, ovvero una politica di assistenza economica “più o meno redditizia, più o meno inclusiva”, atta ad includere, agevolare il cittadino “in quanto cittadino”. Nel resto d’Europa era la Grecia l’unica fino al febbraio 2017 a non avere un dispositivo simile. Ogni altro Stato interpreta la filosofia del reddito di cittadinanza sempre con l’approccio lavorista accennato prima – “sei povero? Colpa tua, quindi fa qualcosa per uscirne” –, “più o meno redditizia, più o meno inclusiva” (l’0landa per ora si aggiudica il tetto di generosità massimo, con un importo di reddito di cittadinanza pari al 50% della soglia di povertà). La proposta del M5S, dunque, è quella di arrivare ad un reddito al 60% rispetto alla soglia di povertà, quindi allargare e intensificare le precedenti proposte, soltanto se si soddisfano determinate caratteristiche: essere cittadini italiani; essere iscritti all’ufficio di collocamento e non rifiutare proposte lavorative (alla terza chiamata si perde il reddito); non avere proprietà né beni costosi, come una automobile comprata negli ultimi 3 anni ecc. Ma non è della proposta concreta che si vuole parlare (dal canto nostro urgente ed utilissima), ma appunto del paradigma lavorista – finto liberalista – che c’è alla base di tale provvedimento che funge da fondamento a tutti gli impianti europei.
Se quello che uno Stato Sociale vuole realizzare è la libertà dell’individuo, allora deve garantire l’uguaglianza di tutte le persone, fornire a loro possibilità, dare significato alle proprie idee all’interno della società, cosicché la condizione di povertà non sia qualcosa a cui la società, né privata né pubblica, può disinteressarsi. Allora il diritto politico è in strettissima correlazione con la libertà dell’individuo:
« Libero non è se non ciò che è proprio, ciò che è frutto della propria attività o della propria scelta, in contrasto con ciò che è ricevuto con l’autorità della domma o con la passività della tradizione. » (Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo)
Concetto dimenticato dal neoliberalismo che vede l’individuo separato dal contesto, compresa la sua realizzazione o mancata realizzazione, in cui, nella follia maschista del “più è grosso meglio è”, tutto ha un prezzo calcolabile in denaro. Quel prezzo è direttamente proporzionale con il totale Sé dell’individuo: rispecchia solo la propria atomistica condizione e null’altro. Più si ha, più si è. Tuttavia se “libertà” sta proprio nella possibilità intellettuale della scelta, dell’esercizio spirituale, allora questa scelta si manifesta perché c’è un territorio, un mondo, in e su cui rendersi apparente, ma anche da cui trarre riflessioni per ulteriori scelte. L’esempio del figlio del ricco industriale, a cui viene trasmessa una fortuna economica, senza avere meriti, è assai in antitesi con il populistico pensiero che la povertà è cercata, per colpa, dal povero: che merito ha, quali comportamenti ha avuto, il figlio del ricco industriale per ereditare tale fortuna? Se è vero che ogni individuo ottiene solo quello che riesce a fare con i suoi maneggiamenti, senza responsabilità alcuna della società o della famiglia, allora è ingiusto che il figlio del ricco industriale erediti tale fortuna. Se invece si mette anche la variabile della società nella realizzazione del proprio progetto, allora sia la fortuna, che la sfortuna e la disgrazia, sono condizioni in cui gli interessati non sono solo i protagonisti, ma tutto ciò che circonda l’individuo. Ancora di più vogliamo affermare: se è vero che si può ereditare, allora perché oggi, in quanto cittadini che nascono all’interno di un certo livello di welfare economico rispetto decadi fa, non si eredita di diritto dalla nascita parte della ricchezza del proprio Stato?
Considerare lo Stato come una grande famiglia, in cui ogni individuo che nasce eredita tutto ciò che è stato fatto prima di lui (come le ricerche mediche, i progressi tecnologici o edilizi), significa anche esaminare attentamente come si è evoluta la ricchezza famigliare media, quindi le relative condizioni lavorative nell’ultimo secolo, che vede sorgere il cosiddetto Jobless Growth. Dal 1891 al 1991 le ore di lavoro all’anno degli italiani sono passate da 70 a 60 miliardi di ore, con una crescita della popolazione da 40 a 57 milioni e producendo ben 13 volte di più. Nell’ultimo trentennio la popolazione continua ad aumentare, la produzione pure e le ore lavorative continuano drasticamente a diminuire. Si lavora meno e si produce di più. Da qui si può ben considerare come un figlio della nostra Italia nato un secolo fa avrebbe avuto molto più lavoro rispetto ad oggi, anche a causa delle tecnologie e delle tecniche le quali permettono di passare molto più tempo libero per dedicarsi ad altro. Anche a cosa si dedica questo tempo libero è un discorso interessate; si considerino i NEET (Not in Education, Employment or Training): 2 milioni di giovani adulti (15-29 anni) che non studiano e non cercano lavoro; 2 milioni di potenziali “ricercatori di felicità umana”, giacché, se fossero stimolati, se davvero si sentissero parte della società o la società li facesse sentire protagonisti di qualcosa di molto più esteso di loro, potrebbero concorrere alla ricerca di tecniche per implementare le risorse di tutti i cittadini. Questo aumento della capacità di produzione sembra non abbia portato ad una vera e propria ricchezza distribuita: nel 1910 1 italiano su 4 era a rischio povertà, oggi 1 su 3. Questo perché si è sempre più bravi a produrre capitale, ma meno a garantire le sicurezze e il controllo, a fare politiche sociali, e quindi con rischi sempre maggiori? Probabilmente perché, con il giustissimo motivo di dare potere all’individuo come singolo, si è persa quasi totalmente l’importanza della relazione con l’Altro per la propria realizzazione. Più il proprio vicino di casa acquista in forza, più ci si sente deboli. È il meccanismo psicologico fondamentale ad essere aporetico, e quindi a generare insicurezza implementando la schizofrenia globale – cioè si tende verso un obiettivo facendo azioni non coerenti a quell’obiettivo, ma al suo opposto –, è quello di trasformare il diritto naturale della libertà – quello, come testé detto, dell’esercizio del proprio intelletto – in un diritto “concesso”, quindi in una politica di assistenza verso i cittadini, in una ottica di tolleranza del disgraziato. “Tollerare” già significa essere in una condizione di superiorità, perché si potrebbe “non-tollerare”; altresì “concedere” è un altro strumento dialettico di potere che funge da sottosuolo paradigmatico di tutti quelli che, in una posizione capitalistica di superiorità, permettono un sussidio ai bisognosi. Ed ecco che si torna al reddito di cittadinanza lavoristicamente inteso: se la fortuna e la sfortuna di una persona dipendono solo da questa, allora la si costringerà a fare delle cose in un vortice turbocapitalistico in cui non c’è mai limite al “di più” materiale. Inoltre, se l’idea di base è quella che un diritto naturale, di nascere dunque in un sistema che permette, keynesianamente parlando, di «lavorare 3 ore producendo quello che serve per un mese intero», allora si entra tout court nella dialettica “posso conquistarlo-posso perderlo”, ma un diritto non si può né perdere né conquistare: si riconosce. E basta!
Il reddito di cittadinanza è una bella e lodatissima iniziativa, un primo doveroso passo, ma che non porterà e non garantirà un esito a lungo termine positivo se i successivi passi non saranno fatti verso quell’unica direzione possibile all’uomo. Ciò che può portare un risultato a lungo termine è l’educazione ad un concetto unificante che includa l’Altro all’interno di un libero confronto sempre più complesso, e che lo riconosca come sicuramente dotato di quell’unico diritto che la natura lo ha dotato: il pensiero. Reddito di cittadinanza sì, ma senza la riserva di essere cittadini di serie B.
7 luglio 2018