Durante l'età vittoriana si produsse in seno alle élite politico-intellettuali un dissidio che potrebbe aiutarci a leggere la situazione in cui versiamo oggi.
La democrazia è ‒ almeno in teoria ‒ il teatro del confronto politico. Gli attori che animano questo confronto, però, diversamente da quanto accade sui palcoscenici propriamente detti, non sono soggetti individuali bensì collettivi, perché la natura propria degli ideali di ogni sorta sta nella pretesa di valere universalmente, e perciò è gran motivo di imbarazzo ("imbarazzo" che purtuttavia permette la democrazia, ed è ineliminabile) già la sola esistenza di un altro ideale ‒ il che appunto spinge al confronto ‒ o al massimo di pochi altri: la moltiplicazione indefinita degli ideali politici, a cui peraltro sempre più assistiamo, significherebbe la loro individualizzazione, che è come dire il loro annullamento. L’ideale dev’essere di molti e deve aspirare a essere di tutti. Non con l’imposizione, è chiaro, altrimenti quell’ideale non sarebbe “di” coloro ai quali lo s’impone; ma con la forza delle argomentazioni, con lo sforzo di convincimento reciproco che si presupponga venga attuato su base razionale e in nome dell’interesse comune. Insomma, di nuovo, attraverso il “gioco teatrale” (nel senso serissimo in cui gli inglesi dicono “play”) della democrazia.
Insomma, sembra proprio che le alternative debbano circoscriversi a un numero piuttosto ridotto, altrimenti sorge il sospetto che le miriadi di rivendicazioni politiche delle innumerevoli parti in gioco non siano avanzate in nome dell’interesse di tutti.
Forse, in questi tempi di forte confusione politica, varrebbe la pena riguardare con un certo favore ad esperienze democratiche passate, come quella bipartitica che, se pure “imperfettamente”, ha caratterizzato anche la nostra Prima Repubblica. Poche alternative ‒ addirittura due! ‒ ma decisive sulle quali pronunciarsi: riduttivo, si dirà, e lo concederemo, ma non raramente si è trattato di alternative strutturate, in grado di polarizzare l’essenziale dei termini. Insomma: poca roba, ma chiara. Tale almeno da riuscire a farti dire: non mi piace nessuna delle due, occorre pensarne una “terza” che superi le limitatezze di entrambe. Ma attenzione: non per questo anche una quarta, una quinta e così via all’infinito. Entia non sunt multiplicanda praeter necessitate.
Io vorrei raccontare una piccola storia filosofica, accaduta nel Paese che prima di tutti in epoca moderna ha sperimentato un sistema di tipo bipartitico, il Regno Unito, per cui le cose, per quanto ovviamente complicate, sembrarono disporsi in modo piuttosto chiaro. Io credo che questa storia possa aiutarci a vedere meglio quello che è accaduto e accade altrove: più che altro, lo “sento”. Perciò mi limiterò a raccontarla.
Come tutti sanno, sin dai tempi della Gloriosa Rivoluzione (1688), le forze politiche in Inghilterra si dividevano tra Tory e Whig.
Nella sua Dissertazione sui partiti del 1735, Sir Henry St. John Bolingbroke, Visconte di Battersea, la mette così:
« Il potere e la maestà del popolo, e del contratto originario, l’autorità e l’indipendenza dei Parlamenti, la libertà, il diritto alla resistenza, all’allontanamento, all’abdicazione, alla deposizione [del sovrano]; queste erano idee associate all’idea di un Whig, e ogni Whig le supponeva incomunicabili e incompatibili con l’idea di un Tory.
[...]
Il diritto divino, ereditario, inalienabile, la successione lineare, l’obbedienza passiva, il privilegio, l’anti-resistenza, la schiavitù, e in qualche caso addirittura il papismo, s’associano in molte menti all’idea di un Tory, e le si giudica incomunicabili e incompatibili, allo stesso modo, con l’idea di un Whig. »
Sulla base di questa “dicotomia originaria” (diciamo così) durante l'età vittoriana (1837-1901), si produsse in seno alle élite politico-intellettuali un dissidio che a mio avviso potrebbe essere molto istruttivo e aiutarci a leggere la situazione in cui versiamo oggi.
Questa è la storia:
da una parte c'era il partito dei positivisti e degli evoluzionisti, eredi della grande tradizione empirista, che – detto papale papale – sostenevano che la conoscenza è un aggregato di dati esperienziali atomici: per cui bisogna limitarsi all'analisi di questi dati e buonanotte! Tutto ciò che li precede o li oltrepassa - e quindi la medesima possibilità della conoscenza esperienziale in generale - non è indagabile.
Dall'altra c'erano gli intuizionisti, che sostenevano che siccome l'esperienza è limitata a questi dati atomici, per tutto il resto (etica, sentimento del divino, giustizia, principi primi della conoscenza) bisogna affidarsi a una intuizione sovrasensibile e, nei casi più spinti, irrazionale che ci offrirebbe "di colpo" tutte le certezze di cui abbisogneremmo per orientarci, soprattutto in campo morale.
La cosa forte e paradossale è che questi credevano di essere nemici, e in effetti si fronteggiavano anche in campo politico: i primi erano perlopiù vicini all'ambiente Whig (o liberal-riformista) mentre i secondi al tradizionalismo dei Tory.
E tuttavia, nel loro apparente opporsi, le due fazioni erano accomunate da un legame fraterno: il fatto che entrambi sostenessero che i principi ultimi sono inindagabili, li portava a conclusioni diverse ma egualmente illiberali. I progressisti ne deducevano l'impossibilità di rifarsi a norme universali e quindi si pronunciavano a favore di un riformismo così radicale da trasformarsi, come nel caso di Spencer, in un anti-statalismo che non tutela in nessun modo i più deboli, anzi ne favorisce la soppressione. I conservatori concludevano invece che siccome le norme non sono conoscibili razionalmente, è la religione che le rivela all'uomo sin dalla notte dei tempi, e perciò è opportuno mantenere l'ordine costituito che ne rappresenta la migliore espressione: le fasce sociali subalterne che chiedevano le riforme, quindi, potevano andare a quel paese.
In entrambi i casi, tutto veniva salvato fuorché la libertà. Che è come dire che non veniva salvato niente. E i due nemici per la pelle cooperavano inconsapevolmente ai danni del bene comune.
Poi arrivò un gruppo di tizi, che si auto-definivano idealisti (o anche new liberals), e che proponevano di non svalutare in questo modo la ragione; e che si può fare un discorso ben fondato non solo su metalli, gravi, animaletti da laboratorio, triangoli, diagonali e insomma tutta la roba misurabile, ma anche su cosa dobbiamo fare per vivere una vita giusta e migliorare le leggi e rendere le condizioni di vita migliori per tutti etc. etc. e questo senza richiamarsi a chissà quale visione mistica, ma senza nemmeno dire che dobbiamo essere come le scimmie che studiamo nei laboratori, per cui tanto vale tornare alla legge della giungla.
Si chiamavano idealisti, e riuscirono a farsi ascoltare per qualche decennio. Dopo di che, li hanno prontamente mandati a casa, iniziando a dire (Bertrand Russell era uno di questi) che erano dei mezzi matti.
Già, perché il matto è chi dice che anche della politica e dell'etica può darsi scienza (non empirica ma filosofica, certo) e non piuttosto chi spera di ritornare nella Rift-Valley o di non mettere mai in discussione nulla perché tanto la verità è quella, c'è già e sarà per sempre così.
E così la democrazia, pur in condizioni di “chiarezza” ad essa senz’altro più favorevoli, venne presa a pedate, come spesso capita.
23 marzo 2018