Cercare il vero sé è stato nell’ultimo secolo il dramma fondamentale del mondo e della cultura occidentale. Vivere riflettendo e pensando in modo corretto permette all’uomo di compiere azioni sagge, ma come si diventa persone autentiche? Come si vince l’angoscia del cercarsi?
L’articolo pubblicato il 29 dicembre passato su Gazzetta filosofica (“La riflessione per ritrovarsi”) ha messo in luce quanto poco si rifletta nell’odierna società. Troppo presi da impegni o da relazioni reificate a sostanze tossiche che forniscono quella risposta apparentemente sicura che dovrebbe orientare l’individuo; nessuno è ormai più disposto ad allargare i propri orizzonti esistenziali: si denuncia la mancanza di nuove possibilità, ma poi, quando messi davvero alla prova nella costruzione del proprio sé o del proprio empowerment, si preferisce approdare a porti conosciuti, rimanere nella propria “zona di comfort”. La classica monotonia giornaliera. I soliti discorsi populisti. Gli stessi manuali agli stessi corsi universitari. Le medesime soluzioni a problemi già discussi. In “la riflessione per ritrovarsi” si è scritto che riappropriarsi del sé significa capire chi si è, qual è l’autentico se stesso.
Non è un caso che a partire da quelle riflessioni siano nate parecchie domande, sia da parte di chi scrive che dai lettori. Giacché se dapprima si comprende l’importanza della riflessione, poi si dovrebbe trovare un modo, un sistema per imparare a riflettere. Riflettere bene.
È necessaria già questa prima considerazione: non è possibile non riflettere. Quello che oggi è un automatismo, una volta era, per l’individuo, un ragionamento. Quindi lo stesso automatismo – o una emozione, oppure, in senso heideggeriano “il modo di aprirsi al mondo” – è una riflessione, è già interno al pensiero, se pure a livello minimale. Questo è un primo passaggio per iniziare a comprendersi e valutarsi in maniera autentica: le emozioni, le passioni e l’immediatezza del comportamento sono fattori educabili. Infatti l’azione di oggi, pensata e riflettuta, costruisce ed educa la personalità, ovvero il carattere con cui l’individuo agirà nell’immediatezza che compone una parte dell’azione.
La seconda considerazione è in merito all’azione. Se l’azione, in quanto azione, è rivolta sempre verso qualcosa di altro da sé, allora è la relazione che costruisce la propria identità: il modo in cui si informa il mondo del sé e di come l’io si informa. Ovvero è come ci si rapporta con il mondo, con le cose e le persone, che costruisce sempre nuove parti del proprio pensiero, del sé. Banalmente: si ascolta – si fa l’azione di “ascoltare” –, si elabora – ulteriore azione del pensare che confronta la risposta migliore in funzione del proprio ben-essere – e si dice o si fa qualcosa. L’azione non è, quindi, soltanto l’ultima fase, del “dire” o del “fare”, ma è l’intero processo insito sempre nel pensiero.
Anche quando ci si pensa, quando si riflette su se stessi o si fa una azione che è indirizzata verso sé, come le varie attività che caratterizzano il prendersi cura della propria persona, questo significa rivolgersi verso qualcosa di altro da sé. In effetti quando si pensa a se stessi ci si immagina in un modo diverso e si ipotizza se quel “modo diverso di pensarsi” sia migliore o peggiore – soddisfi o non soddisfi il proprio bisogno – rispetto al modo in cui si è ora. Quindi l’io di ora si pone ad altro da sé, che sarebbe il proprio io in diverse circostanze sempre situate nel mondo e in rapporto al mondo. Si ponga un esempio di facile comprensione: quando si scelgono i vestiti per una cerimonia e si è indecisi se mettere una cravatta verde o una marrone, ci si “idealizza” in un modo e nell’altro, poi si fa una scelta. Questa semplice dinamica non può non investire anche tutto il resto del mondo, poiché se prima si è detto che ogni azione è rivolta ad “altro da sé” e questo educa la propria identità, allora anche la propria identità, compreso “l’idealizzarsi” con un vestito o un altro, è costruita dal pensiero comune. Dove per comune si intende non la moda, ma quel valore – il “meglio o peggio rispetto a qualcosa” – espresso dallo stesso pensiero, che non può non immaginarsi in relazione ad altro da sé, ovvero un valore di riferimento. In effetti “avere una cravatta verde o marrone” non è al di fuori del proprio pensiero, è pensiero ed è la propria identità, e questa, come si è già scritto, è costruita con azioni sul e dal mondo.
Riflettere. Pensare. Sono parole al cui interno, più o meno inconsapevolmente, c’è tutto il mondo. Si può pensare non tenendo conto dell’altro? Non è possibile. Si può riflettere tenendo conto solo dell’altro? Neanche. Il pensiero, che si pensa in questo caso, è un movimento che non può prescindere né dalla propria identità né da quella dell’alterità, anzi è l’identità autentica.
Essere autentici, in questo buon-riflettere, significa sapersi leggere nell’immediato dandosi una risposta sia storica sia relazionale. “Storica” significa sapere che il proprio stato d’animo, il modo in cui ora ci si apre al mondo e all’altro diverso dal sé, è una costruzione di pensieri e azioni passate. “Relazionale” perché l’azione del pensare, concreto o no, come si è visto, può essere solo verso qualcosa, il quale, inesorabilmente, ritorna a sé, essendo l’io nel mondo e il mondo attorno all’io. Essere autentici è scegliere esercitando l’azione che tenga conto in modo più coerente possibile sia la propria immediatezza, sia la riflessione con e per il mondo.
Tuttavia non si può eludere che la buona-riflessione, così espressa, metta in luce un concetto chiave: l’esigenza di un valore di riferimento. Si riprenda il senso della natura dell’azione che si è esposta sopra: si pensa – o ci si pensa – nel modo migliore, nella risposta più “funzionale” – o che esprime in misura maggiore il bene – in rapporto all’altro; e il rapporto con l’altro costruisce la propria identità. È ineludibile: pensare è esercitare il bene, meglio si pensa più si è autentici, e più si è autentici – si capiscono le proprie emozioni e si conosce il mondo – più si esercita il bene per sé e per l’altro.
È folle pensare che l’autenticità sia acquisibile e praticabile perché imposta. Come il paradosso della spontaneità: si dice esplicitamente “sii spontaneo” e in quel momento si nega implicitamente la spontaneità dell’interlocutore, poiché egli dovrà pensare di essere spontaneo. Essere autentici è un processo non reificabile al di fuori del pensiero, quindi, in quanto pensiero e riflessione, si può esercitare ed educare ricercando sia i caratteri delle proprie passioni, sia le incontrovertibili relazioni – il pensiero complesso – con il mondo in funzione del bene comune.
15 marzo 2018