Il compassionevole non ha paura di afferrare e stringere la mano dell'altro, soprattutto nella difficoltà, diventando un tutt'uno con esso così da conoscere l'espressione della sua anima e condividerla. Chi commisera, invece, tende la mano senza instaurare un vero contatto, mantenendo una distanza abissale seppur apparentemente infinitesima.
Compassione e commiserazione sono definiti come sinonimi in diversi dizionari ed enciclopedie. In realtà dietro queste parole, apparentemente tanto simili, si nascondono significati profondamente diversi; infatti, mentre la compassione implica una totale complicità emotiva tra due o più persone, la commiserazione consiste in un atteggiamento contraddittorio che causa la degenerazione della compassione in ipocrisia.
Compassione deriva dal greco συμπάθεια che è composta da συμ cioè “insieme”, “con” e πάσχω che significa “soffrire”, “subire”. Una persona è compassionevole nei confronti di un' altra quando prova le sue stesse emozioni a tal punto da potersi immedesimare in lei, sia nei sorrisi che nelle lacrime. Solitamente i più inclini a provare tale sentimento sono coloro che riconoscono negli altri esperienze che vivono o che hanno vissuto, oppure chi è disposto ad ascoltare e cercare di comprendere situazioni che magari non ha vissuto in prima persona ma che vive attraverso gli altri. La compassione è una delle manifestazioni profondamente autentiche del concetto di umanità e del senso di appartenenza alla totalità in quanto rende esplicite le relazioni tra uomo e uomo: compatire equivale a essere partecipi e non solo spettatori all'altrui sentire.
« Atena: ― Il poter dei Celesti, Odisseo, vedi quanto sia grande. All'opere opportune, chi fu mai di costui più pronto o valido?
Odisseo: ― Io davvero non so; ma pur, di questo misero provo pietà, sebben mi sia nemico: ché nel gorgo piombò di tal iattura, né più del suo m'è noto il mio destino. Altro non siam, lo vedo, che fantasmi, tutti quanti viviamo, e ombre vane.
Atena: ― Poi che l'intendi, mai non dir parola contro i Numi arrogante, e non alzare troppa superbia, se di forze superi e questo e quello, e di ricchezza grande. Un medesimo giorno, atterra e suscita tutte le cose dei mortali. E i Numi amano i saggi, e aborrono i malvagi. »
(Sofocle, Aiace, 118-133)
In questi versi tratti dall'Aiace di Sofocle si narra la sventura di Aiace, il quale, ingannato dalla dea Atena, stermina una mandria di buoi credendo di massacrare l'esercito degli Achei per vendicarsi del torto subito da parte di Odisseo. Quest'ultimo, dopo aver assistito al modo in cui la dea si prende gioco del delirante, non dimostra gratitudine nei confronti di Atena sebbene ella gli avesse garantito l'incolumità, ma dichiara una sincera compassione per Aiace: entrambi sono mortali e inconsapevoli del proprio destino. Proprio per questo Odisseo, pur non avendo potuto impedire che Aiace si uccidesse dopo aver preso coscienza delle sue azioni, si trova a soffrire per il suo nemico come se anche egli fosse stato oggetto di scherno.
Il compassionevole non ha paura di afferrare e stringere la mano dell'altro, soprattutto nella difficoltà, diventando un tutt'uno con esso così da conoscere l'espressione della sua anima e condividerla. Chi commisera, invece, tende la mano senza instaurare un vero contatto, mantenendo una distanza abissale seppur apparentemente infinitesima. Ed è in questo che consiste il terribile paradosso insito nella commiserazione: la parvenza di volontà di instaurare un rapporto dimostrata tendendo la mano viene smentita dal rifiuto di afferrarla. Infatti il commiserante è solo ipocrita (dal greco υποκρύπτω, “nascondere sotto”), in quanto nasconde la sua apatica indifferenza e un atteggiamento di sprezzante superiorità, servendosi del valore nobile e puro della compassione per risultare ai propri occhi e a quelli degli altri migliore di come è in verità. Basti pensare a quante persone di fronte a una scena di sofferenza o difficoltà si accontentano di dire frasi come “poveretto...”, “mi dispiace...” per poi tornare ad occuparsi dei propri interessi, come coloro che, guardando in televisione i volti dei bambini vittime della povertà e delle guerre, simulano compassione per poi ridere allo spot successivo, dimenticandosi di ciò che hanno visto solo un attimo prima. Anche chi compatisce a volte dice le stesse frasi, ma con la differenza sostanziale di creare un legame tra spirito e spirito: non è tanto la vicinanza fisica a determinare il concetto di compassione quanto la riflessione che ci consente di immedesimarci negli altri così da diventare parte di loro. In questo modo è come se le parole che rivolgiamo a costoro fossero rivolte a noi stessi.
Il sommo filosofo Giacomo Leopardi esprime in un passo in prosa dello Zibaldone il concetto di compassione con toni talmente lirici e sublimi da farci versare copiose lacrime:
« Vedi come la debolezza sia cosa amabilissima a questo mondo. Se tu vedi un fanciullo che ti viene incontro con un passo traballante e con una cert'aria d'impotenza, tu ti senti intenerire da questa vista, e innamorare di quel fanciullo. Se tu vedi una bella donna inferma e fievole, o se ti abbatti ad esser testimonio a qualche sforzo inutile di qualunque donna, per la debolezza fisica del suo sesso, tu ti sentirai commuovere, e sarai capace di prostrarti innanzi a quella debolezza e riconoscerla per signora di te e della tua forza, e sottomettere e sacrificare tutto te stesso all'amore e alla difesa sua. […] la compassione che nasce nell'animo nostro alla vista di uno che soffre è un miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri […]. »
(Giacomo Leopardi, Zibaldone, 108,1)
3 marzo 2018