Risulta possibile conciliare le due visioni opposte della dignità, da un lato come conseguenza del proprio agire, dall’altro come condizione intrinsecamente umana?
Una tematica che coinvolge la sfera quotidiana della totalità delle persone in particolari situazioni della vita risulta senz'altro quella della dignità. Ciò che si palesa da un’analisi di quanto perlopiù si afferma a riguardo è che si ha un’idea caotica e non ben definita di questo termine, che prevede implicazioni pratiche e concrete non di poco conto. L’uso della parola "dignità" si dispiega, nel dialogo, soprattutto nella forma dell’aggettivo, in quanto non si cerca, prima di cimentarsi in un confronto, di definirne il concetto, ma si compie un salto, dialetticamente ingiustificato e privo di fondamenti, per approdare direttamente alle conseguenze di un atto, percepito come dignitoso o meno. Ci si avventura, dunque, in disquisizioni interminabili che non conducono mai a conclusioni condivise, in quanto non viene discusso il concetto stesso di dignità, bensì esso viene meramente applicato a situazioni singole e particolari. Ciò non significa che le situazioni concrete non possano essere d’aiuto nella riflessione sui concetti – quando si approfondisce il significato di un termine, le relazioni con la realtà in cui si vive determinano e riflettono sempre le proprie idee – bensì si intende sottolineare come risulti imprescindibile porre inizialmente come oggetto della questione il concetto stesso su cui si sta dibattendo. Cercare di definire un comportamento, un’azione o qualsiasi altro aspetto della realtà senza prima aver chiaro il significato stesso del concetto appare come tentare di raggiungere un luogo senza prima conoscerne le coordinate spaziali. Si procederà casualmente, sbagliando e continuamente ritentando strade e percorsi, magari avvicinandosi al luogo di interesse, ma mai raggiungendolo una volta per tutte.
Nel momento in cui ci si imbatte nel tentativo di definire il termine "dignità" bisogna far riferimento alle dottrine di pensiero che, nella storia, hanno tentato di considerare, da un lato la dignità come acquisizione personale per motivi di merito, dall’altro l’idea che essa risulti connaturata alla persona umana.
La prima concezione, tipica dell’età antica, risulta fortemente elitaria, dal momento che il soggetto di dignitas è l’eroe, ovvero colui che, attraverso le sue gesta, si rende immortale e supera la sua natura di brotós (mortale).
La convinzione che la dignità sia un carattere costitutivo della natura umana inizia a precisarsi a partire dal pensiero latino e, in particolare, proto-cristiano. L’uomo, essendo stato creato a immagine e somiglianza di Dio, possiede al suo interno quelle tracce di umanità che ogni singolo è chiamato a rispettare e conoscere.
Da questo passaggio si viene progressivamente a delineare il carattere intrinseco all’uomo della dignità, carattere che si tramuta giuridicamente in diritti da rispettare e garantire. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) così recita: «Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo. […] Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Gli stessi articoli della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata nel 1989, si fondano sul principio di garanzia di una vita dignitosa al fanciullo.
Entra così in gioco l’immensa questione che concerne il diritto e la sua natura. Come risulta oramai appurato, un diritto, per definirsi tale, implica un dovere da rispettare. Un uomo non può pretendere di vedersi riconosciuti dei diritti se lui stesso, per primo, non ne accetta i valori e non ne rispetta i doveri a essi associati. Il diritto si pone come elemento caratterizzato da forte interdipendenza, in quanto il suo totale rispetto e riconoscimento si dispiega attraverso la fondamentale relazione umana. Come si traduce tale principio nella questione della dignità? Essa viene definita come quella «condizione di chi (o di ciò che) è o si rende meritevole del massimo rispetto» (lo Zingarelli minore, 2016). Quel meritevole all’interno della definizione rinvia alla dimensione del dovere precedentemente accennata riguardo al diritto. Non si può ritenere la propria esistenza dignitosa se precedentemente non si sia cercato di condurre le vite altrui verso un maggior livello di dignità, raggiungibile attraverso l’educazione, il confronto, la comprensione. Il valore della dignità risulta essenzialmente connesso alla sfera morale dell’uomo, a sua volta intesa come condizione di vita caratterizzata dalla comprensione del Bene e dal rifiuto della contraddizione (morale, sociale, politica). Come potrebbe essere concepita positiva e dignitosa l’esistenza di un uomo che vive nella più totale e profonda delle contraddizioni?
Ecco, quindi, che gli Stati si occupano di fornire ai cittadini quegli strumenti per garantire la possibilità di raggiungere una piena condizione di dignità (in primis l’educazione), ma
non si può dare per certo e scontato aprioristicamente il raggiungimento di tale situazione. L’idea della dignità come valore inalienabile e intrinseco, sin dalla nascita, all’essere umano viene
a decadere nel momento in cui, chi ha ricevuto gli strumenti per migliorare la sua condizione, comunque non li utilizza al meglio per apportare benefici a sé stesso e alla società. Ci si guardi
bene, però, dal non far coincidere tale visione della dignità con la giustificazione di atti violenti e brutali nei confronti di chi non ha osservato tale principio. La garanzia, infatti, di
rispetto e accettazione del diritto è sempre e comunque la reciprocità. Chi tenterà di punire coloro che hanno vissuto all'insegna dell’incoerenza e del contraddittorio, facendo loro del
male, cadrà inevitabilmente nella stessa trappola e non potrà, quindi, raggiungere una condizione di dignità.
11 marzo 2018