Venerdì 16 e sabato 17 marzo, a Roma nell’aula magna dell’Angelicum si sono svolte le fasi finali delle Romanae Disputationes. Oltre 900 studenti e docenti da tutta Italia, suddivisi in più di 150 team, si sono sfidati attraverso elaborati scritti o video sul tema della bellezza. Oltre ai dibattiti filosofici Age contra, i ragazzi hanno assistito alle relazioni di professori universitari e al laboratorio di arte e filosofia curato dal giornalista ed esperto d’arte Giuseppe Frangi. Abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo circa il suo intervento sulla bellezza nell’arte contemporanea.
Intervista al giornalista Giuseppe Frangi, a cura di Gabriele Laffranchi
“La natura del bello” è il tema di questa V edizione di Romanae Disputationes. Viene quindi naturale chiedere: cos’è la bellezza e cosa la rende possibile?
La bellezza ha alcune condizioni che la rendono possibile. Deve essere “nuova”, nel senso che non può essere ripetizione di una forma e immagine che già esiste. Perché è necessario che sia nuova? Perché la bellezza si genera da un’esperienza, che può essere anche un semplice sguardo, e nessuna esperienza per definizione è replica di quello che è stato. Esperienza è esperire, percorrere terreni inesplorati.
L’essere nuova comporta anche una necessità di rischio, una possibilità di non trovare quello che si stava cercando. Essendo sempre necessariamente nuova la bellezza si presenta in forme impreviste. La bellezza non può mai essere quella che è stata, né quella che, date le esperienze fatte, immaginiamo debba essere quasi per trasmissione automatica. La bellezza quando appare contiene una cesura rispetto a ciò che è stato: per questo la bellezza ci stupisce. Non ci stupisce perché “è bella”, ma perché è qualcosa che non avevamo mai visto né sperimentato prima e che neppure avevamo messo nel conto.
E per l’arte contemporanea cosa vuol dire riproporre la bellezza? È vero che siamo in un periodo che non è più in grado di proporre cose belle?
L’arte contemporanea vive dentro il rischio della novità, e se anche tante volte l’esito può sembrarci distante dall’attesa che noi riponiamo rispetto all’arte, dobbiamo avere la consapevolezza che senza questo rischio non avremmo nessuna possibilità di vedere generata nuova bellezza. Questa è una costante dell’arte di sempre e anche l’arte contemporanea partecipa di questa dinamica.
L’arte contemporanea tante volte sembra prigioniera di una perversione che sembra portarla a rinnegare questa vocazione a rischiare verso la bellezza. È un fenomeno innegabile che va inquadrato dentro la grande fatica che il nostro tempo sta facendo nel darsi un senso. Un senso del tempo come della storia. È una fatica diffusa che porta a tante uscite di strada, ma è una fatica che non può essere risolta con formule a priori. È una fatica del volto di questo tempo, che va accettata e vissuta con dentro un anelito, come lo scrittore Vila-Matas, che, raccontando la sua esperienza a Documenta (la più importante rassegna di arte contemporanea che si tiene ogni 5 anni a Kassel, in Germania, ndr), scrive: «Era il desiderio di qualcosa di più. E il desiderio ci portava immancabilmente sempre a cercare il nuovo. E questo sforzo, questo anelito – iniziai a chiamarlo così- fu una cosa che mi appartenne da quelle estati di gioventù e continua ad appartenermi… L’anelito è la voce che parla per me quando mi domandano dell’arte. Perché? Perché intensifica il sentimento di essere vivi».
Quindi basta un semplice sforzo perché l’arte torni nella casa della bellezza dopo questo spaesamento?
C’è un fattore importante della bellezza che Henri Matisse ha spiegato con parole intense e indimenticabili: non è frutto di uno sforzo. Non è uno sforzo, ma semmai il lasciarsi andare che genera bellezza. È un affidarsi. «In arte, la verità, il reale cominciano quando non si capisce più nulla di quello che si sta facendo, di quello che si pensava di sapere», ha scritto il grande artista francese in Jazz. Quante volte sentiamo nelle parole dei grandi artisti del nostro tempo l’ammissione che nella produzione ad un certo punto avvertono che devono lasciare andare la mano! Che non si può pretendere di governarla. È in questa affidamento, che non ha spiegazioni né tanto meno formule, che la bellezza si presenta come “esperienza”.
Questa dinamica vale tanto per chi genera arte (l’artista), tanto per chi la guarda. Non si può essere semplicemente spettatori della bellezza. Si deve essere “presi”. Dice infatti quel finissimo osservatore dell’arte John Berger, che l’esperienza della bellezza non si genera dal nostro guardare, ma dallo stupirci di sentirci guardati da ciò che stiamo vedendo. Scrive: «La bellezza non è quel che vi piace, ma ciò da cui volete essere guardati! La bellezza è la speranza di essere riconosciuti dall’esistenza di quel che state guardando, e di esservi inclusi». Questo desiderio di essere guardati è un desiderio costitutivo della natura umana. Lo possiamo rintracciare in tante opere, per esempio un ritratto di Giacometti è unico non per le sue soluzioni formali affascinanti e ardite, ma per il suo porre lo sguardo sulla nostra vita.
Spesso si dice che sono belle solo le opera del passato, che sono paradigmi di bellezza. È vero? Come la storia cambia la percezione del bello sempre nuovo?
La bellezza è dinamica. Anche la bellezza senza “se” e senza “ma”, quella degli antichi, non è mai uguale a sé stessa. Oggi noi guardiamo Raffaello o Michelangelo con occhi diversi da quelli di qualsiasi altro tempo. La bellezza cambia quindi anche nella ricezione. È mobile anche quando sembra fissa per sempre dentro una cornice o sui muri di una grande edificio ricco di storia. Tant’è vero che a volte sembra eclissarsi agli occhi degli uomini: pensiamo al caso Caravaggio che prima stupì e sconvolse il suo tempo immettendo una bellezza mai vista prima. Poi per due secoli è stato quasi dimenticato. E oggi mette migliaia di persone in fila, senza che non ci sia alcuna capacità di leggere i soggetti che lui rappresenta. Il Caravaggio di oggi è un Caravaggio che non è mai stato visto prima.
Di fronte alle opere di arte contemporanea la prima impressione è di incomprensione e spesso anche la seconda o la terza. Qual è la chiave di accesso a questo linguaggio così rivoluzionario?
Bisogna scrollarsi di dosso il partito preso. Partire da semplici domande: perché tanti sentono il bisogno di fare arte in questo modo che a noi appare incomprensibile? Che cosa dicono questi oggetti rispetto al mio tempo? Ci vuole curiosità e pazienza. Quella spinta che ti porta a non scartare niente, se no dopo aver vagliato. L’arte contemporanea chiede di fare questo percorso. In fondo è anche un esercizio di umiltà, proprietà formativa per un mondo e una cultura che partono pensando di sapere già tutto. Mi permetto anche di dire che non esiste una categoria “arte contempranea” tutta d’un pezzo. È un mondo, e come in ogni mondo si trova di tutto. Ma se ci si chiude al mondo, non si potrà trovare niente.
Oggi ha parlato di fronte a oltre 900 ragazzi e docenti da tutta Italia, quale pensa che sia il messaggio che gli artisti contemporanei vogliano dare a questi giovani? A cosa ci invita il volto enigmatico del bello nelle loro opere?
La bellezza, oggi, è comunque un’esperienza vitale, anche se tante volte con risvolti indisponenti. Siamo in una fase della storia dell’uomo in cui il bisogno di creatività dei singoli è chiamato a coprire anche il vuoto lasciato dalle esperienze religiose tradizionali. La creatività è un modo molto soggettivo e anche molto aleatorio di sperimentare la dimensione del mistero. Creatività è sorpresa, è l’inatteso. Bisogna guardare sempre con molta magnanimità a queste esperienza di un’umanità, la nostra, così impoverita. Sapendo che essa desidera sempre esprimere l’anelito più alto della sua natura.
Da pochi giorni si è conclusa l’esperienza delle Romanae Disputationes 2018. Per la prima volta, quest’anno, ha partecipato anche lei: cosa l’ha colpita di più e qual è, secondo lei, il valore di questo progetto?
Mi ha colpito la voglia di uscire allo scoperto, di schierarsi rispetto a delle idee, che sono poi modi di sentire il mondo e la vita. Mi è piaciuta la spavalderia con cui ciò che poteva sembrare un esercizio di dialettica è diventata una difesa appassionata di un lavoro fatto insieme. Il valore sta in questo: spingere i ragazzi a essere protagonisti e non a stare a guardare. E poi mi è piaciuta l’idea dei team, che supera l’insopportabile idolatria dell’individualismo che domina il nostro tempo. Mi sembra un’esperienza che può essere pensata anche in altri ambiti. Anche l’arte. Perché no?
21 marzo 2018
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