Sulla morte

 

Chiedersi cosa sia l’uomo e quale sia il significato della sua esistenza implica pensare alla vita e spesso anche alla morte. Non se ne parlerà mai abbastanza, dal momento che si tratta della comprensione di se stesso che l’essere umano vuole raggiungere in quanto ente.

 

La morte si fa presente più o meno frequentemente nel pensiero di ognuno: come evento inaspettato, come oggetto di studio, come idea che segna un confine al quale si ha paura di volgere lo sguardo. Ma che cos’è la morte? È una prospettiva o piuttosto la fine di qualsiasi prospettiva? Si potrebbe asserire, biologicamente parlando, che essa rappresenti un cambiamento di stato, la cessazione delle attività di un corpo che perde la propria vita e si dissolve, ma non si annulla, poiché la sua materia viene a comporre qualcos’altro; anche se ciò non sembra rendere le cose molto più confortanti, si può affermare che, a rigor di logica, morire non significa sparire. Aristotele nel De Anima pensa la morte come la fine di quella determinazione specifica che un individuo vivente costituisce, ossia come la decomposizione della sua materia (corpo) che si verifica contestualmente alla perdita della propria forma (anima) a cui è legata indissolubilmente.  Perciò anche se la morte non è la cessazione dell’esistenza, ma piuttosto un cambiamento di stato, una trasformazione in altro, è vero tuttavia che con essa viene a mancare il soggetto vivente nella sua precedente, singolare e irripetibile determinazione.

Nikolaj Ge, "Achille e il corpo di Patroclo" (1835)
Nikolaj Ge, "Achille e il corpo di Patroclo" (1835)

Compiendo un salto temporale notevole, si può trovare un fertile terreno di indagine - per quanto riguarda il concetto di morte - nel Novecento, in particolare durante la Seconda Guerra Mondiale.
È negli anni precedenti alla sua scomparsa, avvenuta nel 1943, che la filosofa francese Simone Weil sente come ineludibile la necessità di affrontare con i propri scritti la situazione che caratterizzava il Vecchio Continente, segnato da una sanguinosa guerra che portava con sé l’incombente prospettiva della morte. Per farlo decide di analizzare il primo poema omerico, l’opera che lascia la più antica testimonianza di un conflitto armato nell’Occidente. In Iliade - Il Poema della forza, ella scrive:

 

« Per gli uomini la morte è un limite imposto in anticipo all’avvenire, per i guerrieri è l’avvenire stesso, l’avvenire segnato dalla loro professione.  [...]  Per essi il pensiero diviene incapace di passare da un giorno al suo domani senza traversare l’immagine della morte. »

                                                 

La Weil pensa la morte come orizzonte che certifica l’uguaglianza di tutti gli uomini. La Forza, il vero protagonista dell’Iliade, con la sua intrinseca fatalità, rende simili vincitori e vinti, oppressori e oppressi, perché prima o poi riserva a tutti la medesima sorte. Anche se una vita può sembrare più felice e valida di un’altra, anche se può essere invidiata e bramata da chi si trova nel dolore, l’imperio della forza si fa sentire su ogni singola esistenza, provocando sofferenza e segnando l’incapacità dell’individuo di resistere alla necessità degli eventi. La filosofa francese si vede costretta a conciliare l’amore per la vita, testimoniato a più riprese, con la difficoltà costitutiva che essa stessa comporta. Si tratta di un’interpretazione, quella di Simone Weil, sicuramente influenzata dalle proprie vicissitudini e da contingenze storiche drastiche; le va tuttavia riconosciuto il merito di aver teorizzato l’uguaglianza umana, se pur in una prospettiva di sofferenza. Se infatti la Weil pensa la vita a partire dall’idea della morte, in una dimensione di dolore e disagio, forse più produttivo e coerente sarebbe pensare la morte come una parte, non qualunque, della vita stessa. Essa è ciò che ricorda all’uomo di avere un tempo finito per fare le proprie scelte, per cercare il senso del suo esistere e quindi per agire secondo ciò in cui crede. La morte fa presente all’uomo che non c’è troppo tempo da sperperare, lo richiama all’ordine rammentandogli il suo dovere di migliorarsi e migliorare la società in cui vive e che lascerà ai propri figli. Un uomo che non fosse destinato a morire perderebbe il senso del valore dei suoi gesti e delle sue relazioni, probabilmente cadrebbe in uno stato di totale accidia e pigrizia. La morte invece costituisce la prospettiva che spinge a vivere pienamente la propria esistenza, con la consapevolezza che se l’uomo - inteso come singola determinazione dell’essere - necessariamente perirà, le sue azioni saranno eterne. Ognuno infatti viene determinato nel corso della sua vita, più o meno consapevolmente, da tutto ciò che lo ha preceduto e da ciò che accade intorno a lui, e al contempo determina con il suo agire ciò che avverrà; in una tale trama di relazioni la morte è sì la fine delle singole determinazioni, ma è anche parte di un processo eterno. Acquisire coscienza di ciò significa iniziare un percorso di vita che realizza la comprensione di ciò che si è nel senso più profondo.

Baruch Spinoza
Baruch Spinoza

Baruch Spinoza, che in tal senso deve essere considerato un assoluto maestro, a conclusione dell’Etica scrive: « L’ignorante, oltre ad essere sballottato qua e là in molti modi dalle cause esterne, vive quasi inconsapevole di sé e appena cessa di patire, cessa pure di essere. Il Sapiente invece difficilmente è turbato nel suo animo poiché, essendo consapevole di sé, non cessa mai di essere e possiede sempre la vera soddisfazione. »

La paura della morte è sicuramente difficile da estinguere, sarà sempre una costante che avrà posto nell’animo umano; ma vi è una differenza abissale tra chi la affronta in solitudine giungendo a disprezzare la vita, e chi trova la forza e la saggezza per comprenderla come parte di una realtà più grande di sé, nella quale è chiamato a recitare al meglio il proprio ruolo.

 

9 marzo 2018 (pubblicato per la prima volta il 21 febbraio 2017)

 




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