La triste vicenda che ha catturato l’attenzione delle cronache degli scorsi mesi sugli arresti domiciliari del sindaco di Riace, Domenico Lucano, sembra ricalcare antichi passi della storia degli uomini.
« Piccola roccia respinge gran flutto » (Odissea, III, 296)
Intorno al caso Riace, nei mesi scorsi, sono fioriti commenti dei più disparati, molti dei quali non avevano alcuna attinenza con la realtà dei fatti. Tutto e il contrario di tutto è stato detto contro l’iniziativa del sindaco di Riace di accogliere dei rifugiati nel suo appena rinato paese. Un uomo porta con sé, nel risultato delle sue azioni, il peso della Storia, della sua storia e di quella di chi lo circonda, ed ogni sua azione ha un rimando profondo nella tradizione del luogo dove abita. E la tradizione non è altro che un tramandare valori umani nei quali da secoli l’uomo riconosce le regole basilari per un corretto comportamento civile.
« Nella sfera politica, la vera differenza tra un uso critico ed un uso ideologico delle passioni non sta tanto nella distinzione fra passioni positive o negative, tristi o gioiose, ma in quella fra passioni che spingono a una soddisfazione puramente individuale e passioni che hanno come fine il desiderio di costruire connessioni. » (P. Ginsborg, S. Labate, Passioni e politica)
Il 16 agosto del 1972, lungo la costa del mare Jonio calabrese, presso Riace Marina, in provincia di Reggio Calabria, furono rinvenute, alla profondità di soli 8 metri, due statue di guerrieri greci, meglio conosciute come “I bronzi di Riace”.
Una delle tesi più accreditate, avvalorata soprattutto dallo studio dei materiali ritrovati all’interno delle statue bronzee e dal ritrovamento, nell’area limitrofa al fondale marino dove giacevano le statue, di resti di chiglie di navi di età romana, tardo romana, o anche di età più recenti, è quella che ritiene che le statue facessero parte di una refurtiva, che fossero cioè state prelevate in Grecia da qualche monumento importante e che stessero per essere trasportate altrove. Ma un naufragio deve avere interrotto i piani dei trasportatori. Tra le varie ipotesi formulate c’è anche quella che la nave che trasportava le statue abbia fatto naufragio nell’antichità davanti alle coste greche e che, in tempi molto più vicini ai nostri, esse siano state clandestinamente portate in acque italiane. Qualunque sia stato il reale contesto in cui i Bronzi di Riace si sono trovati a viaggiare, li possiamo definire anch’essi dei veri e propri profughi, vittime di una trasmigrazione forzata via mare, dovuta sicuramente ad un gusto estetico per l’arte e la sua fruizione, che oggi manca perché manca quasi del tutto l’opera d’arte vera e propria (le numerose installazioni luminose e sonore che si camuffano da opera d’arte sono ormai l’esempio più diffuso di questa deleteria trasformazione), che era però finalizzato al soddisfacimento di un piacere personale, spesso volto ad incrementare la visibilità della persona che ne desiderava il possesso con uno scopo squisitamente di ricerca del successo politico individuale.
Lo studioso di arte antica Paolo Moreno (P. Moreno, I bronzi di Riace. Il maestro di Olimpia e i sette a Tebe, Mondadori Electa, 1996) ha dato un’interessante interpretazione delle due statue bronzee, che ormai con certezza si fanno risalire al V secolo a.C., definendole parte di un gruppo statuario più grande, probabilmente quello che in ambito della statuaria classica viene definito “donario”, posto ad Argos, nel Peloponneso. Il donario doveva con ogni probabilità rappresentare i famosi “Sette a Tebe”. Il mito dei “Sette a Tebe” appartiene al ciclo mitologico della città di Tebe: la loro storia è magistralmente raccontata dal grande tragediografo ateniese del V secolo a.C. Eschilo, nell’omonima tragedia I sette a Tebe scritta nel 467 a.C., dove gli elementi portanti, la stirpe, l’individuo e lo Stato, si scontrano ferocemente e tragicamente, poiché “il potere logora il cuore”.
Secondo Moreno, la figura del Bronzo A sarebbe da identificare con l’eroe Tideo, bramoso di lotta, che grida come un drago (I sette a Tebe, v. 381), e quella del Bronzo B, invece, sarebbe da identificare con l’indovino Amfiarao, l’unico che aveva caldamente sconsigliato la spedizione degli Argivi contro Tebe, ma che infine vi aveva partecipato per non essere disonorato. Egli non portava alcuna insegna disegnata sullo scudo, perché non voleva apparire un grande eroe, ma esserlo (I sette a Tebe, v. 592).
Sette giovani Argivi attaccano la città di Tebe, colpendola alle Sette porte, sotto la guida di Polinice, tebano e fratello del re di Tebe, Eteocle, che lo ha reso clandestino usurpandogli il trono che gli sarebbe spettato.
I due fratelli si affrontano in battaglia e muoiono entrambi. Chi seppellirà il corpo del fratello tebano definito clandestino e nemico alla patria? Lo farà la loro sorella Antigone, come è narrato nell’omonima tragedia, del 442 a.C., scritta dal grande poeta ateniese di poco più giovane di Eschilo, Sofocle. Antigone viola le leggi della polis che vietavano la sepoltura di coloro i quali erano considerati traditori della patria, e dà clandestinamente sepoltura al fratello che giace fuori dalle mura della città. La legge della famiglia, cioè la legge dell’umanità, è più valida e più forte di quelle della polis per un’eroina come Antigone che ha avuto il coraggio e la forza di accompagnarsi, lei sola, all’individuo più peccaminoso che ha camminato sotto il sole, suo padre Edipo. Lei nata per condividere non l’odio ma l’amore (Antigone, v. 523): non può più rispettare regole che non rispettano la dignità dell’uomo e il valore sacro del legame di sangue.
La triste vicenda che ha catturato l’attenzione delle cronache degli scorsi mesi sugli arresti domiciliari del sindaco di Riace, Domenico Lucano, sembra ricalcare antichi passi della storia degli uomini. Riace è un paesino sulle propaggini dell’Aspromonte che si affaccia sulla costa ionica; uno dei tanti splendori una volta, orrori edilizi, tristezze e solitudini adesso, di quella che, in un tempo glorioso, è stata un’eparchia bizantina, una ricca e produttiva terra di Calabria sotto il dominio o meglio il governo bizantino, che durò quasi mille anni, considerato anche il periodo di romanizzazione. In questo periodo le vallate intorno a Riace, come in tutto l’Aspromonte, solcate da fiumare, come il Riace (che in greco significa “piccolo torrente o fiumiciattolo”) che scorre sulla sponda sinistra del paese, accolsero monaci bizantini, uomini di fede, famiglie cristiane di Santi, che scappavano dalla Sicilia attaccata dai Saraceni, o che viaggiavano dal Mediterraneo orientale, molti dalla Siria, o che erano oriundi proprio della Calabria. Fu allora un fiorire di attività di preghiera e di vita da buon cristiano che caratterizzò moltissimi dei nostri paesi, che ancora oggi, pur nella loro desolazione e sotto un’apparente patina di noncuranza, ricordano e portano il segno di questo splendore nell’atteggiamento di devozione della gente ai luoghi santi, nel modo di rapportarsi con gli ospiti, di fare festa, di accogliere.
Ho conosciuto Domenico Lucano, Mimmo per gli amici, moltissimi anni fa. Allora Riace era diventata il centro della sperimentazione di un grande progetto, Riace città futura, portato avanti da Banca Etica di Padova, che si poneva come obiettivo quello di ridare vita ai piccoli paesi meridionali. Così Riace è rinata, le sue case abbandonate hanno ritrovato vita, il paese ha scoperto la sua antica anima. In un primo momento Riace ha accolto turisti, soprattutto italiani, che hanno potuto godere di una splendida vacanza in collina, di un mare a portata di pochi chilometri e di tramonti sulla vallata della fiumara con un paesaggio che per me è magico e di fronte al quale mi sono spesso incantata, dopo aver risalito a piedi la fiumara dalla marina, in compagnia di mio padre, mio marito e altri amici. Una piazzetta del paese di Riace si affaccia proprio su un abisso, che ha come pareti colline arenarie con grotte presso le quali trovano rifugio greggi di caprette e pecorelle. Verso sera le greggi si ritirano su queste colline e a guardarle sembra di contemplare la scena di un presepe, mentre un profumo intenso di campagna inebria le narici. Le sere d’estate Mimmo organizzava una sagra di paese. Con soli dieci euro era possibile gustare le delizie della cucina locale, percorrendo a piccole tappe tutte le viuzze e i vicoli più nascosti, dai quali, spesso, si poteva contemplare la luce della luna che si alzava alta sul mare.
Poi Riace si è popolata di profughi. Prima, se non ricordo male, sono arrivati i curdi, e poi, a poco a poco, gli altri popoli. L’accoglienza di questa gente nel piccolo paesino è stata una benedizione. I vicoli si sono animati, le campagne hanno ricominciato ad essere lavorate, le case a riempirsi di voci. Ognuno con la sua dignità etnica, ognuno con le sue paure, le sue domande esistenziali e il sorriso per aver trovato un luogo umanamente accogliente dove stare.
Non conosco i percorsi che sono stati seguiti per formalizzare queste accoglienze, ma conosco Mimmo e la sua generosità. E non potrò mai dimenticare una frase che mi ha colpito durante una delle tante sue conversazioni con mio padre, un pomeriggio di tarda estate, mentre eravamo seduti a mangiare granita di limone affacciati nell’abisso: «professore, la mafia ha occupato tutto, anche gli spazi etici». La sua voce era quella di un uomo afflitto, ma non piegato. A lui va tutta la mia riconoscenza, tutto il mio sostegno, tutta la mia stima.
«Ci sono due stranieri, o Menelao, prole di Zeus/ sono due: assomigliano alla stirpe del grande Zeus./ Dimmi tu se dobbiamo sciogliere i loro veloci cavalli,/ o mandarli da qualchedun altro che li possa ospitare»/. «Di certo, Eteoneo, figlio di Boetoo, non eri uno sciocco/ una volta; ma ora parli da sciocco, come un bambino./ Prima di giungere qui molte volte noi due mangiammo/ il pane degli altri, fiduciosi. » (Odissea, IV, 26-34)
30 novembre 2018