L'epoca nella quale viviamo ha innalzato l'individualità ― e la sua realizzazione ― a unico metro di paragone in campo etico. Sia pur impossibile una azione completamente anti-egoistica: impossibile invece non è un comportamento che realizzi il Sé nell'Alterità.
« Hanno ragione Socrate e Platone: qualunque cosa faccia, l’uomo fa sempre il bene, vale a dire: ciò che a lui sembra bene (utile), a seconda del grado del suo intelletto, del livello a cui ogni volta giunge la sua razionalità. » (F. Nietzsche, Umano troppo umano)
L’idea, qui esposta da Nietzsche, di una ricerca e attuazione del bene – o ciò che si ritiene esser tale – in ogni azione umana è stata spesso presente nella storia della filosofia: molti studiosi hanno già visto in Schopenhauer, o addirittura in Hobbes, una teoria simile:
« La felicità è un continuo progredire del desiderio da un oggetto ad un altro. […] Cosicché pongo in primo luogo, come una inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l’altro che cessa solo nella morte. […] perché [l’uomo] non può assicurarsi il potere e i mezzi per viver bene, che ha al presente senza acquisirne di maggiori. » (T. Hobbes, Leviatano)
Oggi la tesi ritorna con la ripubblicazione di testi come La filosofia dell’egoismo di James Walker, del 1905. Questo concetto si è sviluppato in psicologia con il nome di “egoismo psicologico”, riassumibile così: l’individuo è sempre mosso da interessi personali, anche in azioni che comunemente definiremmo “altruiste”. Perché allora compiere queste azioni?
Quando le facciamo – direttamente o in direttamente – ci aspettiamo di ottenere qualcosa. Partiamo da un presupposto: ogni azione umana ha una causa (ed un fine), altrimenti non sarebbe compiuta. Esempio: se non avessi bisogno del telecomando per qualche motivo – accendere il televisore, oppure semplicemente per tenerlo in mano – non mi alzerei per prenderlo.
D’altronde questo è un principio caro alla fisica classica: il movimento ha sempre un “motore” e tende un corpo sempre verso uno stato da raggiungere, altrimenti il corpo stesso resterebbe in quiete. Al di là di questo esempio intuitivo, possiamo immaginare questa tesi nella nostra vita quotidiana: immaginiamo di essere all’entrata di un supermercato, di fronte a noi un senzatetto chiede qualche spicciolo per poter mangiare qualcosa. Noi prendiamo una moneta da 2 euro e la porgiamo alla persona bisognosa e – nel compiere questo gesto – sentiamo una sensazione di benessere. Avremmo compiuto questo gesto senza quella sensazione successiva? Probabilmente no. È evidente che una azione altruistica, totalmente disinteressata, sia impossibile e resti una idea utopica: nel mondo reale gli interessi permeano ogni azione umana. Ma questo non significa giustificare ogni azione e legittimare ogni forma di egoismo.
Walker infatti sottolinea l’accezione positiva dell’egoismo come «teoria della volontà dell’ego a un determinato movente», ovvero come soggetto recettivo e capace di plasmare volontariamente un mondo.
« Se il mio gesto nasce della mia percezione di ciò che per me ha valore e serve al mio onore e alla mia dignità, se è filtrato dalla mia coscienza o subcoscienza, e se è per me concime e fioritura e frutto del mio sentimento, del mio intelletto e della mia volontà, allora esso è egoistico. » (J. Walker, Filosofia dell’egoismo)
Già l’aforisma di apertura nietzschiano contiene una indicazione fondamentale che andrebbe ulteriormente approfondita: «a seconda del grado del suo intelletto, del livello a cui ogni volta giunge la sua razionalità».
Quindi sulle nostre spalle grava una responsabilità fondamentale: quella di educare la nostra razionalità a valutare con la massima attenzione possibile – attraverso la riflessione intellettuale e il confronto dialogico – quale sia il vero bene.
Anche un terrorista riterrà che la jihad sia il vero bene, così come la droga per un tossicodipendente. Ma sta a noi dimostrare – ed ascoltare, perché questa è la logica biunivoca del dialogo – perché queste forme non rappresentino in realtà un vero bene: la tossicodipendenza ad esempio provoca più sofferenza da astinenza che piacere, relegato a pochi istanti fuggevoli.
L’interesse personale, sempre presente nell’azione rivolta all’altro, non mette quindi sullo stesso piano ogni azione. Al contrario, ci rende consapevoli della possibilità di essere felici nella felicità dell’altro.
E questa idea può valere anche in politica: utopicamente, lo stato sociale perfetto è quello in cui sia riconosciuto che il bene di ciascuno di noi implica il – ed è implicato dal – bene di tutti gli altri.
12 novembre 2018
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