Vivere nella conoscenza, dunque vivere, per essere, davvero, uomini.
Un paese. Un'osteria. Due tavoli con due gruppi di amici parte per parte a festeggiare. Un uomo solo nella via. Si fa coraggio, varca la soglia, finalmente trova un po' di caldo dal momento che è tutta la sera che cammina al freddo. Ha tra le mani un grande mazzo di rose, stringe forte i loro gambi, ha paura, paura di altra vergogna, di altre risate "sputategli" contro, di sguardi di disprezzo, di parole infami pronunciate alle sue spalle. In testa porta un cerchiello con delle antenne rosse luccicanti. Ha la pelle color cioccolato, gli occhi rossi e umidi: un tipico venditore di rose. Vende rose, ma per un briciolo di pietà e quattro soldi vende anche la sua dignità.
Attorno al tavolo, in fondo all'osteria, siedono molti ragazzi tra i venticinque e i quarant'anni; stanno festeggiando il compleanno di un loro amico, bevono, mangiano, scherzano, ridono anche del “nulla”, ma soprattutto comprano con disprezzo quella dignità che l'uomo sta offrendo loro con rassegnazione.
Chi è quell'uomo? E chi sono quei ragazzi?
Lui, forse, un delinquente, che chissà per chi lavora, per cosa; una persona magari malvagia, che si approfitta degli altri, ottiene i loro soldi attraverso la pietà; e con i soldi ottenuti cosa potrà mai fare? Probabilmente spaccio, sfruttamento minorile, e ci sarebbe una lista di cose che occuperebbe ben oltre lo spazio per quest'articolo. Oppure è semplicemente un uomo, che per mantenere la sua famiglia coltiva rose e poi le vende per guadagnare qualcosa; un uomo scappato dal suo paese in guerra, che con ancora un frammento di speranza riesce, nella violenza, a raggiungere una terra che credeva nei suoi sogni essere giusta. Purtroppo, però, conta le persone buone sulle dita della mano e allora la vendita della propria dignità arriva in un battito di ciglia ricordandoci, con lacrime agli occhi, il personaggio di Fantine, nato da quella grande mente quale era quella di Victor Hugo da cui scaturiscono tali parole ne I Miserabili:
« Cento franchi, pensò Fantine. Ma qual è il mestiere con cui si guadagnano cento soldi al giorno? “Andiamo!”, si disse, “vendiamo anche il resto”. La sventurata divenne prostituta.
Che cos'è questa storia di Fantine? È la società che acquista uno schiavo. Da chi? Dalla miseria. Dalla fame, dal freddo, dall'isolamento, dall'abbandono, dall'indigenza. Mercato doloroso. Un'anima per un pezzo di pane. La miseria offre, la società accetta. »
E i ragazzi invece? Mah... Giovani qualunque, che troviamo in ogni dove; sembrano essere stati prodotti in fabbrica, tutti uguali in apparenza, con la personalità nascosta da una montagna di superficialità; ragazzi forse incompresi, che hanno sempre vissuto con l'idea del guadagno, del “quello ha tanti soldi, forte quello, anch'io sarò così”, e infatti non serve essere poveri per “avere bisogno” di denaro: nella nostra maestosa società capitalista vali in base a quanto vendi o compri; ragazzi ansiosi, con un passato anch'essi difficile: non saranno scappati dalla guerra, ma magari dalle liti continue dei genitori, che non hanno saputo trasmettere nient'altro se non soldi e rabbia, dalla paura del fallimento, dall'ansia di ogni giorno passato a capire cosa in realtà vogliano essere e non ciò che viene loro imposto. E così cercano anch'essi una terra di pace ma non la trovano perché l'unica via che è stata loro insegnata è quella della competizione, dell'essere forti sugli altri, del vincere a tutti costi, umiliando.
Nutrirsi di fievolezze, perché troppo duro, troppo pesante affrontare l'oggi. Umiliare gli altri per sentirsi forti. E ciò lo si vede nelle case, nelle scuole, per via.
È agghiacciante e sempre più insopportabile essere spettatori o peggio ancora vittime di così grande crudeltà; una crudeltà che nuoce ovviamente anche a chi la produce ma che per ignoranza non si rende conto. Un'ignoranza che ci rende legati alla miseria e che produce nella società ogni tipo di sofferenza.
Il mondo del mercato costruito su uno semplice e spaventoso fondamento: domanda e offerta. Se c'è chi vende vuol dire che c'è chi compra. Qui, però, non si sta dicendo che il denaro è la causa di ogni male, che è meglio vivere senza, perché sennò saremmo come quegli operai di cui parla Marx: coloro che distruggevano le macchine pensando in questo modo di poter sconfiggere il capitalismo, quando invece secondo Marx era contro il capitalista che era necessario puntare il dito e non rompere quelle macchine che potevano risolvere molti problemi.
È indispensabile vivere cercando di conoscere il più possibile, di criticare nel senso vero e magico che racchiude questo termine, non rimanendo legati a una sola prospettiva ma girando lo sguardo. La conoscenza contro l'ignoranza appare, per esempio, nel film di Luc Besson Lucy nella scena finale: il sacrificio di lei per la conoscenza contro l'ignoranza di coloro che volevano ucciderla e che vivevano esclusivamente per il proprio tornaconto.
Lucrezio ci aiuta a capire ancora meglio. Egli, nel De rerum natura, esalta la vittoria della scienza, dell'ingegno contro la superstizione, contro una religione, contro un pensiero sbagliato, frutto della tradizione e insidiatosi nelle menti degli uomini a causa dell'ignoranza; ma grazie a Epicuro, nel caso di Lucrezio, e grazie proprio alla conoscenza, nel nostro, gli uomini si possono innalzare, tendere a qualcosa di più, conquistare una dignità perduta.
« Quando, alla vista di tutti,
miseramente prostrato giaceva in terra l'umano
genere sotto una tetra superstizione, che il capo
tendeva dalle celesti plaghe, incombendo sugli uomini
terrificante a vedersi, un Greco osò per il primo
figgerle contro i suoi occhi mortali, osò per il primo
resisterle. E non le favole dei numi, e non lo atterrirono
i fulmini, e non il cielo col minaccioso rimbombo:
anzi gli stimolan tanto l'ardente ingegno che agogna
per sé la gloria d'infrangere, primo, i serrami che sbarrano
le porte della natura. E vi perviene, col vivido
ingegno, e con l'intelletto corre l'intero universo,
in lungo e in largo, ben oltre le fiammeggianti muraglie
del cielo, e trionfatore riporta a noi, di ritorno,
che cosa possa aver vita, che cosa invece non possa,
e per qual legge abbia un limite ed abbia un termine fisso
al suo potere ogni cosa. » (traduzione di Balilla Pinchetti)
È così facile essere guidati dagli altri, non fare fatica, come denuncia e ci insegna Kant in Risposta alla domanda: Che cos'è l'Illuminismo:
« La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea, rimangono ciò nondimeno volentieri per l'intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. […] A prezzo di qualche caduta, essi imparerebbero finalmente a camminare: ma un esempio di questo genere li rende paurosi e li distoglie per lo più da ogni ulteriore tentativo. È dunque difficile per ogni singolo uomo lavorare per uscire dalla minorità, che è divenuta per lui una seconda natura. Egli è perfino arrivato ad amarla e per il momento è realmente incapace di valersi del suo proprio intelletto, non avendolo mai messo alla prova. Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una eterna minorità. »
È nostro compito “recuperare quella vita che ci è capitata tra le mani”, vivere, non sopravvivere andando avanti per inerzia.
Non ci stiamo rendendo conto che viviamo in una grande industria? Che la nostra società si sta riducendo a essere, o meglio che noi stiamo costruendo, un'industria? Persino gli ospedali: pazienti ridotti a oggetti che si sono rotti, nei quali bisogna risolvere il problema al meglio e in poco tempo. Produrre, guadagnare, divertirsi. Ma non è forse che vivere implichi uno sforzo maggiore? Responsabilità, sacrificio, bene?
E come si è arrivati fin qui? Sembra davvero che chi si sia sacrificato per noi, tutti coloro che hanno combattuto per far sì che i posteri potessero vivere meglio, potessero trarre insegnamento dai loro discorsi, dalle loro azioni, tutto questo sembra sia stato vano... Ma può essere? Non ci sentiamo responsabili non solo per il presente, o per il futuro ma anche per il passato? Se ci rifiutiamo di comprendere ciò che è stato, se continuiamo a vivere nell'ignoranza perché “fa comodo”, sorge una domanda: come possiamo pensare di avere compassione del prossimo e che le cose possano cambiare in meglio? L'unica speranza da cui possiamo trarre linfa sta nel fatto che il bene in quanto tale vincerà sempre sul male; il problema è trovare il coraggio di vivere davvero!
Ecco allora che da una scena in un'osteria si possono trarre molteplici sfumature di quale sia, in media, il volto umano d'oggi. E quest'articolo vuole proprio cercare di “denunciare” uno dei tanti risultati del nostro presente. Non sappiamo davvero chi siano quei ragazzi o quell'uomo: si è cercato di portare delle ipotesi; ma quello che si vuole sottolineare è ciò che è accaduto. E proprio perché oggi si dà importanza a ciò che è fatto, il risultato, ciò che è stato prodotto, allora si chiede se siamo soddisfatti di ciò. Questo è solo un piccolo episodio in mezzo a un oceano di sconfitte da parte dell'uomo, di quell'uomo che invece di perdersi nel fatuo può essere anche quel grande uomo che attraverso l'ingegno comprende finalmente la sua natura e si eleva facendo ciò per cui è nato: il bene!
14 novembre 2018