Non è rara l’idea secondo cui – se non c’è un Dio che ci giudica, un inferno da evitare – la giustizia non è poi qualcosa di così importante da attuare. Che, entro certi limiti, è utile per evitare l’anarchia, ma che, se c’è l’occasione di barare, non è certo così necessaria. Si può considerare vera quest’idea?
Si dice di non fare il male; che fregare l’altro prima o poi diventerà un boomerang su se stessi; che non si può sempre farla franca. Ma se invece non fosse vero? Se qualcuno riuscisse a violare le leggi della società a favor suo, senza esser beccato?
Quante volte non si pensa che si avrebbe fatto diversamente da quanto dice la legge, se solo si fosse stati sicuri di non essere beccati? E se tutti fossero certi di poter rapinare una banca senza aver danno alcuno, quanti non lo farebbero?
Si potrebbero fare molti altri esempi e molte altre domande, ma il concetto è sempre quello: sovente si collega l’idea di fare il bene a quella di evitare una punizione o ottenere un premio. Si agisce bene in comunità perché mai si può evitare un certo controllo degli altri; si afferma pure che bisogna essere tendenzialmente onesti per evitare l’anarchia – una situazione che, alla fine, colpisce negativamente pure se stessi. Quindi sì, aiutiamoci; però, se mai sembra ci sia occasione di barare senza rischio, in fondo non è proprio così male ogni tanto. Se non c’è pericolo di ricevere punizioni, perché non fare quel che si ritiene buono per sé?
Qua Spinoza avrebbe da ridire parecchio. Nella penultima proposizione dell’Etica, ricorda che:
« I più, infatti, a quel che pare, credono di essere liberi nella misura in cui è lecito obbedire alle proprie voglie, e di rinunziare al proprio diritto in quanto sono obbligati a vivere secondo la prescrizione della legge divina. Ritengono, dunque che la Moralità e la Religione, e, assolutamente parlando, tutto ciò che si riferisce alla Fortezza d’animo, siano dei pesi che sperano di deporre dopo la morte, per ricevere il premio della loro schiavitù, cioè della loro Moralità e della loro Religione. »
Molti cioè, al suo tempo, ritenevano che il proprio bene fosse “far quel che piace”, ma che, data la presenza di un Dio giudicatore, bisognasse rispettare i fastidiosi decreti divini. Di conseguenza, se questo peso non ci fosse,
« essi ritornerebbero alla loro maniera originaria di sentire, e vorrebbero governare tutto secondo le loro voglie. »
E allora, nel mondo senza Dio del XXI secolo, perché mai andare contro le proprie voglie? Si potrebbe anche sfruttare bambini in fabbriche malandate e senza controlli, pagandoli un nulla, se ciò portasse guadagni, o no? Tanto già si fa.
Eppure, qualcuno affermerebbe che ci sono dei limiti a quel che si fa. Che certe cose sono inaccettabili. Ma allora, o si accetta che una cosa non si fa perché è immorale – perché, una volta che ne riconosci il disvalore, non la puoi più accettare, perché ti distrugge dentro –, oppure si rinuncia a vietare le cosiddette nefandezze di chi riesce a farla franca.
Questo è il problema: non ci si rende più conto che ciò che veramente rende felici, ciò che conta, è l’azione che ha valore, che non distrugge i fondamentali valori umani. Se uno dei capitalisti col prosciutto sugli occhi si rendesse realmente conto – non solo a parole, che quelle non bastano – delle sofferenze dei bambini che sfrutta nel terzo mondo, difficilmente riuscirebbe a fare quel che perpetra. Nel momento in cui riconosco valore in una cosa – una vita dignitosa, la possibilità di sviluppare i propri talenti, ecc. – non riesco più a negare quello stesso valore agli altri, perché so che sto infangando gli stessi ideali in cui credo.
E non sarà più una fatica sopprimere quelle voglie che ci portavano in direzione opposta alla morale, una volta capito ciò:
« La beatitudine non è il premio della virtù, ma la virtù stessa; e noi non ne godiamo perché reprimiamo le nostre voglie; ma, viceversa, perché ne godiamo, possiamo reprimere le nostre voglie. » (Spinoza, Etica)
Nel momento in cui si capisce cosa è la virtù, non si può far altro che attuarla, perché in essa si ripone la propria felicità, che è la coscienza di fare ciò che si ritiene essere il bene (e, in tal senso, gli errori che prima si compivano, li si facevano proprio perché si ritenevano cose buone). E, dunque, cercando di esplicitare la cosa ancor meglio: non c’è neppure più una voglia da sopprimere, perché è scomparsa dai propri interessi.
Concludendo, lascio il grandissimo filosofo olandese rispondere ad un’altra obiezione – quella di chi dice che, se prima o poi la vita finisce, non ha poi senso fare il bene, visto che tanto tutto alla fine svanirà nel nulla:
« Il che non mi sembra meno assurdo che se qualcuno, perché non crede di poter nutrire il suo Corpo in eterno con buoni alimenti, volesse saziarsi piuttosto di veleni e di sostanze mortifere; ovvero, perché crede che la Mente non è eterna ossia immortale, preferisce per questo essere pazzo e vivere senza ragione: cose talmente assurde che a malapena meritano di essere evitate. » (Ivi)
26 ottobre 2018
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