È il caso di chiedersi se questa sia effettivamente da prendere come parola d'ordine per l'educazione di ragazzi e ragazze che dovranno costruire una società
più giusta dell'attuale, o se sia una mera comodità per l'educatore ma soprattutto per loro stessi.
Entrare in un museo di guerra è un po’ rischioso per via di tutti quei cimeli, ritrovati sui campi di battaglia e nelle rimesse, che suscitano tali fantasticherie su chi li usò da immedesimarsi a distanza di anni nelle loro condizioni.
Lo è ancora di più soffermarsi davanti alle pareti tappezzate di fotografie dell’epoca in cui i paesaggi carsici delle Prealpi venete fanno da sfondo a scene di ogni tipo, da quelle di combattimento e distruzione a quelle di riposo e ricreazione, dove soldati piuttosto giovani si mettono in posa diversa a seconda della stagione e dell’esito dell'assalto. Il rischio più grosso è quello di sentirsi alle spalle un commento del tipo « Ai giovani d’oggi ci vorrebbe un po’ di questo, per imparare a dire signorsì! ». Pochi giorni fa ricorreva il centenario della fine di quell’Inutile strage che per Benedetto XV è stata la Grande Guerra, un’occasione molto sentita nei luoghi segnati dalle trincee del fronte e resi famosi dalle vicende eroiche e nefaste di quegli anni. Su queste nasce sempre un dibattito spontaneo dai diversi riflessi ― che sono talvolta drammatici, altre volte nostalgici e intrisi di eroismo epico, altre ancora analitici ― volto a confezionare un resoconto storico e culturale di quegli avvenimenti. Questi si mescolano inevitabilmente in un giudizio complessivo del fenomeno, ma accade raramente che ciascuno di essi sia correttamente soppesato e si incastri bene nel rompicapo che si tenta di risolvere; è allora che nascono convinzioni di cui sopra, a dir poco superficiali ma, forse per questo, ben radicate più di quanto si possa pensare.
Non è così poco diffusa l’immagine della guerra come scuola di vita, esperienza buia ma anche di formazione per animi deboli che necessitano di rinvigorirsi venendo inseriti in una dimensione di difficoltà estrema, di costrizione all’obbedienza che li fa rigare dritto e li abitua ad adattarsi alle controversie che la vita riserverà; questi considerati tutti aspetti positivi anche del servizio militare dopotutto, che ritorna anche nell’ultimo periodo ad animare i dibattiti politici.
Il problema è che fin da subito, specialmente spostandosi un metro più in là davanti alla foto di un soldato riverso su un fianco, esanime nel mezzo di un prato costellato di crateri e filo spinato, una frase come quella stride dolorosamente. La squadriglia ben disposta e orgogliosa che ha dovuto dire signorsì al proprio superiore di grado (resta da verificare se meritato ed effettivo) potrebbe essere la stessa che ritorna dimezzata nella fotografia a fianco, e così, in una parola, che rappresenta la condizione del soldato, è racchiusa tutta la tragedia della guerra filtrata di ogni possibile riverbero eroico e sentimentale, apparendo in tal modo nella sua crudezza di difficile compassione. Quella volta, come tutte le altre, un signorsì ha determinato l’annullamento di un uomo e per questo ha un peso enorme, troppo grande per poter essere trasportato in una sentenza così sbrigativa sull’educazione di un giovane.
Buona condotta e sregolatezza si trattano molto spesso come due estremi di un semplice parametro che è l’obbedienza, inserito come pietra miliare di un’educazione soprattutto familiare, poi scolastica in certi casi, che ha tratti a dir poco militareschi. Per un ragazzo o una ragazza molto ubbidiente ci si aspetta un carattere docile e un comportamento corretto, ovviamente ritenuto tale in quanto congruente ai dettami assunti come giusti da chi li dispensa, mentre verso chi non è stato abituato a sottostare a degli ordini ci si rassegna alla sua esuberanza ed arroganza alimentata dai desideri sfrenati. La qualità dell'educazione ricevuta finisce per ridursi in questo modo al grado di obbedienza ad alcuni precetti imposti che si rifanno a verità determinate e in seguito espresse in modo unilaterale. Questa modalità può forse funzionare per qualche circostanza emergenziale in cui non c'è tempo e modo di instaurare un processo di educazione più articolato, che non sia una semplice imposizione dall'alto a cui non è dato chiedere spiegazioni, ― per esempio dove il proprio figlio irrequieto e stanco della situazione in cui si trova si sfoga disturbando chi ha intorno; ma in questo gioco che ruolo ha la coscienza?
Si smarrisce! Come nel 1914 si smarrì quella europea scivolando nel primo conflitto mondiale, quando, nel bel mezzo di un secolo in cui cominciavano i primi barlumi di una cultura europeista, di colpo si piombò nel buio di una galleria scavata nella roccia a fare i conti con la morte.
Un contesto come quello del fronte non contempla, anzi vieta, l’esercizio della propria coscienza da parte del soldato posto davanti ad un obbiettivo; tutto ciò che c’è da fare è seguire alla lettera gli ordini fino alla fine, davanti a tutto, senza possibilità di obiezione e questo in virtù del fatto che esiste chi, più in alto nella gerarchia, ha dato un comando, senza dare giustificazioni o strategie di sorta oltre a quella rappresentata dalle medaglie sulla sua divisa.
L’obbligo all’ubbidienza pone l’uomo in una dimensione alienante in cui egli può astenersi totalmente dal muovere pensieri critici su ciò che va a compiere e di conseguenza arrivare a compiere gli atti più scellerati al suono di un signorsì, legittimato nel suo agire da una decisione altrui che non richiede la sua approvazione, anzi è sorda a qualsiasi sua istanza. Non è altro che una perdita della facoltà dell’uomo come creatore della propria coscienza, la stessa che si svelò nella sua piena mostruosità a Norimberga, dove i gerarchi nazisti portarono come unica giustificazione delle loro azioni il fatto di non poter far altro in quella occasione se non obbedire a degli ordini, quelli che a cascata permisero a tutti i loro sottoposti di fare il lavoro sempre più sporco. Duecento anni prima sempre la stessa veniva riconosciuta da Federico II, sovrano di Prussia : «Se i miei soldati cominciassero a pensare, nessuno rimarrebbe nelle mie file».
Il momento cruciale in cui ci si interroga sulla giustizia di una decisione o non esiste oppure è superato riconoscendo il valore di un comando in quanto tale, unico risultato di un’impostazione mentale che viene educata e pretende a sua volta di educare imponendo con violenza, che sia fisica o concettuale, una verità. Come è ovvio, in questo processo la coscienza di chi subisce la coercizione non può che atrofizzarsi, diventa incapace di suscitare quei moti connaturati all’essere umano di ricerca di una verità, i quali necessariamente tentano di mettere in dubbio quella che viene comunicata rendendo malleabile la sua mentalità. Ecco che a tutto questo si accompagna il compimento di uno stato di deresponsabilizzazione.
Auspicare di crescere un giovane in questi termini condanna il suo agire a ridursi nell’attesa perenne che un qualche ordine giunga dall’alto di un’autorità indiscussa e gli indichi una via dalla meta ad egli oscura, concedendogli la comodità di prendere una decisione senza soppesare la gravità di ciascuna tra le conseguenze di quell’atto e illudendolo, in questo modo, che la responsabilità delle possibili situazioni problematiche createsi a posteriori non lo riguardino ma siano da imputare piuttosto solamente a quell’autorità che gli copre le spalle; un’entità che pian piano ha abbandonato la forma dei genitori, dei maestri, dei capi e si è tramutata in valori e preconcetti entrati nella testa per riempimento indiscriminato e che ora permangono incontrastati perché chi li detiene non è mai stato abituato a verificarli con un contraddittorio, mai a disubbidire loro, mai ha avuto necessità di ascoltare un parere altrui perché mai gli è stato chiesto, sempre si è sentito sollevato dal peso delle sue azioni neutre, come funziona con un’obbedienza cieca.
Una società il cui modello di educazione si sia basato su tutto ciò non può che naufragare nelle contraddizioni più profonde e contorte, tale è la disorganizzazione delle sue strutture che procedono senza buonsenso e capacità di vedere un fine comune a tutti i suoi partecipanti. D’altronde viviamo ancor oggi gli echi di quei signorsì che rimbombarono da est a ovest del mondo in guerra durante tutto il Novecento, e che continuano anche nelle realtà più piccole, forse più tenui in ampiezza ma assordanti per il controsenso che generano e la rovina che disseminano nei confronti dell’ambiente e delle popolazioni.
Se chi sostiene di indirizzare bene una giovane coscienza, pretendendo da essa un sissignore, lo fa perché vede in questo il germe di una società stabile, allora non può desiderare l’attuazione di una società giusta, dato che quella pretesa di obbedienza di cui è oggetto quella coscienza non richiede di verificare la giustizia che si compie eseguendo quell’ordine; tanto meno può pensare che sempre quella coscienza debba “farsi le ossa” per abituarsi il prima possibile alla dura società in cui c’è chi comanda, ché anzi, in queste condizioni, non troverebbe difficoltà alcuna ad inserirsi, diversamente dal sentire su di sé una qualche responsabilità.
7 novembre 2018