Paradossalmente l’intenzione di questo articolo è risvegliare uno stato d’animo oggi ormai dormiente: quello della “meraviglia”. Perché questo stato d’animo è stato nella storia della filosofia così importante? Perché è una via d’accesso. A cosa? Al senso dell’essere.
Potrà sembrare una cosa trita e ritrita, ma la realtà quotidiana oggi dimostra la perdita di questa consapevolezza e dell’importanza del meravigliarsi. Con la rete internet ogni informazione è a portata di mano: tutto ci è già “dato”, perciò crediamo che – data la disponibilità enciclopedica di informazioni sempre fruibili – ogni risposta sia stata data (o al massimo sarà presto data). È evidente che questo meccanismo non solo è deleterio perché oblia le domande fondamentali, ma è anche controproducente perché impigrisce, scaricando il peso della ricerca (qualunque ricerca).
Questo meccanismo di consultazione interrompe il “domandare”: smettiamo di chiedere il perché e ci limitiamo ad apprendere risposte sul “come” le cose sono (dandone una descrizione). Ma la domanda sul perché è la domanda essenziale. Essenziale proprio perché mira all’essenza di una cosa, il suo senso. E per rispondere al suo senso non posso limitarmi ad analizzare la cosa singolarmente, ma devo necessariamente considerare il suo legame con il “tutto”, il suo posto in esso. Ma, e su questo si è già detto molto in altri articoli, il “tutto” si è perso in varie parcellizzazioni del sapere.
Quale via per evitare questo “pantano”? La capacità di stupirsi, meravigliarsi, qui entra in gioco. D’altronde senza meraviglia non c’è filosofia e senza filosofia non c’è meraviglia.
« È proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo. » (Platone, Teeteto)
Ricordiamo anche il celebre passo della Metafisica di Aristotele:
« Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia [thaumazon] riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. »
Ma come poter controllare l’incontrollabile? È evidente che non sia possibile comandare a bacchetta la capacità di meravigliarsi. Anzi, questa giunge sempre all’improvviso, quando meno la si aspetti. Questo però non significa che non sia possibile educare il nostro “sguardo” dell’animo ad una maggiore sensibilità. E l’arte non può che svolgere qui un ruolo didattico di primo piano, diventando l’input del processo gnoseologico:
« Si potrebbe dire: l’arte ci mostra i prodigi della natura. Il suo fondamento è il concetto dei prodigi della natura. (Un boccio che si schiude. Che cos’ha di meraviglioso?). Diciamo: “Guarda come si schiude!” » (L. Wittgenstein, Pensieri diversi)
Attenzione però: meraviglia non significa qui la mera “curiosità”, la brama infinita di conoscere (superficialmente, aggiungo) cose nuove, ma si riferisce all’esigenza connaturata dell’essere umano di comprendere il suo “essere al mondo”, il senso della sua esistenza e dell’esistenza in genere. È una esigenza che lo accompagna sin dalle origini del pensiero – e della vita umana. Ora si spiega il riferimento al mito fatto poco prima da Aristotele.
« Che la "meraviglia", da cui – secondo il testo aristotelico – nasce la filosofia, non debba essere intesa, come di solito accade, come un semplice stupore intellettuale che passerebbe dai "problemi" (ápora) "più facili" (prócheira) a quelli "più difficili" – cioè che il timbro del passo aristotelico sia "tragico" – riceve luce dalla circostanza che anche per Eschilo l'epistéme ("conoscenza") libera da una angoscia che sebbene sia da lui considerata "tre volte antica", è tuttavia la più recente, perché non è quella primitiva, e più debole, dovuta all'incapacità di vivere, dalla quale libera la téchne ("tecnica", "arte"), ma è l'angoscia estrema, il culmine al quale essa perviene quando il mortale si trova di fronte al thaûma ("meraviglia", "sgomento") del divenire del Tutto – al terrore provocato dall'evento annientante che esce dal niente. » (Emanuele Severino, Il giogo)
L’arte – non solo pittorica, ma anche cinematografica, musicale – può prendere la realtà sostanziale, quotidiana, “banale”, ed astrarla nella dimensione di “simbolo”. Lo scrittore e critico letterario russo Viktor Sklovskij ha definito questo processo come “straniamento” (ostranie): trasporre l’oggetto da come è solitamente (e passivamente) percepito in una nuova percezione “attiva”.
« Contro la cecità e la sordità della vita abituale Sklovskij rivendica l’importanza della meraviglia: le cose passano vicino a noi come se fossero imballate. Noi dobbiamo riuscire a sentirle come se le percepissimo per la prima volta. » (Mario Perniola, L’arte espansa)
Un felice esempio potrebbe essere il ready-made di Duchamp: un banale orinatoio capovolto e “vandalizzato” con la scritta «mutt» diventa una metafora (quella della madre – mutter –, la cui forma del grembo pare essere ricordata dall’opera, o della povertà – armut) e quindi origine di domande. Ma gli esempi sono infiniti: un semplice cesto di frutta può diventare il soggetto di un capolavoro caravaggesco che lascia milioni di persone attonite. Non solo ovviamente per il soggetto rappresentato, ma anche per la capacità umana creativa di smontare la realtà (si veda un Picasso), o di riproduzione (che segue sempre una accurata indagine) al limite della perfezione dell’occhio umano.
Viene da chiedersi come mai oggi l’arte abbia perso così tanto valore. Essa è oggi ridotta alla mera “cosa” con alle spalle un mero gioco mentale. Questa perdita di valore designa l’epoca nella quale ci è dato vivere: tutto ciò che non è utilizzabile, manipolabile perde valore. L’arte ha senso solo se produce “godimento”. Ma questo “godimento” non può essere il fine dell’arte, al massimo solo di un suo surrogato di basso livello. Ci sarebbero forme di godimento più intense e immediate dell’arte. Evidentemente l’arte ha a che fare con altro.
« Non c'è arte senza coscienza di sé, e la coscienza di sé e lo spirito critico sono tutt'uno. » (Oscar Wilde)
« L'arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità. » (Pablo Picasso)
« L'arte non si può separare dalla vita. È l'espressione della più grande necessità della quale la vita è capace. » (Robert Henri)
La speranza è che quest’articolo possa risvegliare la meraviglia per la nostra stessa capacità di meravigliarci. Non sarebbe poco. Qualcosa di grande ci sfugge. Ma non abbiamo smesso ancora di rispondere perché non abbiamo smesso di domandare. Che sia questa la via per un cambiamento positivo?
3 settembre 2018
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