Nell’omologazione che funge da oggetto delle categorie interpretative attuali, l’obiettivo primario risulta essere costituito dal concetto di utile. Quest’ultimo si configura come un qualcosa che agisce sull’individuo dall’esterno, rendendolo privo di libertà di scelta non perché non vi siano alternative ma perché il sistema sociale e la sua domanda richiedono l’utilità come essenza dell’impiego del singolo.
La dimensione dell’utile sembra essere l’unica dimensione verso cui si muove l’individuo – una dimensione che però non deve essere per forza ricondotta a quell’utilitarismo alla Bentham e poi ripreso da Mill. L’utile a cui si accomuna questa dimensione che ha pervaso le coscienze risiede in quelle attività e in quegli impieghi che la convenzione sociale imposta e dominante ha reso più appetibili per le domande del sistema sociale. L’homo homini lupus su cui Thomas Hobbes sviluppava lucide teorie sembra aver toccato l’eccesso in un mondo che normalizza l’unico obiettivo del far successo nell’immediato. L’uomo è un individuo solo, il quale vede nell’altro un nemico; l’uomo è per l’altro un lupo e su questo dato di fatto non vi attecchisce nessuna forma di razionalizzazione del contrario. Non c’è spazio per l’alterità come risorsa: in un mondo in cui la competizione si inserisce fin’anche nella quotidianità del singolo, quest’ultimo viene plagiato dall’idea malsana dell’apparire subito e sempre. In locuzioni come “sempre sul pezzo” si potrebbe sintetizzare questa concezione, moralmente senza sostanza, dell’essere sempre pronti e vigili su tutto ciò che è in voga sul momento, su tutto ciò che è moda passeggera di una collettività cieca. Come sosteneva George Simmel in La moda (1895), alle volte risulta che vengano proposte come moderne le cose più sgradevoli e, nel proporre tali cose che oggettivamente non risultano soddisfare le necessità, si vede concretizzato il potere più subdolo, creando profili antropologici che risultano essere ingranaggi di un sistema teso unicamente ad omologare.
Nell’omologazione che funge da oggetto delle categorie interpretative attuali, l’obiettivo primario risulta essere costituito dal concetto di utile. Quest’ultimo si configura come un qualcosa che agisce sull’individuo dall’esterno, rendendolo privo di libertà di scelta non perché non vi siano alternative ma perché il sistema sociale e la sua domanda richiedono l’utilità come essenza dell’impiego del singolo. La lotta tra uomini che si percepiscono come lupi si struttura su questo concetto che, per dirla con Ivan Illich, non ammette nessuna forma di convivialità, che è ciò che nell’ottica di quest’ultimo ammetterebbe una convivenza tra gli individui e loro pulsioni. La dimensione dell’utile è una dimensione che mina la collettività e alimenta l’individualismo, senza che vi siano possibilità di contrastarla attraverso la normalizzazione di alternative. Sempre sulla scia di una parafrasi di Illich vediamo come la convivialità, che dovrebbe sedimentarsi alla base di un quieto vivere comune a tutto il tessuto sociale, venga poi minata e oscurata dall’eccessiva produttività industriale che al contrario vuole individui singoli totalmente concentrati nel proprio successo individuale. Come dice il medesimo, in modo del tutto categorico, nel suo capolavoro La convivialità (1973): « Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità al di sotto di un certo livello, diventa preda della carenza. »
La carenza alberga in ogni cunicolo della realtà sociale: Illich dava alla luce un tale testo negli anni ‘70 del secolo passato, parole che oggi, nel momento in cui vengono rilette, rilasciano nello spirito, come se fosse una macchia, il peso di quel dramma della verità. Macchiati delle nostre colpe, uomini di questo globo, oggi piangiamo le dissonanze con la nostra realtà. Viviamo l’eclissi della scelta voluta e ponderata, sostiamo all’interno della precarietà dell’essere. Se non sei perfettamente incastrato all’interno dei meccanismi di quell’unica dimensione subisci il destino dell’estraneo, del diverso, diventi un naufrago senza punti di riferimento. Dunque, quella condizione di austerità che l’uomo richiede per necessità viene minata e nel minare questa condizione si manifestano i tratti caratteristici del sistema. L’austerità del singolo, la sua capacità di rendersi autonomo e non agito da condizioni esterne ad esso, risulta come una caratteristica che viene repressa però senza l’atto di repressione canonicamente conosciuto, dunque sotto il profilo di violenza. La “repressione” in questione è più che altro una forma di eclissi che si viene a creare nel momento in cui cerchi di uscire da schemi precostituiti e normalizzati. La convivialità di cui parla Illich, dunque, viene normalizzata come modello da non seguire, poiché nell’ottica dell’eccessiva produttività che porta l’individuo ad essere sempre migliore dell’altro non vi è spazio per una condivisione di strumenti (qualsiasi sia la loro entità, materiale o intellettuale) per giungere agli obiettivi prefissati. Siamo l’uno contro l’altro, un conflitto che non percepiamo come vero e proprio, ma lo portiamo già dentro il nostro essere a precedere ogni nostra intenzionalità; dunque, per tale ragione inconsciamente razionalizziamo già in principio che l’altro “non serve” ai nostri fini, ma rappresenta un “nemico”.
L’utilitarismo è oggi il nuovo individualismo portato all’eccesso: nell’utile da scorgere in ogni azione si riscontra la morte di ogni forma di aggregazione e ogni forma di collettivizzazione. Tutto questo rappresenta un affresco la cui cornice è costituita da una generale tensione da parte del singolo nei confronti dell’essere. La tensione gioca il ruolo di una forza inconscia che genera intenzioni, che priva di autenticità le azioni dell’uomo, poiché nell’immaginario universale dell’utile, dell’arrivare prima di qualsiasi altro, sono teso verso questo unico fine, dunque mai lucido per una valutazione totale dell’azione. Un parallelismo che porta all’eccesso quella massima che grazie a Machiavelli è diventato il detto che giustifica le “male azioni”, ovvero: “il fine giustifica i mezzi”.
Trovare giustificazioni per azioni che moralmente non presentano condizioni ideali, oggi, sarebbe quasi velleitario. Una società che non è conviviale è una tipologia di società che per essenza non ammette la multi-dimensione del possibile. Freud, in Il disagio della civiltà (1930), affermava che la civiltà sarebbe nata nel momento in cui il principio del piacere fosse stato sostituito con il principio della realtà. Sostiene questa tesi nel momento in cui si accorge che la società, nel suo nascere come civiltà, reprime per definizione quegli istinti che prima erano unicamente sessuali e dunque dirottati verso il piacere, facendo in modo che essi vengano dirottati unicamente verso il lavoro. Sulla scia di questa tesi sviluppata da Freud tra il 1929 e il 1930, si potrebbe affermare che oggi quella teoria profetica sia stata portata all’eccesso del suo sviluppo. Il lavoro, inteso non come forma di realizzazione dello spirito dell’uomo, ma inteso come mezzo per quell’unico fine che è l’accumulo di denaro, diventa una forma di alienazione non percepita come tale, poiché la mutazione antropologica che oggi l’uomo ha subito lo ha veicolato verso la normalizzazione di una visione del lavoro così strumentale e poco funzionale alla felicità.
Attraverso una critica attuata nei confronti di Freud da parte di Herbert Marcuse riguardo al fatto che quest’ultimo non condivide la generalizzazione della tesi freudiana, possiamo notare quanto sia attuale quel concetto di “principio di prestazione”. Quest’ultimo, nell’ottica del passaggio dal principio di piacere al principio di realtà, rappresenta un tratto certamente negativo nei confronti di un’ipotetica convivialità. La prestazione che l’individuo deve avere, a seconda della sua stratificazione sociale e del ruolo che in società svolge, deve sempre essere la più alta ed efficiente. Dunque, risulta più lecito osservare come nel principio di prestazione che si sedimenta sotto ogni intenzionalità, vi sia sintetizzato il perché dell’esistenza di una società basata unicamente sull’utile e, in conseguenza di ciò, comprendere le cause della morte dell’alterità. La prestazione, l’arrivare subito al successo proprio personale e di nessun altro, l’essere il migliore, sono tutti aspetti che alimentano la competitività.
Nella competitività risiede l’alienazione dell’intenzione di volersi differenziare attraverso la realizzazione individuale e propria. La competitività diventa un’altra faccia dell’homo homini lupus che Hobbes a suo tempo sviluppava, poiché nella ricerca fine a se stessa dell’utile, inteso come fine in quanto forma di accumulazione di denaro, il concorso tra persone dirette verso un unico obiettivo non può che creare un conflitto che si normalizza nella psicologia dell’individuo. Tale conflitto, a rigor di logica, andrebbe superato normalizzando, attraverso una struttura antitetica al sistema imposto, un modo per darsi rilievo alimentando le proprie pulsioni. Ma come può essere ribaltata una condizione di questo calibro?
I problemi economici non svaniscono da un momento all’altro, però l’uomo è dotato di forza interiore, di capacità di crearsi i propri mezzi di sussistenza, insomma l’uomo diventa la coscienza di un’azione. Su questa scia, all’interno dell’involucro che avvolge questa realtà nichilista e asservita, l’antropologia vitalistica di Nietzsche, che veniva riesumata dai post-strutturalisti, non può che ritornar utile per comprendere il rapporto tra uomo e sistema, inteso, quest’ultimo, come struttura che agisce sull’individuo plasmandolo. Il sistema non è solo utilitarismo/individualismo: di questo l’uomo deve prendere coscienza e comprendere quale sia la sua posizione a riguardo, deve capire che non è una pilotina che in preda alle onde del mare viene trasportata verso l’orizzonte, ma l’uomo ha il compito di destarsi di fronte all’oggettivazione del futuro. L’uomo in rivolta di cui Albert Camus parlava è esattamente questo, il comprendere cosa un sistema imposto voglia fare di te in quanto individuo e capire a partire dalla dialettica interno-esterno veicolata unicamente da te stesso. Il possibile è limitato perché non si vuole trovare un’altra alternativa a ciò che è regolarmente normalizzato come ideale; dunque, nella formula “mi rivolto dunque sono”, che Camus donava al mondo mutuandola dal cogito cartesiano, si istituisce un testamento per la generazione del progresso. Un testamento da intendere non in accezione negativa, ovvero come il resistere per partito preso, ma da intendere come una spinta ad alimentare la forza pulsionale che ognuno racchiude dentro di sé.
Infine, non bisogna rincorrere l’utile senza vedere altro attorno a noi stessi, perché se no si finisce per perdere chi siamo; dunque è logico capire chi siamo, ciò che decidiamo di diventare, senza essere arginati da quegli schemi che la società impone normalizzando modelli ideali e conformi ad essa.
La vera rivolta è scegliere e farlo secondo un monologo interiore che ti mette in stretto contatto con le tue capacità, perché se non si ragiona così, per la maggior parte dei casi, l’unica strada è l’alienazione e l’estraneazione da se stessi.
Scriveva Nietzsche, in La gaia scienza: « Cosa rende eroici?
Muovere incontro al proprio supremo dolore e alla propria speranza ».
Dunque, umanità, muoviti verso la tua speranza!
15 settembre 2018