Troppo spesso, in ambienti sanitari e socio-assistenziali, ci si sofferma su quello che la persona non può fare. Con la stessa frequenza, però, non si ricerca lo sviluppo di una capacità non espressa al momento. Il paradigma clinico ci dice, a volte anche nella pratica riabilitativa, di rimanere fissati sul problema – sulla risoluzione della diagnosi o funzione problematica – anche nello sviluppo della persona.
Ad esempio, quando ci si trova di fronte ad una persona con disturbo del linguaggio, la riabilitazione per questa persona è l’esercizio, pedissequo e costante, dell’articolazione linguistica. Qualora invece – sempre da un punto di vista clinico – ci si imbatta in un paziente con il femore rotto, tutto il lavoro è quello di curare “soltanto” le relazioni con l’osso fratturato: la ri-tonificazione muscolare, o la stampella e le calze fascianti più adatte, l’attivazione neuromotoria ecc. Ma sempre e soltanto le parti connesse al problema. Invece la prospettiva non clinica è quella che permette di allontanarsi dal problema stesso per cercare nuovi porti dove approdare, sempre personali e costruttivamente individuali. Allora si potrebbe scoprire che chi ha il disturbo linguistico è bravissimo a scrivere poesie in dialetto locale. Chi ha la gamba rotta è in realtà interessato a scoprire come si gioca a scacchi. Quindi non cercare per forza di far diventare il primo un eccellente oratore e il secondo un centometrista olimpionico.
La ri-abilitazione sostituisce, coprendola, in questa egemonia del mondo clinico nel panorama socio-assistenziale, la parte di “abilitazione”: la scoperta di nuove abilità. Chi scrive non vuole assolutamente eludere l’importanza della cura del problema, ma fornire una chiave in più nella visione dell’uomo, che è appunto quella pedagogica, quella educativa. Così da contenere a tutto tondo, innanzitutto e perlopiù, la persona.
Perché la clinica ha coperto e prevalso la visione pedagogica dell’uomo? Forse perché si è scambiata la bramosia e l'egocentrismo di questo megalomane e prestativo postmoderno con la volontà del miglioramento individuale. O forse perché è molto più sicuro approdare a porti già conosciuti, ricercare con tecniche e tecnologie – che sfruttano la bramosia di cui sopra – nuovi modi per fare sempre la stessa cosa. O perché si è nell’era post-esistenziale più stupida, del razionalismo critico che vede tutto come una interpretazione e mai una sicurezza, del fervido relativismo che non fa mai realmente incontrare, perché, tanto, va già tutto bene così: meglio rimanere su ciò che certamente si sa e, possibilmente, soli. È la vittoria delle scienze positive, le quali, negli ambienti riservati concretamente alla persona, tutto fanno fuorché dare una visione “positiva” al paziente. È questo uno fra i tanti sintomi dell’ultimo mezzo secolo, che ha esacerbato la malattia che porta il nome di “inconclusività del pensiero”:
« Nel dissolvimento dell’ideale collettivo l’io riaffiora come ambigua figuretta in bilico fra una soggettività a lungo mortificata e l’insorgenza di squallidi egoismi. » (Marco Meneguzzo, Gli anni '80)
Nella vana speranza di non cadere nell’errore della Curiosità – quella di cui Heidegger scriveva nel suo Essere e Tempo –, si ragiona solo sul qui ed ora delle “funzionalità” residue di una persona – del problema –, in una ottica che poi è stata chiamata “esistenziale” sulla persona dalle scuole cliniche – perlopiù psicologiche e mediche. Così, con questa lettura, è la persona e il suo progetto (che sono la stessa cosa) che perdono di importanza e si sposta l’attenzione solo sul funzionamento problematico. Nonché prevalgono professionalmente soltanto queste figure: l’umanista, il filosofo, l’educatore e l’insegnante non servono più a nulla, in effetti. Essere persuasi che, ad un certo punto, il pensiero “si fermi” e analizzi solo ciò che “in realtà c’è” è contraddittorio, giacché lo stesso analizzare il qui ed ora, ad esempio di cosa può fare una persona con le risorse cognitive e comportamentali che ha, è già uno scorrere del pensiero verso nuova conoscenza. Per la natura del pensiero stesso, esso non è in grado di fermarsi e, per così dire, accontentarsi. Hegel in Fenomenologia dello Spirito spiega l’inarrestabilità così:
« La coscienza, invece, è per se stessa il proprio concetto, e, pertanto, è immediatamente l’oltrepassamento del limitato, poiché inoltre questo limitato le appartiene, la coscienza è oltrepassamento di se stessa. »
La curiosità può essere interpretata, continuando il passo hegeliano, come quella «violenza che impedisce alla coscienza di accontentarsi di qualsiasi appagamento limitato, dunque, proviene in realtà dalla coscienza stessa. […] Il pensiero infatti turba il torpore mentale, e la inquietudine sconvolge l’inerzia». Quindi essere “banalmente” curiosi non è un errore, se è la ricerca di nuove possibilità: quello a cui si tende, appunto, è l’oltrepassamento nella considerazione del solo limite verso una visione non più esistenziale, ma ideale – e personale, perché ideale – del soggetto.
In secondo luogo, non ci si deve deprimere gli animi e considerare ogni sintesi un errore solo perché non si può fissare “il cuore” del problema, quindi una non-sintesi. Giacché “il cuore” del pensiero, quello che si raggiunge metaforicamente “scavando” nel pensiero, non è l’annullarsi – il rendere nulla – di ciò che viene tolto, ma è un aggiungere la consapevolezza che quel determinato pezzo può non funzionare ora – ed essere, magari, ripreso più tardi. Altresì, qualora si volesse schizofrenicamente credere lo stesso di voler togliere di mezzo della “terra che copre” il succo del Concetto e dell’esistenza di un determinato, rimarrebbe comunque il toglimento di quella opacità, l’azione stessa del negativo che costituisce il Concetto. Si deve ammettere che il sapere, il pensiero, è sempre problematico – o antinomico – e quindi non si può mai costituire una sintesi, ma la sintesi stessa è ciò che è certo in un astratto momento del presente è « una affermazione immediata, ossia dogmatica ». Il maestro di Emanuele Severino, Gustavo Bontadini, continua:
« Porre a principio l‘antinomia significa richiamare contro di essa, in forza di essa, l’idea della non-antinomia (del sapere fondato!) […] Ammettere come possibile la non-antinomia è quanto riconoscere la precarietà dello stesso problematicismo, la problematicità della stessa problematicità. » (Dall’attualismo al problematicismo. Per approfondimenti: Il volto epistemico della filosofia italiana, Antonio Lombardi )
Porsi il problema esistenziale con la frase “ora il problema è questo e solo questo deve essere affrontato” significa che è già presente un tutt’altro, che non si vuole tenere conto, da considerare. E questo “altro” è proprio l’intero della persona. Scambiare la ricerca, dialettica e scientifica, della verità e del moto ineludibile del pensiero che sempre più cerca di capirsi, con la frenesia dei mercati, delle “relazioni liquide” e della velocità con cui si scambiano oggetti e persone, è un grave errore. Perché quest’ultimo ha come meta il cambiamento: il processo stesso della tecnica. Mentre il miglioramento della persona ha come meta l’utopia, l’ideale, della realizzazione in forza di sé e del mondo che lo circonda. Errore è anche rimanere fissati solo su una determinazione della totalità che rappresenta la persona e le sue possibilità. La persona in cura, quella con il disturbo del linguaggio o con la gamba rotta, non vuole ri-abilitarsi solo per il gusto astratto di togliere un problema, ma per realizzarsi come uomo; e la realizzazione non è soltanto l’eliminazione di ogni limite. A volte, in casi irrisolvibili, è accettare il limite, ma non ridursi esclusivamente ad esso, bensì cercare nuovi modi di procedere verso la meta. Dove per meta si intende:
« Il punto in cui il sapere non ha più bisogno di andare oltre sé perché trova se stesso, il punto in cui il concetto corrisponde all’oggetto e l’oggetto al concetto. Il processo verso questa meta è quindi inarrestabile e non trova appagamento in nessuna stazione anteriore. » (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito)
Se si vuole cercare a tutti i costi cosa nel pensiero rimane fermo – per non cadere nell’errore della curiosità, nella contradittoria fissazione esistenziale, nella angosciante depressione del pensiero problematico e nella sola visione clinica dell’assistenza – allora è proprio nell’Utopia che bisogna riporre le speranze. Il fondamento, o anche il valore, sono la direzione.
19 settembre 2018