Sembra che i ragionamenti errati o paralogismi, oggigiorno, regnino sovrani, costituendo, per i più, il terreno fertile per edificare improbabili quanto pindarici teoremi. Ma può un giudizio, degno di questo nome, basarsi sul completo “disconoscimento” dell’oggetto che pretende di fare suo?
Leggendo i quotidiani, i commenti alle notizie di cronaca e non sui social, ascoltando i notiziari o, semplicemente, i discorsi della gente in un bar, capita, troppo spesso, di doversi misurare con quelli che, tecnicamente parlando, prendono il nome di paralogismi, vale a dire, veri e propri ragionamenti errati. Sembra, infatti, che i ragionamenti errati o paralogismi, oggigiorno, regnino sovrani, costituendo, per i più, il terreno fertile per edificare improbabili quanto pindarici teoremi. La questione, apparentemente, potrebbe sembrare banale, così banale da essere congedata con il termine “ignoranza”; eppure, se si opta per una più profonda riflessione, evitando, pertanto, di liquidare frettolosamente la problematica, ci si può accorgere di un significativo e, soprattutto, pervasivo regresso che investe la capacità di ragionare e quindi l’aspetto razionale della gente. La razionalità o, come affermava Platone, l’anima razionale costituisce l’elemento che rende l’uomo “uomo”, elevandolo al rango di creatura privilegiata, che, in quanto tale, è in grado di sottomettere a sé la natura, instaurando quello che il filosofo inglese Bacone definiva regnum hominis.
Parlare di ragionamento, però, inevitabilmente significa anche coinvolgere altri due elementi, per propria essenza, vincolati a esso: il linguaggio e la logica, che, si badi bene, per gli antichi greci, non costituiva una scienza, bensì uno strumento imprescindibile per il buon “funzionamento” di qualsiasi altra scienza. L’ultimo passaggio potrebbe sembrare scontato, ma, in realtà, non lo è, essendo di fondamentale importanza: non ci può essere scienza senza ragionamento corretto e la logica, per l’appunto, rappresentava e rappresenta lo strumento avente come proprio oggetto il ragionamento corretto. E se la scienza domina la conoscenza dell’uomo, essendo quest’ultima vincolata al metodo scientifico, allora si può affermare che non ci può essere conoscenza senza ragionamento corretto; non ci può essere progresso senza ragionamento corretto; né, rendendo la riflessione individuale, ci può essere miglioramento senza ragionamento corretto. Si tratta di conseguenze/princìpi rigorosamente “logici”, ai quali difficilmente ci si potrebbe appellare, rimanendo nell’ambito del logos. Il ragionamento, inoltre, è legato indissolubilmente al pensiero e il pensiero, per Platone, non era altro che « un discorso che l’anima compie con se stessa intorno a ciò che prende in esame » (Teeteto, 189a). Da questo punto di vista, pensiero e discorso coincidono perfettamente, non potendo essere possibile la presenza dell’uno senza l’altro.
A questo punto, con l’introduzione del discorso, bisogna prendere in esame ciò che rende possibile il discorso stesso, qualsiasi discorso, per la precisione; quell’elemento senza cui la comunicazione sarebbe tecnicamente impossibile. Ovviamente, si parla del linguaggio. Esso, infatti, si rivela imprescindibile per il discorso e, di conseguenza, per il pensiero e il ragionamento. Si può affermare dunque che pensiero, ragionamento e discorso hanno una base comune: il linguaggio. Illuminanti, da questo punto di vista, sono le considerazioni di Hobbes, il quale riteneva che il linguaggio concorresse alla costruzione dell’intelletto, essendo il ragionamento fondato sul linguaggio. « Ed invero l’intelletto è immaginazione, ma che nasce dal significato istituito dalle parole. » (De Homine, X, 1). Qual è la natura del linguaggio, allora? Essa è, e non potrebbe essere altrimenti, convenzionale e, come tale, vincolata alla società.
Il linguaggio, inoltre, è formato da termini, che esprimono e riflettono significati precisi, e da una struttura portante, comunemente denominata grammatica, che non ammette flessibilità alcuna. Si potrebbe affermare che il linguaggio, attraverso la lingua – sua espressione – è soggetto a ferree regole, tanto che Barthes, critico e saggista francese, è arrivato perfino ad asserire che il linguaggio è essenzialmente “fascista” (l’avverbio “essenzialmente” non è affatto casuale).
« Il linguaggio è una legislazione, la lingua ne è il codice. Noi non vediamo il potere che è nella lingua perché dimentichiamo che ogni lingua è una classificazione e che ogni classificazione è oppressiva: […]. Così, per la sua stessa struttura, la lingua implica una relazione fatale di alienazione. Parlare, e ancor più, discutere non è comunicare, come sovente viene ripetuto, piuttosto è assoggettare: ogni lingua è una sovranità generalizzata […]. La lingua, in quanto attuazione di ogni linguaggio, non è né reazionaria, né progressista; essa è semplicemente fascista; questo perché il fascismo non consiste nell’impedire di dire, ma nell’obbligare a dire. » (Lezione, 1977)
Posta l’incontestabile rigidità del linguaggio, occorre riconoscere che il ragionamento, essendo un’edificazione del linguaggio e, pertanto, venendo significativamente anticipato da esso, è, anch’esso, soggetto a regole precise, regole inderogabili. E qui il ritorno alla logica o analitica, se si preferisce, è d’obbligo, basti pensare ai famosi assiomi aristotelici: principio di non contraddizione, principio del terzo escluso e principio di identità. Assiomi che, in quanto tali, per lo stagirita, non potevano essere confutati, in quanto il processo di confutazione stesso richiedeva il loro utilizzo (situazione alquanto paradossale). Veniamo adesso al più importante di essi o, ancora meglio, “il più certo di tutti i principi”: il principio di non contraddizione. Tale principio, per farla breve, si fonda sull’impossibilità di affermare e, allo stesso tempo, negare un medesimo attributo a proposito di un medesimo soggetto: per esempio, posto che “Tizio è uomo” non può accadere allo stesso tempo che “Tizio non è uomo”; in altri termini, o lo è o non lo è. Per i greci, negare l’assioma di non contraddizione avrebbe avuto l’effetto di abolire il carattere fisso dei significati e la perdita dei significati avrebbe prodotto, come conseguente risultato, la distruzione del logos e della possibilità di ragionare.
A voler essere un po’ ironici, oggi, fortunatamente, ancora non si è arrivati a un simile disastro, ma la contraddizione, insieme alla confusione (conseguente risultato), regna sovrana nel linguaggio della gente, perfino nel linguaggio di quanti rappresentano lo Stato o ricoprono dei significativi ruoli istituzionali. Difatti, dire e contraddirsi, è diventato perfettamente lecito e poco conta se si è in un bar o in una sala conferenze del Viminale. L’aspetto più grave, però, è dato dall’assuefazione alla contraddizione: la contraddizione non fa più notizia (è questa la notizia!), anzi è facilmente assimilata e accettata. Infatti, con una certa complicità e stucchevole ingenuità, si è sempre più disposti a soprassedere a qualsiasi giudizio di condanna nei confronti della contraddizione, visto e considerato che si tratta solo di “parole”, che, magari, arrivano da persone per le quali si nutre simpatia (una sorta di rivincita dell’anima irascibile su quella razionale). Tutto ciò rivela sia la mancanza di pensiero critico – vera e propria piaga dei nostri giorni – sia la mancanza di un metodo con il quale assimilare informazioni, rapportarsi al mondo e, conseguentemente, “conoscere”. La mancanza di metodo apre le porte alla “chiacchiera”, divenuta quasi “metodologica”.
A tal proposito, Heidegger scriveva: « L’infondatezza della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica, bensì un fattore che la favorisce. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in questa appropriazione. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di inaccessibile. » (Essere e Tempo, 1927).
Il rafforzarsi della chiacchiera, come logica conseguenza della mancanza di metodo, è anche indice di una generalizzata pigrizia mentale, determinata da un uso distorto della tecnologia (la verità alla comoda portata di un click!) e da una cronica “allergia” alla lettura. Così si pretende la conoscenza senza la ricerca preliminare e, a voler essere più cinici, senza la fatica implicata dalla ricerca. Il paralogismo, pertanto, è dietro l’angolo: ci si può, per esempio, cimentare in discussioni sulla religione cristiana, con annessi giudizi (cosa ancor più grave), senza aver mai letto la Bibbia, essersi accostati alla Patristica o alla storia del cristianesimo; in altri termini, ci si può esprimere, generalmente parlando, su un determinato argomento, producendo un giudizio, spesso camuffato da “opinione” (antro indice di confusione e mancanza di metodo), pur non conoscendo l’argomento in questione, pur senza aver avviato un vero processo di ricerca nei confronti dell’argomento oggetto di discussione e, soprattutto, giudizio. Ma può un giudizio, degno di questo nome, basarsi sul completo “disconoscimento” dell’oggetto che pretende di fare suo? Ovviamente e logicamente, la risposta non può che essere negativa. Il caso contrario, inevitabilmente, condurrebbe alla chiacchiera, al paralogismo e al “pregiudizio” (opinione preconcetta, capace di fare assumere atteggiamenti ingiusti, specialmente nell’ambito del giudizio o dei rapporti sociali, riporta il Devoto-Oli), ossia quanto di più nocivo possa esistere per un sano uso della ragione, precludendo all’uomo la vera possibilità di conoscere.
Alla luce di tutto ciò, diviene sempre più pressante la necessità di un ritorno al pensiero critico, cui esercitazione costante dia vita a un rigoroso metodo che funga da baluardo contro gli abusi linguistici, vero e proprio preludio alla confusione e alla disinformazione dei nostri giorni; un metodo che ponga attenzione alla costruzione logica delle asserzioni, nel rispetto del linguaggio e della lingua. Tale metodo, naturalmente, non può prescindere dalla lettura. Per farla breve, urge un sano ritorno alla lettura, unico vero vaccino contro buona parte dei mali del nostro tempo. Dopotutto, non a caso, una delle menti più brillanti del Novecento scriveva: « I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo ».
27 settembre 2018