La letteratura parla dell'uomo, parla di noi, si concentra sui nostri sentimenti, sulle nostre emozioni. È un modo diverso di guardare l'Assoluto. Questo è il valore della letteratura: il plasmare la realtà a partire dal sentimento per conoscere meglio l'uomo e cercare di tendere alla verità. D'altra parte, l'uomo, da quando ha respiro, non fa che cercare di conoscere se stesso.
Quando si parla di letteratura di solito, con questo termine, si vuole indicare una branca dell'arte; i suoi oggetti non sono i dipinti, le sculture ma i testi scritti; i narratori e i poeti sono i suoi arti e la sua linfa è la finzione. Quest'ultima, essendo collegata alla fatidica domanda “come mi posso emozionare con qualcosa che so perfettamente che non è reale?”, rappresenta uno di quegli aspetti problematici cui si cerca di rispondere.
I grandi classici, le poesie di Petrarca, di Leopardi, ecc. suscitano il pianto, il riso, la compassione, il piacere, la gioia e anche il dolore; le storie dei fratelli Grimm, Sherlock Holmes o I miserabili non sono reali, sono finzioni, sono creazioni dell'autore. E anche quando l'autore parla di sé lo sfondo del suo racconto è infarcito di immagini nuove, grandi creazioni, nuovi mondi che sono finzioni, non sono reali. A volte piangiamo per alcune storie, sapendo che non sono reali. Il nostro pianto è reale ma l'oggetto per cui noi piangiamo è fittizio. Cosa sta dietro il concetto di finzione?
Nel vocabolario della Treccani alla voce “fingere” troviamo: 1) letter. a. formare, plasmare, modellare; b. rappresentare per mezzo dell'arte; 2) fig. a. letter. Inventare con la fantasia; b. rappresentarsi nella fantasia, creare con l'immaginazione; c. immaginare, supporre; d. simulare, far credere ciò che non è.
Fingere, dunque, è sinonimo di modellare, di formare; e le opere letterarie cosa sono se non un plasmare la realtà? Se ci pensiamo, però, chiunque, ogni giorno, più volte al giorno modella la realtà, immaginando nuovi mondi, inventando nuovi esempi per cercare di far comprendere un concetto a qualcuno, oppure raccontando un avvenimento divertente che gli è successo infarcendolo di immagini strabilianti godendo del riso dell'ascoltatore. Se, allora, indichiamo qualcosa come oggetto fittizio, non dovremmo dire che non esiste ma piuttosto che è il risultato di una creazione. Qualcuno a questo punto però potrebbe obiettare che c'è differenza nel raccontare un fatto che ci è accaduto realmente e un fatto che abbiamo inventato. Si risponda così: in primo luogo, il racconto del fatto reale non è l'accaduto stesso ma una creazione che ha come oggetto un fatto reale; chi ascolta non assiste al fatto ma alla creazione di quel fatto: il racconto di qualcosa non può essere la cosa stessa. Gli oggetti ovviamente sono diversi ma la modalità con cui “vengono raccolti” è la medesima. Tutti noi, quindi, fingiamo nel senso appunto di plasmare la realtà e gli scrittori e i poeti scrivono ciò che creano.
La diversità tra i due oggetti sta nel modo di intendere l'esistenza: quando di qualcuno dico che esiste, intendo che lo posso percepire, toccare, vedere, sentire, chiedergli come sta, un qualcuno di cui si possa percepire il suo processo biologico. Sherlock Holmes, Jean Valjean, Madame Bovary non posso percepirli, non posso invitarli a mangiare una pizza; invece posso invitare a cena colui che mi ha appena raccontato una avvenimento divertente che gli è accaduto. La modalità è la stessa e cioè la creazione ma gli oggetti cambiano: uno reale l'altro fittizio. Quando, dunque, parliamo di finzione dobbiamo sapere che in essa viene esclusa l'esistenza vista dalla prospettiva indicata: non posso invitare Jean Valjean a cena altrimenti mi manderebbero in psichiatria.
L'esistenza, però, ha diverse sfaccettature. Si consideri, infatti, che il risultato che noi chiamiamo fittizio è considerato, appunto, come qualcosa che non esiste – nel senso di cui sopra – ma il processo di realizzazione e i “pezzi” di cui è costituito sono reali. Ecco perché possiamo affermare che la finzione è in relazione con la realtà, non solo perché chi finge è reale ma perché l'oggetto che noi chiamiamo finto può essere, appunto, sia un ricordo di ciò che ci è capitato sia il risultato di una messa in comune di cose reali. Se creo una storia che parla di draghi e fate, questi ultimi sono il risultato finto di qualcosa di reale: le fate sono donne molto belle con le ali; le donne belle esistono e le ali pure, le fate sono la messa in comune di una serie di “pezzi” reali. Le diverse sfumature di esistenza sono importantissime per riuscire a raccontare una storia, proprio perché dobbiamo saper riconoscere i diversi contesti cui appartengono le creazioni e il contesto a cui noi apparteniamo.
Si porti un esempio: il narratore A crea una storia di un mondo fantastico abitato da fatine, le quali a loro volta raccontano storie di altri mondi fantastici. Le fatine che abitano il mondo fantastico, creato da A, pensano che quello sia reale, lo percepiscono, sebbene A lo ritenga finto, e a ragione ritengono finto il mondo fantastico creato da loro. Ma i personaggi inventati dalle fatine percepiscono come reale, esistente, il mondo che abitano. E così chi scrive questo articolo ritiene finto l'esempio creato ma reale il mondo che abita. Tutto questo sta a significare che inevitabilmente ci sono dei contesti e dei criteri di esistenza per cui una cosa è reale – cioè la posso percepire – oppure è finta. Oltre a questi criteri di base, però, ce ne sono altri che necessariamente bisogna tener presente. Se non posso invitare a cena Jean Valjean questo non significa che egli non sia una fonte incredibile di insegnamenti, o se non posso stringere la mano a Paolo e Francesca questo non implica che non mi possa commuovere quando Dante crea la loro storia. I messaggi, i temi universali trattati nei grandi classici o nelle tragedie greche come faccio a dire che non esistono?
Sempre in riferimento al V canto dell'Inferno, il dialogo tra Dante e Francesca è inventato, e non è avvenuto realmente; anche una delle più tenere e innocenti domande mai poste, che Dante rivolge a alla peccatrice, è una creazione:
« Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri? »
È una domanda questa che ogni essere umano in modi diversi si pone, perché la nostra vita è rivolta a imparare giorno per giorno ad amare. Sebbene questo dialogo non sia avvenuto realmente, tuttavia esiste, perché noi – esseri reali – possiamo riconoscerci nel personaggio di Dante, perché realmente lo viviamo giorno per giorno. Quando la finzione plasma la realtà, ce la fa vivere in un altro modo, da una diversa prospettiva. E questo perché? Perché l'uomo da quando ha iniziato a respirare cerca di capire se stesso. E ogni suo pensiero e quindi azione è rivolta a questo, alla Verità. L'uomo da Talete a Severino sta cercando di capire quale sia il Principio di tutte le cose, e la letteratura, l'arte lo aiutano in questo viaggio. Questo è il valore della letteratura: cercare di avvicinarsi all'Assoluto, alla Verità, a partire dal sentimento, dalle emozioni, attraverso la finzione e cioè un modo diverso di plasmare la realtà. La letteratura vive del vibrante anelito alla Verità, all'Assoluto.
Il celeberrimo mito della caverna di Platone è una finzione ed esiste perché vive nella verità, perché la ricerca, e di essa se ne nutre. Cerca di esprimerla nel modo migliore per arrivare agli interlocutori, per essere utile al prossimo. Un pensiero e un'azione grandi quelli di Platone! Ricordiamo, infatti, che colui che esce, per essere veramente filosofo, deve rientrare nella caverna, affrontando gli insulti ed essere disposto anche a morire pur di cercare di salvare gli altri uomini, pur di indicare loro la retta via. E tutto questo attraverso una delle più strabilianti finzioni!
Anche per questo la finzione si distingue dall'inganno. Essi hanno lo stesso meccanismo cioè quello di plasmare la realtà e creare immagini. Si distinguono, però, per il fatto che hanno un diverso scopo, una missione (vocazione) diversa: l'inganno cade nella contraddizione perché cade nel male cioè nel non ricercare la verità. La finzione invece ha come fine la verità.
A questo punto, però, si pone un altro problema: come si fa a capire se un'opera può essere considerata letteraria oppure no? Cosa si può definire letteratura e cosa no?
Se per letteratura diciamo che è una raccolta di testi scritti, allora anche il foglietto su cui scriviamo la lista della spesa è letteratura. A un'affermazione del genere potremmo scandalizzarci, ma pensiamoci un po' su. Uno dei primi testi della letteratura in volgare è l'Indovinello veronese:
« Se pareba boves, alba pratalia araba,
(et) albo versorio teneba, (et) negro semen seminaba.
Gratias tibi agimus omnipotens sempiterne deus. »
[Spingeva innanzi i buoi, arava bianchi prati
teneva un bianco aratro, seminava un nero seme.
Ti rendiamo grazie onnipotente sempiterno dio.]
«Il gesto è distratto, quasi casuale: tuttavia quelle parole assumono per noi, tanti secoli più tardi, il valore altissimo di un'allusione (involontaria, certo, ma di grande fascino) all'importanza che la scrittura ha nella conservazione e nella trasmissione delle idee» afferma Corrado Bologna in Rosa fresca aulentissima. Nel momento, infatti, in cui l'indovinello è stato scritto, l'autore avrebbe mai pensato di aver compiuto un gesto tanto grande? Naturalmente no! E allora il nostro foglietto? Anch'esso è così importante? Potrebbe esserlo magari tra duecento anni quando forse non si avranno più fogli di carta tra le mani; allora se qualcuno trovasse il nostro foglietto, quest'ultimo verrebbe messo in un museo. Ma perché? Semplicemente perché ne viene riconosciuto il suo valore. Diventerebbe un aggancio con il passato, un modo per conoscere un'epoca, le sue abitudini, i suoi cibi. Oggi però non verrebbe considerato un pezzo da museo, al contrario verrebbe buttato nel cestino. Questo perché oggi non avrebbe valore, non ci aiuterebbe a comprendere, non potrebbe essere contenuto nella letteratura del nostro tempo. Analizzare il proprio tempo ci fa capire ciò che appartiene solo al nostro tempo e ciò che è appartenuto a ogni tempo. Tra un'opera che appartiene solo a un tempo X e una che appartiene ad ogni tempo ha più valore la seconda sebbene la prima abbia comunque una sua importanza.
Il grande Hegel in Lineamenti di filosofia del diritto scriveva: «Comprendere ciò che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. Per quel che concerne l'individuo, del resto, ciascuno è un figlio del suo tempo; così anche la filosofia, è il tempo di essa appreso in pensieri.» La filosofia è il proprio tempo appreso attraverso il pensiero: dobbiamo comprendere il nostro tempo senza dimenticare ciò che è stato, per migliorare quello che verrà attraverso la conoscenza di noi stessi, avvicinandoci sempre più all'assoluto e ricordando, come sempre Hegel c'insegna, nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, che «Il vero è l'intero. Ma l'intero è soltanto l'essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell'assoluto devesi dire che esso è essenzialmente Resultato, che solo alla fine è ciò che è in verità.»
Capendo il valore di un'opera e quindi il suo rapporto con la Verità, possiamo capire il valore della letteratura. È complesso studiarne i diversi e molteplici aspetti. Carola Barbero in Filosofia della letteratura elenca una serie di teorie che si propongono di studiare, e dare risposta ai problemi che le opere presentano: il rapporto autore lettore, quello tra autore e l'opera, la funzione dell'autore, del lettore e quindi del testo, i personaggi delle opere. Oppure su quale possa essere il valore della letteratura: ci si interroga sul valore cognitivo e qui ci sono due correnti: i cognitivisti e gli anticognitivisti tra cui Stolnitz che ritiene la verità artistica non sia «molto diversa da uno sport – o un semplice divertimento». Poi ci si interroga se la letteratura sia portatrice o meno di un valore morale, come se il bene fosse separato dal bello. Gli immoralisti ritengono che la letteratura per aver valore non debba possedere un contenuto morale; i moralisti forti invece portano avanti la tesi opposta: il «difetto morale» condanna un'opera; e poi ci sono i moralisti moderati che cercano una via di mezzo.
Per parlare del bene, però, devo parlare di giustizia, di bello, di felicità, essi si implicano vicendevolmente, sono parti dell'assoluto, una parte non può vivere senza l'altra perché è nella relazione con la totalità che si conosce. È necessario, quindi, far attenzione a non assolutizzare la parte pensandola come separata dal resto: Boccaccio nel Decameron si è permesso ogni sorta di oscenità, spiegando poi alla fine che era necessario parlarne per mostrare in che stato si era ridotto il popolo durante la peste. Per questo il Decameron deve essere considerato un'opera di valore solo per le parti oscene (immoralisti), oppure un'opera decaduta proprio a causa di quelle parti (moralisti forti) oppure una via di mezzo (moralisti moderati)? Il valore di un'opera sta nel suo studium, nell'amore per la conoscenza. È necessario ricercare ciò che davvero aiuta nella comprensione di un'opera e quindi nella via per decifrarne il valore, per riuscire a stabilire così cosa è letteratura da cosa non lo è.
Hegel in Scienza della logica afferma che la destinazione dell'uomo, la sua vocazione, la sua missione è la ragione; ed è quindi il cercare di capire se stesso di tendere alla verità. E per fare ciò non serve a niente la banale elencazione delle più disparate teorie empiriche su che cosa sia la letteratura se non ne ricerchiamo lo scopo, la sua essenza, dal momento che le stesse teorie sono condannate a un'antinomia ritenuta insuperabile.
Il valore della letteratura corrisponde a quanto essa viva per avvicinarsi un po' alla volta all'assoluto. La parte ha senso solo in relazione al tutto. Si ascolti Dostoevskij in Delitto e castigo:
« Passarono cinque minuti. Lui andava sempre su e giù tacendo e senza guardarla. Alla fine le si accostò; i suoi occhi brillavano. La prese per le spalle con entrambe le mani e fissò dritto il suo volto piangente. Il suo sguardo era secco, infiammato, acuto, le sue labbra avevano un forte tremore... D'un tratto si piegò rapidamente tutto e, caduto in ginocchio sul pavimento, le baciò un piede. Sònja, atterrita, si scostò da lui come da un folle. Ed effettivamente aveva l'aria d'uno completamente folle. - Che fate, cos'è che fate? Davanti a me! - mormorò impallidendo, e d'un tratto il cuore le si strinse forte forte. Lui si rialzò immediatamente. - Non mi sono inchinato a te, mi sono inchinato a tutta la sofferenza umana -. »
La letteratura, i grandi classici mirano all'universale, a ciò che accomuna ogni uomo; e attraverso la finzione, attraverso vari modi di plasmare la realtà cerca di scoprire, di svelare, e di adempiere a quel grande comandamento del “Conosci te stesso”.
21 agosto 2019
DELLA STESSA AUTRICE
Il sacrificio nel e per il bene: una vittoria!
"No, non potrai... bagnare la mano di sangue!"
"La miseria offre, la società accetta"
Tra fango e lacrime ma in un eterno sole d'amore
Pensare per non morire di fame
Noi: una piccola parte di totalità
Il nostro super-potere: il pensiero critico
"Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior"