È sempre difficile superare un momento di difficoltà e nel tentativo di lasciarci alle spalle questo momento, cerchiamo di fare piazza pulita: quando viviamo un dolore particolarmente forte vogliamo liberarci di tutte le relazioni che ci possano ricordare quella situazione, finendo così per eliminare anche quello che di buono era presente.
Davanti ad una persona che soffre, che ha vissuto recentemente un trauma importante, che non riesce ad uscire da una situazione complicata, è sempre difficile dire qualcosa. Qualsiasi espressione potrebbe risultare inopportuna, banale e superflua di fronte all’esperienza che l’altro sta vivendo. Questa è la storia di ognuno di noi, delle nostre relazioni, delle nostre amicizie, ma è anche la storia del pensiero filosofico, in modo particolare del pensiero filosofico moderno. Di fronte all’esperienza straziante delle guerre e dei totalitarismi l’uomo si è paralizzato, perdendo la fiducia nella capacità di pensare rigorosamente. Non c’è spazio per progettare un futuro, per assaporare le gioie che la vita può offrire. Amicizia, amore, onestà, fedeltà sono tutte dimensioni che vengono rigettate, in quanto necessitano di una forte coerenza e impegno nel tempo, il quale è visto come incerto e inaffidabile. In questo momento l’uomo non è pronto a trarre piacere da tali dimensioni della vita: sopraffatto dalla paura da lui stesso causata, vive in una condizione amorfa, priva di qualsiasi impatto sulla realtà.
Queste le parole di Scheler in L’eterno nell’uomo al termine della Prima Guerra Mondiale:
« Il fallimento di tutto quel patrimonio comune di norme morali e di criteri per la valutazione degli eventi spaventosi nell’ambito morale, che questa guerra ha portato con sé, non sembra essere più superabile. Che l’Europa non possieda più un’autorità sovranazionale universalmente riconosciuta è un dato di fatto ̶ oltre il superamento di tutti i limiti del diritto internazionale ̶ il cui significato non era mai emerso, sin dai tempi del declino del papato medioevale ̶ quale forma di una simile autorità adorata universalmente ̶ , con una chiarezza così terribilmente viva nella storia dell’Europa occidentale come durante questa guerra. Ma con questo sta alla pari un altro fatto: come si è rivelata effimera, mutevole e nulla la pretesa della cosiddetta scienza priva di presupposti […] di sostituire un’autorità spirituale di quel genere, che operava con il concorso del suo prestigio morale e della sua tradizione santificata a livello europeo. »
L’orrore della guerra, e il pensiero che sia stato l’uomo a volerla, mettono in discussione le effettive capacità delle persone di poter costruire un futuro solido. Quei valori, che si pensava possedere, sono stati spazzati via da una forza più grande: quella della violenza e della distruzione. L’uomo ha perso la fiducia di poter dare una propria impronta al presente, così qualsiasi cosa è diventata effimera e priva di significato. Ognuno cerca di portare avanti un futuro per conto suo, vivendo nell’immediatezza e godendo di oggetti facili da reperire come sesso, denaro, alcool, droga.
Dall’inizio dell’epoca moderna, da quando, parafrasando Hegel, la nave della nostra ragione è tornata al porto urlando “casa”, per la prima volta essa si sente straniera in casa propria. L’uomo non è a suo agio nella veste che si è dato, lasciando gli affari domestici nel caos relativista. Riprendendo però quanto detto da Scheler, non ci sentiamo in diritto di accusare le guerre di questa perdizione della ragione, o meglio, esse sembrano essere l'ultimo fattore determinante in ordine di tempo. Il problema sembra situarsi più a monte, in particolare quando l’autorità papale ha iniziato a diminuire la sua forza: la ragione era quindi straniera in casa propria già da tempo, ma emerge solo ora questo aspetto in modo rilevante. Il pensiero, nel far ritorno a casa, ha dovuto abbatterla e ricostruirla. Il tentativo svolto dalla scienza moderna, di rimpiazzare l’autorità della Chiesa con quella della ragione, sembrava portare buoni frutti, poi è arrivato il ‘900 ed è stata persa ogni speranza. Si è passati dalla fede nella verità rivelata, alla fede nelle certezze scientifiche, con il pensiero sempre lasciato in panchina. Dopo i drammi del secolo breve la ragione ha pensato che il problema fosse se stessa nella sua totalità e non parti di sé che erano fuggite dal suo ordinamento. L’eredità della Chiesa era difficile da cogliere, il suo prestigio morale e tradizione non sono cose che si possono ottenere nel giro di pochi secoli. I motivi della ragione erano troppo deboli per resistere a parti oscure di sé che prendevano il sopravvento, così l’interesse personale di alcune persone è stato più forte delle norme valoriali della comunità. Il pensiero, che avrebbe dovuto mutilarsi la gamba andata ormai in cancrena, ha finito per togliersi la vita. Il negativo emerso dalle guerre non è stato circoscritto a delle motivazioni ben precise, ma si è data la colpa alla ragione nel suo intero, approdando così nel relativismo.
Il tentativo di togliersi la vita può essere visto come un atto d’amore, necessario e inevitabile: è la storia dell’uomo che si fa presente in un determinato periodo storico: è la storia di tutti noi. È sempre difficile superare un momento di difficoltà e nel tentativo di lasciarci alle spalle questo momento, cerchiamo di fare piazza pulita: quando viviamo un dolore particolarmente forte vogliamo liberarci di tutte le relazioni che ci possano ricordare quella situazione, finendo così per eliminare anche quello che di buono era presente. Il dolore, se arriva e non si è preparati, mette in crisi l’ordinamento quotidiano e lo rivaluta completamente. Siamo paralizzati e, come cuccioli appena nati, ci fanno male gli occhi nello stare a contatto con la luce.
Cosa fare allora? Come comportarsi di fronte ad una dimensione così grande della vita come quella del dolore? Come uscire da questa paralisi?
Prendere coscienza che non siamo soli, che ciò che facciamo influisce sulla vita degli altri, che la nostra volontà è capace di determinare le sorti del mondo. Guardare al passato è inevitabile per capire come agire nel futuro. Tutto ciò che di male c’è stato siamo stati noi a produrlo: il colpevole dobbiamo cercarlo dentro noi stessi. È giusto avere questo senso di colpa affinché si possa analizzare cosa abbiamo sbagliato; altrimenti, se rimaniamo ad un’indagine superficiale, non potremmo mai rinvenire le possibili soluzioni. L’uomo molte volte ha smarrito la via nel corso della sua storia, ma non l’ha fatto proprio perché veniva da un lungo cammino? I suoi errori non sono parte di un processo che lo stava spingendo al miglioramento? Scavando dentro di noi sembra proprio essere così: tutti gli errori che facciamo sono causati da un difetto di conoscenza; non sbagliamo perché vogliamo il male, tant’è che quando capiamo di aver sbagliato ci viene già in mente come avremmo potuto fare diversamente. Sbagliamo perché ci stiamo provando, perché stiamo inseguendo qualcosa di talmente grande che molto spesso ci può sembrare oscuro. Ciò che non dobbiamo perdere è la lucidità di capire che siamo noi stessi gli autori del dolore, ma anche la fonte della possibile soluzione.
« Ed ecco alcuni uomini, portando sopra un letto un paralitico, cercavano di farlo passare e metterlo davanti a lui. Non trovando da qual parte introdurlo a causa della folla, salirono sul tetto e lo calarono attraverso le tegole con il lettuccio davanti a Gesù, nel mezzo della stanza. » (Luca, 5, 18-19)
La paralisi la crea l’uomo e grazie al suo impegno nel perseguire l’obiettivo può anche guarirla. Ma siamo sicuri che basti questo? Nel guardare il brano del Vangelo mi preme sottolineare un particolare di capitale importanza. Il paralitico non può muoversi, com’è possibile allora un suo possibile cambio di rotta e miglioramento se è fermo? Viene portato da degli uomini da Gesù, non può andarci lui da solo. È questo il punto cruciale del discorso. Da soli non riusciamo a fare niente; se non ci sentiamo voluti bene, apprezzati, amati, non riusciamo a vincere la sfiducia del presente, di quello che ci fa star male. Far vedere le nostre ferite e riflettere assieme a chi riteniamo più affidabile sembra essere il primo passo per sanarle. Vedendo che non siamo soli, che qualcuno condivide i nostri stessi valori e che anche l’altro partecipa alla sopportazione di qualche dolore, siamo indotti ad avere uno spirito diverso per affrontare il presente, una speranza nuova nel futuro e meno rancore nel guardare il passato. Sia le nostre paralisi, che i dolori provocati dall’umanità, se visti in un’ottica di amicizia, di comunione, di eternità, possono e devono diventare motivo di crescita e rilancio. Riconoscere che non siamo soli e che il confronto serve a migliorarci: questi i punti di partenza per andare oltre al dolore e al relativismo che ci paralizzano.
8 aprile 2019
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