La scuola che distrugge

 

La scuola ha perso la capacità di insegnare agli studenti non solo cosa serva sapere, ma soprattutto come pensare.

 

G. Costantini, "La scuola del villaggio" (1844)
G. Costantini, "La scuola del villaggio" (1844)

 

Nel pappagallesco mondo dell’istruzione odierna, soprattutto superiore ma in alcuni casi anche universitaria, coloro che vengono premiati ed ottengono voti più alti sono gli stessi che in classe non parlano mai, così da ottenere il mitico “10 in condotta”, che sanno ripetere qualsiasi concetto a memoria, ma che spesso non riescono a dare un’interpretazione personale dei contenuti, ad avere un pensiero riguardo ad essi e che vada oltre questi contenuti. La scuola ha perso la capacità di insegnare agli studenti non solo cosa serva sapere, ma soprattutto come pensare. Non è un caso che l’Italia sia il paese con il tasso di analfabeti funzionali più alto al mondo (circa una persona su tre). Ciò significa che un italiano su tre è in grado di leggere ma non di comprendere un testo scritto, e non un testo di Dante, Kant o d’Annunzio, ma anche un semplice annuncio pubblicitario. Questo ha delle ovvie ripercussioni negative sul livello intellettivo e culturale di tutta la società, e in particolare su una società democratica dove la popolazione è tenuta a partecipare attivamente alle istituzioni.

 

Una volta riconosciuto il problema bisogna però chiedersi da dove esso sia sorto e come risolverlo. Come ci siamo ritrovati, dunque, ad avere una percentuale così alta di analfabeti funzionali? La risposta è chiara e semplice: la responsabilità è in primo luogo del sistema scolastico, in quanto appunto primo responsabile dell’educazione e dell’istruzione della popolazione.

 

Ma come è successo tutto questo? Com’è che il nostro sistema di istruzione è così scadente? Tutto questo è successo perché si continua a preferire una didattica non basata sul dialogo, sull’esposizione di problemi e la ricerca di soluzioni, ma solo sulla ripetizione e memorizzazione di nozioni, che si rivelano vuote se non si insegna anche come applicare quelle nozioni, se il loro apprendimento non è accompagnato da una riflessione su di esse, se esse non vengono inserite in un contesto in cui si mostri il loro significato autentico.

 

La scuola ormai è diventata un luogo di trasmissione telegrafica del sapere che non solo non pretende alcun ruolo attivo da parte dello studente, ormai è ridotto al rango di pentolone in cui gettare le nozioni più disparate secondo un programma deciso dal Ministero; ma in essa nemmeno gli insegnanti sembrano avere quel ruolo attivo di “guide” attraverso la materia, ridottisi anch’essi a seguire un “testo”, il “manuale” e a ripetere e far ripetere agli studenti le nozioni in esso contenute. Ecco così la deriva della scuola, che da strumento di “creazione” del sapere, diventa l’opposto: luogo di cristallizzazione del sapere e di appiattimento della conoscenza su nozioni estrinseche, morte, vuote.

 

D. Induno, "La scuola delle sartine" (1858-60)
D. Induno, "La scuola delle sartine" (1858-60)

 

Come uscire allora da questo paradigma, da questa paralisi? Cambiando il nostro modo di intendere e fare istruzione. Al di là dell’assurda contrapposizione che si fa oggigiorno tra la didattica delle conoscenze e l’agognata didattica delle competenze, dimenticandosi che la competenza per fare qualcosa proviene dalla conoscenza che si ha intorno alla cosa stessa, dovremmo piuttosto concentrarsi su quali siano le conoscenze e quindi le competenze da dare agli scolari: se le conoscenze che trasmettiamo sono semplicemente nozioni da imparare a memoria e ripetere per prendere un 10 e mettersi l’anima in pace, le competenze che ne risulteranno rigide e inquadrate tanto quanto le nozioni imparate, e difficilmente potranno essere applicate alla dinamicità e all'eterogeneità della vita pratica e lavorativa. La vera conoscenza di una materia infatti non dovrebbe essere solo la conoscenza nozionistica dei suoi concetti, ma anche la capacità – la competenza – di elaborare e maneggiare questi concetti in maniera originale: solo sapendo fare questo si può mostrare di avere una conoscenza vera e profonda di una materia, in grado poi di confrontarsi con il mondo.

 

Abbiamo allora necessità di un radicale cambio di rotta, con una didattica che non sia diretta a una vuota conoscenza di nozioni, ma che insegni i concetti in modo che gli studenti imparino a maneggiarli e comprenderli. Occorre che si insegnino non nozioni, in quanto tali scollegate l’una dall’altra, ma concetti, mostrando, sistematicamente, la loro interdipendenza. Serve perciò fare in modo che le conoscenze acquisite non siano vuote parole messe una a fianco all’altra solo per prendere un bel voto e godersi l’estate, ma che venga data una conoscenza che riesca a restituire una visione sistematica del mondo, che sia in grado di comprendere e interpretare l’immensa variabilità del reale e fornisca la capacità di fare questo. E ciò non si può ottenere semplicemente con quell’intellettualismo statico dominante nella didattica odierna.

 

Bisogna allora, perché la scuola non diventi un luogo di trasmissione pappagallesco di conoscenze ormai cristallizzate, che le stesse conoscenze vengano messe alla prova ogni volta che esse sono insegnate. Solo in questa maniera gli studenti possono veramente confrontarsi con ciò che stanno imparando, solo in questa maniera si può mostrare la stabilità di una posizione rispetto alle altre e quindi la sua verità. Solo così gli studenti potranno sviluppare quelle capacità che li rendono in grado di confrontarsi con un testo, di comprenderlo e di criticarlo. Solo in questa maniera saranno in grado di collegare i vari concetti ed applicarli alla complessità del mondo. Si deve dunque partire innanzitutto dall’insegnante, per il quale la scuola deve essere un luogo di messa alla prova del suo sapere nella discussione con gli studenti delle varie materie.

 

Se dunque vogliamo arginare la piaga dell’analfabetismo funzionale e della cattiva istruzione che non lascia spazio al pensiero critico, dobbiamo rivedere in modo drastico la nostra didattica e il modo di fare scuola, per privilegiare la discussione e l’apprendimento critico, indicando i problemi e cercandone le soluzioni, piuttosto che privilegiare coloro che stanno in silenzio e ascoltano un adulto che semplicemente legge da un manuale per poi ripeterlo in interrogazioni e compiti in classe. Solo in questa maniera si educheranno dei ragazzi a comprendere ciò che studiano, invece di ridurre i loro interventi a vuote ripetizioni di un libro.

 

10 aprile 2019

 








  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica