Può la questione ambientale prescindere dalla questione sociale?
Quando si affronta il tema ambientale, come peraltro quello femminista o di altro genere, si dà subito per scontato che si tratti di qualcosa di trasversale alle classi, che colpisca indifferentemente chiunque e che, pertanto, sia qualcosa su cui la preferenza politica di ciascuno non debba esprimersi. Se così fosse, si tratterebbe di prescindere dal discorso di classe, dalla destra o dalla sinistra, dalle proposte economico-sociali che si portano avanti, poiché sarebbe qualcosa di neutrale. E “neutrale”, nella misura in cui si usa questo termine impropriamente per intendere “urgente” e “di interesse globale”, lo è senz’altro: ma non lo è se si pensa che il solo modo di prendere di petto il problema sia mettere da parte la politica. Ciò che sembra vero è piuttosto il contrario, ossia che il più genuino degli interessi ecologici rimane impotente finché non si fa coscientemente politico – e, se vogliamo specificare un po’ di più, anticapitalista.
Vediamo perché. Se ci volgiamo ai nostri paesi, quelli “ricchi”, scopriamo due fatti. Il primo riguarda le calamità ambientali, che non colpiscono ugualmente ricchi e poveri. Il secondo, che invece è proprio di una certa policy borghese, si chiama gentrificazione e si accompagna alla rapina selvaggia che le multinazionali del settore immobiliare fanno nei centri delle nostre città.
Il primo punto – ben analizzato da Naomi Klein nel suo Shook economy – ci mostra come davanti a una catastrofe ambientale siano immediatamente i poveri a soffrirne di più, per svariati motivi: case peggiori, assenza di mezzi di fuga, carenza di informazioni, ecc. A ciò si somma il fatto che i ricchi, in seguito, hanno più possibilità di ricostruirsi una vita nello stesso posto, mentre spesso i meno abbienti devono fuggire altrove; e non solamente per carenza di mezzi economici, ma anche per la fortuna che fanno molti settori del capitale una volta che interi quartieri “degradati” vengono rasi al suolo dalla turbolenza naturale. Allontanati i poveri (p.e. i pescatori e i loro villaggi dopo gli tsunami) si aprono possibilità di istituire nuove zone turistiche piuttosto profittevoli per i capitalisti investitori. Non si elimina la povertà, che nella migliore ipotesi viene lanciata ancora più ai margini della città, lontana dal luccichio delle vetrine del centro, ma si ottimizza il profitto.
Questo fenomeno è chiamato in Usa razzismo ambientale, perché, essendo le popolazioni più povere quelle afroamericane, è di fatto la loro comunità quella sempre più colpita. I dati supportano questa tesi: a New Orleans, città affossata dall'uragano Katrina, dal 2000 al 2015 la popolazione di colore è passata da 323 mila a 227 abitanti, mentre la popolazione bianca è rimasta invariata.
La gentrificazione e la forza predatoria delle aziende che acquistano immobili per affittarli a turisti si comportano grossomodo nella stessa maniera. Con la scusa di riqualificare
quartieri appartenenti per tradizione alla classe operaia, gli immobili ivi collocati, che generalmente hanno bassi costi, vengono venduti a privati benestanti o aziende che vi praticano dei
restauri e ne alzano il valore, tanto che i vecchi abitanti a basso reddito non possono più permettersi di risiedervi. Così facendo vengono allontanati dal centro città, via via verso le
periferie.
Se invece ci volgiamo ai paesi poveri, quelli che una volta definivamo Terzo Mondo, scopriamo che dopotutto a creare problemi ambientali sono sempre i nostri paesi – quelli ricchi e “culturalmente avanzati” – che come governi o come aziende (con la connivenza di governi locali corrotti o troppo poveri per opporsi) perpetuano azioni che portano al disastro ambientale. Anzitutto, quando si parla di migranti che fuggono non si può che ricordare che molto spesso lo fanno a causa di situazioni ambientali e sociali insostenibili, causate dallo sfruttamento dei territori ad opera, per esempio, delle compagnie petrolifere. E mi riferisco qui alla Nigeria, dove opera anche la nostra italianissima ENI. Le medesime compagnie, quelle che poi al distributore appiccicano etichette di “green diesel”, sono le stesse che vendono ai paesi ricchi carburante raffinato e con bassissimi quantitativi di zolfo, mentre ai paesi poveri e in via di sviluppo, che non possono permettersi, economicamente, di avere legislazioni limitanti, smerciano carburante meno trattato e ad alto quantitativo di zolfo (dirty diesel).
Vogliamo parlare poi degli accordi di pesca (di “partenariato”!) che l’Unione Europea ha fatto con piccoli e poveri paesi africani? Ebbene, è accaduto questo: il problema di overfishing, che l’UE ha dovuto affrontare e che spaccia per risoluto, è in realtà stato spostato. Non si è ridotta la pesca, né quindi si è diminuita la produzione, ma banalmente è stato dato del denaro a paesi poveri come la Guinea Bissau – ci si rivolge sempre a coloro che per la scarsità di risorse non possono permettersi alcun rifiuto – per l’istituzione in mare di alcune ZEE (zone economiche esclusive), talvolta più grandi dei paesi ospitanti stessi, in cui pescare liberamente. A pescare in queste ZEE, come da definizione, possono essere esclusivamente le aziende europee, che continuano la loro attività senza neppure toccare le coste africane. Ça va sans dire: le piccole imbarcazioni locali non potrebbero neanche volendo permettersi di concorrere con i grandi bastimenti europei. Sembra che vi siano stati dei paesi che si sono rivoltati a questo tipo di accordi, come il Senegal, ma dopo il cambio del presidente, stavolta molto più vicino alla comunità internazionale, il “partenariato” è stato ripristinato.
Un'altra trovata è l’istituzione dei crediti di carbonio (EUA), che hanno permesso l’ingresso a gamba tesa della finanza all’interno delle questioni ambientali. Posto che a contare attualmente sono le emissioni globali di CO2 prodotte da uno stato, ciò che conta per misurare il progresso ecologico è la capacità di rientrare in questo limite prefissato. Poco importa ciò che la singola azienda fa, quel che conta è il risultato globale. La novità è che attraverso questi crediti di carbonio si può mantenere questa soglia attraverso la compravendita di pacchetti finanziari. Ebbene, se l’azienda x produce tante emissioni può comprare all’azienda y, più “green”, un pacchetto di “emissioni pulite”. Ciascuna azienda virtuosa può mettere sul mercato i propri EUA. Un’alternativa frequente a questo scambio interaziendale, è la possibilità per l’azienda che produce molte emissioni di comperare dei terreni in zone povere – in cui evidentemente costano molto poco – e impiantare degli alberi – magari l’eucalipto, che costa a sua volta molto meno di altre piante – di modo da raggiungere un quantitativo tale da compensare la sua scarsa efficienza ecologica. In questo modo, rimane dispensata da una riduzione di emissioni in sede produttiva.
Questa riforestazione ha ovviamente delle grosse pecche: la prima, ovviamente, è che non riduce affatto i problemi di inquinamento a cui sono sottoposti i lavoratori e gli abitanti nelle zone limitrofe alla sede produttiva. Le altre, che seguono a ruota, sono in linea di massima queste: le popolazioni locali, abitanti nei luoghi poveri in cui la riforestazione ha luogo, non hanno potere decisionale su quanto accade, e anzi capita che vengano allontanate proprio perché alle grosse aziende serve quella terra per non diminuire il profitto. Qualche ricco imprenditore dall’altra parte del mondo ha inquinato e a pagarne il conto è chi non c’entra nulla. Non si tiene neppure conto delle esigenze della biodiversità, si pianta ciò che conviene. Ci sono peraltro molti casi di green grabbing (un sottoinsieme del più noto land grabbing), e cioè il fenomeno per cui molte terre coltivate in comune da popoli indigeni vengono espropriate (a costo zero o bassissimo) per dedicarle a piantagioni utili a compensare le emissioni.
Non esiste peraltro solo la riforestazione, anche la costruzione di dighe ha il suo ritorno economico: sono gettonate perché hanno un valore in EUA molto più alto, considerato che da esse si può generare energia rinnovabile. In questo caso, come in tutti, creano disagi a popolazioni locali e spesso conflitti politici.
In ogni caso, tutto questo non solo costituisce un escamotage alla riduzione di emissioni, ma favorisce la creazione di un immenso mercato finanziario che ne regola le transazioni. Gli EUA si prestano al mercato dei derivati; si formano avvocati specializzati su questi tipi di contratto e pertanto proliferano le agenzie e gli istituti di ricerca dedicati, ecc. Anche qui, alla fine dei conti, si è riusciti a massimizzare il profitto.
Ora, anche se questo è solo un piccolo resoconto di quello che accade nel mondo, si capisce come il sincero sentimento che auspica un mondo più green e che vuole veramente cambiare le cose debba farsi carico di questi fatti e affrontare il nemico principale del nostro ambiente: il capitale.
20 dicembre 2019